mercoledì 30 agosto 2017

SAGGIO Il bamboccione 2.0

Il bamboccione 2.0

Premessa: non sono un fan delle considerazioni “generazionali” a tutto campo.
 
Quando ascolto pontificare sui “giovani” assumo un atteggiamento di difesa, in passato mi sentivo a disagio di fronte all’ esperto di turno che spiegava ai giovani chi erano e cosa volevano i giovani.

Il tema è sempre così tremendamente sospetto, tutti ci sentiamo chiamati in ballo (o come genitori o come figli), e i titolisti dei giornali ne approfittano. L'ideale per grandi sparate senza sostanza, quindi occhio.

Eppure, questa volta mi sembra che oltre al fumo ci sia dell'arrosto, i dati si vanno accumulando in modo troppo massivo e troppo concorde per trascurare o minimizzare.
  
Il bamboccione 2.0 (B20) è molto probabilmente una realtà e si aggira tra noi, e siccome lui è il nostro futuro, vale la pena conoscerlo un po' meglio. Eccolo là...

E' quel tale di 14 anni che passeggia con gli amici al centro commerciale (il tempo libero lo passa prevalentemente lì). Venti metri più indietro potrai scorgere i suoi genitori, non lo mollano mai, sono le sue guardie del corpo e dello spirito. Onnipresenti pattugliano come elicotteri il mall come fosse il girello del loro piccolo.

Tra poco arriverà l'estate, la passerà per lo più al telefono nella sua cameretta.

E quando andrà in vacanza la musica non cambierà: si apparterà nella camera di albergo o su qualche divanetto degli spazi comuni con l’unica compagnia del suo smartphone. Gli avrete pur visti anche nel vostro Hotel! 

Nel suo mondo senza stagioni estate e inverno non sono poi così differenti.

Il B20 è nato dopo il 1995 ed è cresciuto con lo smartphone tra le mani. I suoi brufoli e la diffusione del telefonino sono esplosi nello stesso istante.

Non sa nulla delle epoche pre internet, Apple si è accaparrata il monopolio sulla sua adolescenza e se l’è fagocitata.
 
Che venga dalla suburbia o dai Parioli, lo stile di vita cambia poco: tutti appassionatamente a controllare il proprio account su Facebook (un’ottantina di volte al giorno).

L’individualismo è l'acqua dove nuota questo strano pesce: le tradizioni dei padri sono per lui un corpo estraneo che elude senza farci caso più di tanto.
 
E’ ossessionato dalla sicurezza e “stremito” per il suo incerto futuro, un terrore che lo consegna mani e piedi al primo politico che azzecca lo slogan giusto.

La  sanità mentale del B20 sempre in bilico: con la sua entrata nelle coorti d'analisi, le statistiche di suicidi e depressioni adolescenziali sono state terremotate.

Naturalmente è un bambinone: a 18 fa quello che gli altri facevano a 15 anni e a 13 si comporta come uno di 10: per lui l’adolescenza è un prolungamento dell’infanzia, non un preludio dell’età adulta.

Predilige le relazioni virtuali a quelle personali (sono meno impegnative). Schiva con medesima maestria sia l'impegno civile che quello religioso per starsene da solo con i suoi poco invadenti amici virtuali.

E’ molto tollerante, inclusivo, egalitario. Almeno a parole. Almeno finché si tratta di ben figurare sui social “giusti”. E quando non è esibizionismo è un modo per non avere grane. Odia le grane, è un cultore ad oltranza del conflitto minimo. 

Ha dismesso il fastidioso narcisismo dei millennial (i suoi colleghi B10 nati tra gli ottanta e i primi novanta).

E’ poco competitivo: su you tube tocca con mano la presenza di ragazzi-fenomeni che lo scoraggiano fin da subito qualsiasi attività intraprenda. Difficile buttarsi con entusiasmo nello studio di uno strumento se è virale una tipa di sei anni che suona Mozart come una concertista affemata!

