Contro la misericordia (empatica)
Si è chiuso il Giubileo della Misericordia ma io cosa sia la Misericordia ancora non l’ho mica capito tanto bene.
Un po’ perché ne esistono almeno di due tipi: una buona e una cattiva.
Un po’ perché alcuni cristiani mettono alla base della Misericordia il sentimento ambiguo dell’ empatia.
L’empatia trasforma la misericordia in una forma di sentimentalismo.
Don Giussani sul punto è stato chiaro: il cristiano è una persona completa e il cristianesimo non è sentimentale, per il semplice fatto che non si vive solo di sentimenti.
Per averlo affermato è stato tacciato di integralismo.
Il laico non puo’ dire al cristiano: tu limitati a provare e a diffondere i “buoni sentimenti”, a sporcarmi le mani e a risolvere le situazioni difficili ci penso io.
Anche per questo il ciellino medio non teme di “sporcarsi le mani” (a volte un po’ troppo).
La misericordia posta al centro della vita cristiana non puo’ essere un sentimento ma un principio organizzativo della comunità.
La trappola etimologica è sempre in agguato quando si parte osservando che compassione significa “patire con”. C’ è un chiaro rinvio all’empatia, ed ecco l’errore fatale: ricondurre la misericordia all’ empatia.
I cristiani che compiono questa identificazione devono stare in guardia: l’empatia non è difendibile.
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L’empatia è il sentimento su cui fanno leva le peggiori politiche populiste, da un punto di vista sociale è qualcosa di nefasto. Ma anche nelle relazioni intime produce molti guai.
Eppure l’empatia gode di buona stampa, sul “mercato” sembra molto richiesta.
Pensate solo alla relazione di coppia coppia, di cosa è alla ricerca un innamorato?
In genere – si pensa – agli uomini interessano giovinezza e bellezza mentre alle donne il successo sociale.
Ma guardando meglio tutti sono alla ricerca di qualcuno che li capisca.
L’empatia sembrerebbe trionfare ma è necessario distinguere l’empatia dalla comprensione. E qui ci troviamo di fronte ad una matassa difficile da districare.
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Approfondendo scopriamo che l’empatia è qualcosa che fa spesso male innanzitutto a chi la prova.
Su questo punto è giusto rinviare al lavoro di Simon Baron Cohen, uno che ha selezionato diversi casi in cui livelli troppo elevati di empatia combinano guai.
A Wiky Hengelson si deve il concetto di “comunione illimitata”, qualcosa da cui scaturirebbe un’ eccessiva preoccupazione per l’altro.
C’è gente che non sa dire “no”, che non sa astenersi quando l’altro chiede.
Se seguite “amore criminale” sapete di cosa parlo.
C’è gente che ha un eccessivo istinto ad accudire: s’ intromette di continuo sacrificandosi senza sosta. E alla fine collassano.
In particolare sono le donne ad essere più inclini ad ansie e depressioni da “comunione illimitata”.
L’ empatia non solo è una guida morale inaffidabile, puo’ avere anche molte conseguenze negative per chi la pratica!
I testi buddisti distinguono tra “compassione sentimentale” e “grande compassione”. La prima va evitata poiché brucia vanamente le energie dell’adepto. La compassione autentica è “riservata e distante”.
Tania Singer ha approfondito questo argomento, consultate il suo lavoro in rete per avere delucidazioni.
La retta misericordia non implica la condivisione della sofferenza, che invece ostacola l’aiuto appropriato.
Il desiderio di aiutare e il sentimento della misericordia sono cose diverse e la differenza si riflette anche a livello neuronale, come si osserva nelle fmri.
Il sentimento dell’empatia attiva l’insula e la corteccia cingolata anteriore. Il desiderio di aiutare attiva la corteccia orbitofrontale mediale e lo strato ventrale.
Quando alle persone viene chiesto di empatizzare con chi soffre, entrano in uno stato di malessere da cui è difficile uscire. Chi aiuta è in uno stato di benessere.
Il sentimento empatico può essere una condanna. Se vissuto cronicamente conduce a stress e ad altre conseguenze negative sulla salute. A queste conclusioni conduce il lavoro di David DeSteno.
Qualcuno, come per esempio lo scienziato Marco Iacoboni, pensa che il sentimento empatico sia comunque precursore della compassione autentica.