Ha fatto saltare tutte le statistiche, è indubbio portatore di novità, tutti scrutano ogni sua mossa.

Alcuni lo reputano l’amaro frutto della perdurante crisi economica che dal 2007 ci attanaglia. Ma i conti non quadrano.
C’è una realtà che invece fa quadrare tutto: l’avvento dello smartphone. E' lo smartphone che l'ha ridotto così. 


Il B20 si incurva imbelle sul suo telefono dimentico di tutto e passa così la sua giornata assorbendo una montagna di tempo prima destinato altrove, è questa la sua cifra, il resto è ardita e forzata speculazione.  

Nel 2006 Facebook apre ai tredicenni, chi nasce dopo il 1993 puo’ passare su quella paralizzante piattaforma la sua adolescenza senza muovere il culo altrove. 

Come identificare il B20? Qual è il suo marchio di fabbrica? 

Ci sono alcuni segnali inequivocabili: nelle ultime 24 ore di veglia ne ha passata almeno una a scrivere al telefono. Ha un account su Snapchat. Non sa bene chi sia o cosa sia Dio (se richiesto della sua fede fa facce strane). 

Non si iscrive a scuola guida finché non premono i genitori. Convive rilassato con le minoranze più strambe, vede di buon occhio il matrimonio omosessuale e quello tra cani. E’ praticamente astemio (salvo poi, all’università, prendere sbornie colossali da autentico sprovveduto). Non confliggie quasi mai con i suoi genitori, figuriamoci con terzi sconosciuti. Nel week end nemmeno esce di casa. Finché studia non sa cosa sia il lavoro, neanche d’estate. Ama la campana di vetro in cui vive e la considera un diritto costituzionale (“safe space” per tutti). Politicamente è indipendente e de-ideologizzato, che molto spesso significa che non gliene frega un cazzo. Non smania per il sesso, lo considera sopravvalutato. Si sente sempre escluso ed emarginato dai suoi coetanei. E’ dapprima solo triste, poi depresso, infine suicida. 

Adesso chiediamoci con molta pacatezza: perché un umanità del genere è venuta al mondo? E’ forse colpa/merito dei suoi genitori? 

La famiglia non puo' tirarsi fuori, ma non dimentichiamo la tecnologia, i media, la scuola… tutto contribuisce ad edificare il bamboccismo degli anni dieci. 

ma se proprio vuoi un colpevole punta i tuoi 10 cent sullo smartphone: è quasi sempre sul luogo del delitto quando compaiono i tipici segnali del “bamboccismo”: depressione, suicidi, disturbi mentali, eccetera.  

Il timing è perfetto e anche dal punto di vista teorico è facile ideare teorie di buon senso: il telefono isola, rende vulnerabili e soprattutto, in quanto "bene di rete" per eccellenza,  è impermeabile ai provvedimenti che la singola famiglia puo’ prendere: interdirlo tout court rende il figlio ancora più escluso e fragile. 

Il B20 non vuole crescere, vorrebbe rimanere bambino per sempre. Il cellulare è il suo ciuccio e non ha nessuna intenzione di mollarlo in cambio di una vita vera, che non gli interessa più di tanto. 

A volte orecchiamo del proliferare dei porno su internet, delle feste sexy di Halloween, dei selfie discinti che ci si scambia tra compagni e compagne di scuola. a queste notizie frammentarie c’è chi sbotta: “ma come crescono in fretta!”. Sbagliato! E’ vero il contrario: crescono al rallentatore, vivono in una moviola dalla lentezza esasperante. Il web imbriglia la loro maturazione fino alla paralisi. 

Il B20 difficilmente esce di casa senza i genitori, ci vuole la gru per spostarlo dal divano dove sbraca puntualmente: impensabile per le generazioni precedenti. 

La tendenza, per la verità, era stata inaugurata dagli ormai attempati millenial, ma i loro record sono stati ben presto polverizzati. Un diplomando del 2015 esce meno di un terza media del 2009! 

E non tiriamo in ballo la crisi economica, per favore: qui il reddito dei protagonisti non cambia le cose, incide semmai – guarda caso - il possesso di uno smartphone (ubiquo nel caso dei diplomandi 2015, sporadico nei teza media 2009). 

La libertà dalla famiglia non passa neanche per l’anticamera del cervello a chi già evade con la mente in altri modi. 

Le scarse uscite di case fanno crollare anche gli appuntamenti romantici. Il flirt è fuori moda, nuove forme di verginità avanzano.
I fidanzamenti tra adolescenti si sono dimezzati. 

L’ “appuntamento” romantico è cambiato anche nei contenuti: non si esce più la sera in cerca del primo bacio ma nel pomeriggio in cerca di merce. Si va al centro commerciale: lei compra, lui accompagna (praticamente dei sessantenni). 

Al calo dei flirt segue il calo del sesso, spesso vissuto come qualcosa di sopravvalutato: una complicazione al limite dell’indesiderabile quando uno ha sotto mano mille “masturbazioni” meno esigenti. 

Grazie al B02 l’età media del primo rapporto si è alzata dopo decenni di abbassamento. Nessuno puo’ negare i molti risvolti positivi: meno “teen” incinte (record verso il basso nel 2015, record verso l’alto nei primi novanta).
Ma perché questa crescita rallentata? 

Le teorie non mancano. Eccone una che suona bene: le famiglie scelgono di avere meno figli e di investire più risorse su di loro. La dilatazione nei tempi riflette questo investimento crescente. 

Qui contesto familiare e cultura pesano. 

Esempio concreto: nella cultura precedente il successo con le ragazze del proprio figlio maschio era considerato positivo e lasciava ben sperare, ora è considerato come una minacciosa distrazione dagli impegni scolastici. Chiaro? 

Ai miei tempi, appena compiuti i 18 si correva alla prima scuola guida vicina per patentarsi. Oggi nessun diciottenne fa corse del genere: la patente non interessa, non c’è alcuna fretta di guidare se come chauffeur si puo’ avere la mamma. 

Paradosso: spesso sono i genitori che premono sui figli affinché si iscrivano. Un “generazione X” cade dalla sedia a sentire queste cose, figuriamoci un baby boomers.
Dice: ma oggi c’è UBER! 

No, non c’è UBER, c’è la mamma. Il fenomeno della patente schifata inizia molto prima dell’avvento di UBER e LYFT. 

Non dimentichiamo il prezioso contributo delle istituzioni alla cultura del bamboccismo: se vostro figlio di 10 anni percorre da solo un chilometro per rientrare a casa dal parco siete genitori da mettere sotto processo, almeno in Maryland. 

Ve lo ricordate il “ragazzo-delle-chiavi”? Studente delle medie, tornava a casa aprendo con le sue chiavi una casa vuota dove poi attendeva solo soletto il rientro trafelato della mamma lavoratrice (e magari si dava anche una mossa a mettere su l’acqua per la pasta). Ebbene, il ragazzo-delle-chiavi è una specie estinta, e questo anche se le mamme lavoratrici si sono moltiplicate! 

Vi ricordate il primo oggetto che avete comprato con i vostri soldi? Difficile che un adolescente di oggi avrà mai ricordi del genere: lui non lavora. 

Gli “studenti-lavoratori” si sono dimezzati rispetto agli anni settanta, è qualcosa di più di una semplice “diminuzione”. E includo i lavoretti estivi. 

Dice: forse i ragazzini di oggi si perdon via nelle attività extracurricolari e/o nella massa di compiti che piovono sulle loro teste dalle cattedre autoritarie. 

No. Le prime sono costanti: oggi forse si fa un po’ più di volontariato ma il fenomeno è iniziato negli anno ottanta-novanta, ben prima che il lavoro degli studenti collassasse. I secondi, dai numeri in nostro possesso, sono addirittura diminuiti. 