Ma non è così, noi possiamo sentire compassione senza sentirci emotivamente coinvolti. Sul punto è illuminante il lavoro di Lynn O’Connor.
L’empatia non è né condizione necessaria né sufficiente per indirizzare in modo retto i nostri comportamenti.
Non solo l’esistenza di un sano altruismo è separato dall’empatia ma a volte confligge apertamente. L’empatia, proprio per la sofferenza che causa, è destinata a sfociare nella paralisi di chi dovrebbe attivarsi.
Ci sono molti studi preoccupati della mancata empatia tra medico e paziente. Ma l’empatia può paralizzare un medico in sala operatoria!
Se un medico immaginasse il bambino in fin di vita che ha davanti come fosse suo figlio, si paralizzerebbe all’istante lasciandolo morire.
L’empatia, dicevamo, è molto spesso una condanna, una maledizione. L’empatia dei depressi è leggendaria.
Spesso gli studenti di medicina cambiano facoltà perché troppo empatici con le sofferenze a cui sono esposti. Fanno bene!
E’ stato verificato che il medico meno empatico spende più tempo nella cura che nella ricerca di aiuto presso altri colleghi.
Massimamente pericolosa è l’empatia degli Psicologi che curano persone depresse, ansiose e spesso in condizioni emotive estreme.
Freud in persona metteva in guardia dall’empatia. Il buon psicologo entra nelle teste e guarda cosa c’è, non si lascia condannare dai medesimi sentimenti!
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Abbiamo stabilito che l’empatia spesso è un guaio per chi la prova, ma che dire della persona verso cui è indirizzata?
Quasi sempre costoro cercano il contrario dell’empatia.
Vorrebbero un dottore che non senta quel che sentono loro, che fosse calmo quando loro sono ansiosi, fiducioso quando loro sono incerti.
Il dottore che ha l’aria di avere una certa distanza e oggettività ci rassicura di più.
Su questo è interessante il lavoro di Leslie Jamison, che invito a consultare.
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A volte si confonde l’empatia con il fatto di avere avuto esperienze simili.
Ma l’esperienza, più che una fonte di empatia, è una fonte di conoscenza.
Noi parliamo con più fiducia a chi “c’è passato” non perché la cosa sviluppi empatia bensì perché chi “c’è passato” ci dà la garanzia di conoscenza.
C’è una bella differenza tra il comprendere la miseria di una persona per il fatto di aver vissuto anche noi in passato la situazione che lui vive ora e il fatto di comprenderla perché stando di fronte a lui proviamo i suoi stessi sentimenti!
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Veniamo ora alle nostre relazioni con le persone che ci stanno più vicine, le persone che amiamo. Almeno qui l’empatia potrà mai essere di beneficio?
La maggior parte delle persone vuole essere amata capita e curata. Vorremmo ricevere più cure rispetto a una persona qualsiasi, almeno quando siamo in famiglia!
Ma qui l’ empatia conta poco, fateci caso: quando siete felici per un successo scolastico di vostra figlia non lo siete per condividere il suo piacere bensì perché l’amate e volete il suo bene.
La riprova sta nel fatto che la vostra felicità sopraggiunge anche per quei successi di cui lei è inconsapevole.
Eppure molti studiosi insistono che il sentimento empatico si è evoluto per facilitare il compito dei genitori, uno di questi è Daniel Batson.
Naturalmente i genitori devono capire i loro bambini, ma nello stesso tempo adottare una prospettiva differente, per esempio quella di lungo periodo (estranea ai piccoli).
Ma c’è di più: i bambini non cercano tanto compassione quanto fiducia.
Desiderano delle mani a cui affidarsi, desiderano una guida sicura. Sul punto vale la pena di consultare il lavoro di Stephen Darwall
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C’è poi il problematico rapporto misericordia-giustizia: troppa empatia ostacola la giustizia.
Quando una persona subisce un torto desidera vendetta, desidera che il colpevole provi i suoi stessi spiacevoli sentimenti.
Heidi Lockwood ha approfondito questo istinto che fonda il nostro senso di giustizia.
Prendiamo il caso dello stupro: vorremmo che il carnefice provasse almeno un po’ gli stessi umilianti sentimenti della vittima.