Ma come interpretare allora questo cambiamento? 

Per un ragazzo lavorare mentre studia è bene? Puo’ darsi di sì, anche quando non si sviluppano competenze originali ci si rende meglio conto del valore che hanno la responsabilità e il denaro. Lavorare fa bene soprattutto a chi viene da contesti disagiati.
Meno lavoro, più paghette? 

No, anche le paghette sono in calo. 

Quando il B20 ha bisogno chiede a mamma-bancomat. Per molti versi questo è negativo: la capacità di gestire somme di denaro è decisamente bassa anche tra i diplomati.
Il B20 non beve. 

Spesso si diploma senza aver buttato giù un goccio. 

La cosa è incoraggiante: chi non esulterebbe nel sapere che i 14enni beoni sono in netto calo? 

Ma c’è anche un lato oscuro della faccenda: molti di loro arrivano all’università senza saper gestire il rapporto con l’alcol. 

Anche a questa insipienza si deve il fenomeno della “sbornia colossale”, tipico delle matricole universitarie. Ecco cosa frulla in quelle testoline: “non ho mai toccato un superalcolico prima d’oggi… e voglio recuperare il tempo perduto, cazzo se lo voglio…”. 

E le droghe? Qui l’andazzo è differente: gli anni d’oro furono i settanta/ottanta, poi una pausa, e oggi un ritorno di fiamma. 

Enigma: perché un andamento diverso per alcol e droga? Perché il rifiuto dell’alcol e l’accettazione delle droghe? 

Ipotesi: le droghe sono proibite sempre mentre l’alcol è proibito fino alla maggiore età. Una generazione di ragionieri prudentoni e paurosi rinvia il consumo di alcol e se proprio deve sgarrare per divertirsi, sgarra con le droghe. Mica scemi.  

Peter Pan frequenta tutte le generazioni recenti: la paura di sposarsi, di avere bambini, di entrare nel mondo del lavoro la conosciamo tutti noi ex giovani. Ma forse ora siamo in presenza di qualcosa che va oltre: il rifiuto del rischio ha investito anche le attività ricreazionali: non si ha solo paura del mondo adulto, si rimpiangono in modo isterico le sicurezze dell’infanzia. 

Finora ho pennellato i cambiamenti mettendoli in una luce negativa. E’ un vezzo, cambiando qualche aggettivo qua e là possono essere visti come un progresso (suicidi a parte). 

Il sociologo David Finkelhor parla di “generazione responsabile”: meno alcol, meno sesso, meno rischio, meno crimini, più tolleranza. Ma queste – dice – non sono forse virtù! Siamo in presenza di una “generazione virtuosa”. 

Altri, come lo scrittore Jess Williams, parlano invece di generazione noiosa (Yawn Generation). La paura porta a calcolare tutto spegnendo ogni slancio.
Ma virtù e noia non catturano l’essenza di questi ragazzi, forse meglio limitarsi ad osservare che non vogliono crescere, sono dei bamboccioni per l’appunto. Gente parcheggiata in un angolo per un tempo prolungato che si affeziona alla propria piazzola. 

Interessante studiare il grado di connivenza dei protagonisti in questo processo che stoppa la crescita del virgulto.
E’ elevato, molto elevato. 

I genitori li controllerebbero anche nel cesso (la tecnologia assiste). E i controllati come reagiscono? 

Ti aspetti che detoni da un momento all’altro un mega-conflitto generazionale.
Invece… invece il bamboccione non si ribella.  Anzi,  pretende che il “carceriere” prosegua nella sua opera indefessa. Anela alla soffocante campana di vetro. 

Insomma, che sia ben chiaro, non parliamo di “prigionieri” ma di “complici” a tutti gli effetti.
Un parametro eloquente sono le fughe di casa: mai tanto rare. Quando l’obbiettivo è restare bambini più a lungo possibile, difficilmente si scappa dalla casetta in cui si è stati bambini e in cui risiede una mamma che ci tratta come bambini. 

L’obbiettivo ultimo dei B20 sembra chiaro: meno stress, più divertimento. E che il divertimento non sia molto stressante, mi raccomando. 

Se un tempo ci si sentiva eccitati nel compiere 18 anni, oggi l’avvicinarsi di questo traguardo fa montare la paura.  

Si arriva all’università ancora bambini, con i genitori che ti ricordano l’appello e tutte le scadenze connesse, che ti compilano il bollettino delle tasse universitarie sul remote banking e ti svegliano per tempo la mattina.
Ieri il film preferito dalle diciottenni era Gioventù bruciata, oggi è Frozen. 

Non c’è da meravigliarsi che gente con una simile mentalità pretenda il “trigger warning” e il “safe space”: parliamo di persone fragili e particolarmente esposte, anche solo una parolina fuori posto le turba per settimane. 

Siete mai entrati in un “safe space” delle università americane? Sembra la cameretta di una 13enne, con gli album da colorare e i video dei cuccioli a palla. 

Me se gli adolescenti lavorano meno, si fidanzano meno, fanno meno compiti, si vedono meno, escono meno… cosa diavolo fanno? Dove sono? 

Sullo smartphone, probabilmente.
Si tratta di ragazzi piuttosto tristi.
Una tristezza inesplicabile. Sta di fatto che verso le tre del pomeriggio, senza che sia successo nulla, scoppiano a piangere tutti insieme. Se chiedi “perchè?” non sanno rispondere. 

Online sembrano felici, fanno facce stupide ma molto sorridenti, eppure il loro umore reale è diverso. 

C’è da dire che il mondo virtuale di internet promuove “positività” a tonnellate.
L’individualismo stesso incoraggia a sentirsi bene e ad esprimere questo benessere urbi et orbi. 

I giovani protagonisti del web odierno sono meno narcisisti dei loro predecessori ma hanno anche meno aspettative: la rete stessa ha dato a tutti una calmata insegnando che da qualche parte c’è sempre un tale migliore di te, molto migliore di te; che è inutile e stressante competere, meglio sdraiarsi da qualche parte ricavandosi un piccolo e confortevole spazietto dove vivacchiare, invecchiare e godersi l’infinito repertorio della rete. Una nicchia, un nido… uno safe space. 

Ma ormai sappiamo che questo non è la panacea, il nemico è molto più insinuante del previsto. 

Anche qui: nelle classifiche sulla felicità giovanile notiamo un collasso non appena i B20 entrano nel conto. La domanda “sei soddisfatto di te?” registra risposte in netta controtendenza rispetto al passato.
Non essere invitati ad un compleanno, oggi, puo’  essere una tragedia: uno vede in tempo reale le foto della festa su Instgram pensando: “si stanno divertendo senza di me”. E giù a piangere. 

Senso di esclusione e solitudine sono più acuti di cinque anni fa. C’è chi parla di generazione FOMO (Fear of Missing Out).
Il colpevole maggiormente indiziato? Ancora lui: il telefonino. 

Difficile spiegare altrimenti la coincidenza di un cambiamento tanto radicale e contemporaneo di due fenomeni ben distinti: 1) senso di esclusione e 2) diffusione dei telefonini. Il timing delle statistiche è troppo perfetto. 

Il rapporto tempo speso sui social / tempo speso in rapporti di persona è schizzato alle stelle. 

Ma attenzione ad elaborare bene il possibile modello che vi fate nella testa: chi spende più tempo sui social, spende anche più tempo in relazioni personali. E’ il rapporto che va considerato, non il numeratore preso a sè.
Capriola: forse è la solitudine a spingere verso i telefonini. Questi ultimi sono solo una consolazione. 