Anche di fronte a delle scuse questo sentimento non si sopisce. La legge del talione è connaturata in noi. Sul punto ha lavorato Pamela Hieronym.
E’ chiaro che l’empatia con il criminale non fa che ostacolare il corso della giustizia.
Empatia e senso della giustizia non convivono bene, probabilmente non convivono affatto.
Se sai che una persona non ti tradirà mai, sai anche che quella persona ha un senso della giustizia indebolito. In caso contrario ti “tradirebbe” allorché tu facessi il male.
Mia mamma non mi tradirebbe mai, e infatti sul suo senso di giustizia non punterei un euro.
Lealtà e correttezza sono incompatibili.
Orwell descriveva Ghandi come inumano per il suo senso di giustizia parossistico: non avrebbe risparmiato neanche i familiari più intimi.
La giustizia ci chiede di trattare tutti nello stesso modo ma noi non lo faremo mai, noi abbiamo bisogno di “relazioni speciali”.
Eppure Abramo era pronto a uccidere suo figlio: di fronte alla giustizia non esistono “relazioni speciali”!
Ci sono autori come Peter Singer che – in nome dell’uguaglianza tra le creature – chiedono di non discriminare neppure tra specie differenti!
Anche il Buddah abbandonò la sua famiglia. E Gesù avvisò i suoi discepoli che dovevano essere pronti ad odiare anche il padre e la madre.
Più empatia circola, meno le “regole uguali per tutti” avremo.
Quand’anche noi giungessimo alla ragionevole conclusione per cui alcune persone (per esempio i nostri figli) non sono uguali agli altri, non si puo’ certo negare che l’empatia confligga con il sentimento di giustizia.
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Ma puo’ darsi che l’empatia sia come il latte: non serve agli adulti ma serve ai piccoli per crescere bene.
L’empatia sarebbe per i piccoli una guida morale affidabile, la base per un sano altruismo. Lo pensavano sia Adam Smith che David Hume. E lo pensa ancora uno studioso come David Hoffman.
Al polo opposto stanno i cinici: gratta gratta anche l’altruista più schietto nasconde un egoista. Di questo avviso era Thomas Hobbes, per esempio.
Cominciamo col dire che i cinici si sbagliano: forse l’evoluzione implica egoismo, ma l’egoismo dei geni, non delle persone.
Non bisogna confondere gli obbiettivi della natura con quelli delle sue creature.
E’ chiaro che l’innamorato è sospinto dalle forze della riproduzione, cio’ non toglie che le sue motivazioni per corteggiare abbiano ben poco a che vedere con quelle forze.
Se siamo gentili e altruisti probabilmente è perché i nostri antenati altruisti hanno vinto la battaglia della selezione naturale ma cio’ non intacca in nulla l’autenticità del loro altruismo.
D’altronde, anche nel mondo animale esiste un altruismo genuino, in certe scimmie per esempio (chiedere a Franz de Waal).
Anche i bambini piccolissimi sembrano desiderosi di prendersi cura tra loro. Nella nursery, i bambini si intristiscono sentendo i loro colleghi piangere.
Ma anche nei bambini come negli adulti la preoccupazione per gli altri non implica affatto empatia.
Altruismo e empatia possono viaggiare su binari diversi.
Ma forse l’empatia resta una molla dell’altruismo. Molti lo hanno pensato.
La domanda chiave: i bambini aiutano chi è in difficoltà perché provano il suo disagio?
Paul Harris ha compulsato la letteratura disponibile sul tema concludendo che tra aiuto ed empatia non c’è connessione.
I bambini che aiutano non segnalano una particolare sofferenza. Guardate la faccia della vittima e quella del consolatore per farvi un’idea.
A quanto pare l’ analogia tra latte ed empatia non regge.
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L’empatia seve a ben poco: è deleteria per la comunità, porta guai a chi la prova, non è quel che cerca chi cerca aiuto, confligge con il nostro senso di giustizia e non è utile per la crescita morale dell’individuo.
La misericordia fondata sull’empatia del “patire-con” sarà anche un sentimento nobile ma non potrà mai essere un sano principio organizzativo della comunità, quindi, seguendo l’insegnamento di don Giussani, ha ben poco di cristiano.