No, non ci credo. Difficile spiegare in questo modo una simile impennata della malinconia. Nuove tecnologie a parte, non si vede quale possa essere stata la molla. 

Il trend riguarda tutti ma ad essere particolarmente esposte sono le ragazze.
Se esclusione e senso di solitudine vi suonano vaghi passiamo a qualcosa di più concreto: mai tanta depressione tra i giovani .
E’ facile d’altronde capire cosa passa per la testa di un giovane che scorre il suo account su Facebook: “tutti sono così dannatamente felici e spiritosi, perché io non riesco ad esserlo?”. 

La dinamica: uno posta solo i suoi successi, cosicché i fallimenti restano occultati creando un percepito che non coincide con il reale. Frequentarsi di persona evita distorsioni del genere. 

La patina di ottimismo che invade i social copre una realtà ben più deprimente. Su Instgram tutti gridano: “la mia vita è così interessantissima!”. 

Anche non registrare alcuna reazione ai propri post ti fa cadere le braccia. Cose importanti per noi che intendiamo condividere e che invece cadono nel vuoto in pochi minuti… per i più sensibili è una croce. 

Le foto hanno poi amplificato il ruolo del fisico, un argomento molto sentito dalle ragazze che cominciano a scattarsi centinaia di foto alla ricerca di quella giusta per il profilo, che non arriva mai. 

Vivere in pubblico significa vivere ipocritamente, la cosa è stressante: tutti i giorni ti svegli e vai su Facebook indossando una maschera che ti faccia apparire più interessante. Che voglia di rilassarsi essendo se stessi! 

Le foto sexy attraggono molti like ma sono anche fonte umiliante di disprezzo e derisione. Alcune ragazze non lo hanno sopportato.
Considerando una serie di varabili, quelle più strettamente correlate alla depressione sono: 1) lo screening notizie online e 2) rapporto relazioni virtuali/relazioni personali. 

Chi legge un giornale cartaceo si pone ad una distanza di sicurezza dal messaggio con cui entra in contatto, la cosa consente un certo relax. 

Il momento più distensivo della giornata è quando sfoglio il Corriere al bar mentre sorseggio il cappuccino, nessuno mi chiede nulla e io mi sprofondo in uno spazio intimo e “safe”, posso leggere anche distrattamente senza subire rimproveri, posso fare nella mia mente considerazioni superficiali che lascio in sospeso senza curarmene. 

La stessa notizia crea effetti ben diversi sui social: ti senti chiamato in causa, devi commentare, devi puntualizzare, devi chiarire, devi correggere, devi reagire a chi commenta il tuo commento… sei sempre in pista, sempre focalizzato, mai rilassato. Tutto diventa in qualche modo “personale”.  

Alla fine, chi conosce queste dinamiche, non si sorprende se qualcuno non regge.
Il B20 non vuole crescere anche perché terrorizzato dal futuro: cosa succederà domani? Potrò continuare a spippolare il mio cell in tutta tranquillità o il cielo cadrà sopra la mia testa? 

La preoccupazione si trasforma in angoscia e la cosa, oltre a riflettersi in interviste e sondaggi, si coglie anche nei dati clinici: gli episodi importanti di depressione sono aumentati del 56% se confrontiamo il 2015 con il 2010. E le ragazze sono ancora in prima fila, la loro specialità sono i tagli (braccia, gambe ma anche altrove). 

L’impennata dei suicidi adolescenziali è un fenomeno molto vagliato dagli studiosi, il  motivo è semplice: qui non si mente, le chiacchiere stanno a zero, non si tratta di rispondere alla domanda “ti senti soddisfatto” barrando una crocetta.  

Anche nei suicidi le ragazze dominano, ormai è un leitmotiv. 

L’impennata è ancor più sorprendente se si considera la diffusione crescente degli anti-depressivi. 

Tutte le statistiche ci dicono che abitiamo un mondo con sempre meno violento. Ma tutte le statistiche ci dicono anche che questo mondo è abitato da individui sempre più sensibili. 

Nulla ci dicono sull’ andamento della “sofferenza umana” rispetto al passato. Chissà mai che le generazioni del XX secolo trasformate a loro tempo in carne da cannone abbiano sofferto meno del nostro bamboccione.
Forse sbaglio, forse la salute mentale dei giovani è compromessa dalle crescenti pressioni accademiche. 

Come quantificarle? Un indicatore abbastanza affidabile è la mole dei compiti a casa, ma questi sono diminuiti. 

L’attività fisica si correla negativamente alla depressione. Forse i giovani non fanno abbastanza esercizi? Ma dai dati non sembrerebbe. 

Più probabile che l’inquietudine giovanile sia spiegata dalla loro impreparazione ad entrare nel mondo adulto. 

In altre parole,  la mancata ricerca di indipendenza presenta il conto più tardi. Si tratta forse di depressioni dettate dall’onnipresenza e dal costante pattugliamento della “mamma elicottero”.
Prima di andare a letto controlli sempre se tuo figlio dorme. No, non dorme neanche oggi. Si è ritirato un’ora fa ma ancora non dorme. 
La sua cameretta è buia, illuminata solo da quella maledetta luce blu, quella dello smartphone. 

I nostri ragazzi dormono sempre meno, solo 7 ore al giorno, quando gli esperti ne raccomandano almeno 9. Il telefono ha soppiantato anche il cuscino. 

Questi aggeggi elettronici sembrano avere un effetto deleterio sul sonno, almeno rispetto ai media tradizionali. Chi legge libri e riviste, tanto per dire, dorme benone e a lungo. Il tempo trascorso davanti alla TV non è in alcun modo legato al tempo trascorso dormendo.
Attività stressanti come i lavori domestici e i compiti ci fanno dormire meno, è vero, ma la cosa non tocca i  giovani di cui parliamo (che non lavorano e fanno pochi compiti).
La privazione del sonno non va sottovalutata, si collega a molti eventi spiacevoli: l’affaticamento cognitivo, la suscettibilità, l’abbassamento delle difese immunitarie, la tendenza ad aumentare di peso e ad avere problemi di pressione sanguigna. Incide anche sul carattere: chi non dorme è prono a depressione e ansia.  

Quella lucetta blu che illumina la stanza dei nostri figli è un chiaro segnale: il loro cervello è attivo e in pista più che mai. E’ sera, ma per loro è come se fosse giorno, sono nel pieno dello sforzo cognitivo, quasi non staccassero mai. Difficile passare da una condizione del genere al sonno, ci vuole il tempo fisiologico di decompressione per raggiungere un' adeguata condizione di rilassamento. 

Non sorprende che una generazione del genere finisca in massa dalla psicologo (anche qui record su record). Ma quelli più in pericolo sono quelli che dallo psicologo non ci vanno nascondendo il loro malessere. 

L’impennata improvvisa di alcuni parametri chiaramente collegati ad un disagio ci dice che la genetica non è tutto, che il contesto conta. Si puo’ essere predisposti alla depressione ma, per quanto sensibile sia il grilletto, occorre pur sempre un dito che lo azioni, e questo dito è l’ambiente in cui si è immersi.
I nostri giovani vedono poche chiese nel loro raggio di azione. 

In questo senso, un simbolo eloquente è la chiesa di san Giacomo ad Arnhem in Olanda, recentemente sconsacrata e riconvertita a parco per lo skateboard. Una mutazione che fa comprendere i processi in atto più di molte parole. 

Per decenni gli USA sono sembrati il baluardo della religiosità nel mondo avanzato, qualcosa da opporre ad un’ Europa completamente secolarizzata. Poi arrivarono i millennial: uno su tre rifiutava qualsiasi affiliazione religiosa (negli anni settanta erano uno su dieci). 
Tuttavia, i millennial conservavano una loro vita interiore spirituale. Ora, con la nuova generazione dei B20, puo’ dirsi estinta anche quest’ultima fiammella. La convergenza USA-UE si sta realizzando, sì, ma si sta realizzando sulla UE. 

Il B20 è stato cresciuto da un genitore agnostico o comunque tiepido in fatto di religione. Anche per questo, forse, non esiste generazione precedente con più probabilità di dichiararsi atea o agnostica.
Ma la famiglia non è tutto, c’è anche la scelta personale: la religione non interessa e non interesserà mai, si ha ben altro a cui pensare.
Se l’affiliazione è rara, la partecipazione non patisce meno. Dal 1997 è cominciata a crollare anche nei religiosissimi Stati Uniti. 

Dubbio: non è che magari si torna in chiesa quando si mette su famiglia? D’altronde il proverbio non dice: “i bambini ti portano a messa”? 

Puo’ darsi che in parte sia così: sta di fatto che i B20 sono molto meno religiosi di tutti i loro predecessori, e così limitiamo il confronto tra categorie omogenee. 

Per vent’anni ci hanno detto che le affiliazioni calavano ma che la gente continuava a pregare e a credere in Dio. Ora non è più così. Il B02 non prega e non crede, punto, c'è poco da girarci intorno.  

Se prima l’allarme era per il degrado verso una religione privata o fai da te, ora siamo oltre: è la religione tout court a vacillare.
Se sento la caterva di rosari di radio Maria mi viene spontaneo pensare: “ma quanto tempo libero ha la gente!”. La religione è anche un modo per occupare il tempo libero, difficile negarlo, riempie un vuoto. Io stesso, nel momento in cui temevo di non farmi una famiglia e di rimanere da solo, paventavo un nemico su tutti: la noia. Come trascorrere il tanto tempo libero a disposizione? Poi sono arrivati gli anni novanta e internet, e li ho capito subito che la noia non mi avrebbe mai più lambito, i nemici erano altri, la guerra per l'esistenza continuava ma il fronte si spostava altrove. 

Il B20 ha la rete, i social, i videogame… non ha certo bisogno di chiese e oratori. Non occorre un posto fisico da presidiare  per vedere “che succede” o “come butta”. Al limite occorre un parcheggio finita la scuola (la nuova funzione degli oratori), ma occorre alle mamme dei più piccoli, non al  B20. 

Se parli di fede ad un ragazzo questo fa una faccia stranita, non capisce bene. Poi, magari pensando alla nonna ottuagenaria e paralitica, dice: “puo’ servire a chi se la passa male".
La religione e le sue istituzioni sono invisibili o al più viste come pronto soccorso. 

Se il giovane prega, prega per chiedere, mai per ringraziare o lodare. 

E l’aldilà? Sparito anche quello, almeno a patire dal 2006.  

Gli adolescenti di oggi sono probabilmente i meno religiosi della storia dell’ occidente: non credono, non pregano e non partecipano. Si era molto più religiosi sotto i regimi atei e materialisti che proibivano la religione per legge. 

Naturalmente, il panorama tracciato è compatibile con il fatto che esistano ancora MOLTI giovani, MOLTO religiosi.  Occupiamoci per un attimo di loro. 

Anche costoro, per quanto preghino, partecipino e credano, non rispettano gran parte dei precetti cristiani. Esempio: hanno rapporti sessuali prima del matrimonio, e lo confessano apertamente. 

Il nuovo cristianesimo diverrà probabilmente una religione più tollerante sul piano etico, sempre meno esigente e sempre più disposta a chiudere un occhio (se non a cambiare dottrina). 

Altro fatto notevole: la perdita di religiosità riguarda i più poveri e i più svantaggiati.
La cosa preoccupa poiché la religione aiuta soprattutto loro.  Il credente lavora duro e crede nel suo riscatto, anche per questo ottiene di più e non perde il contatto con chi sta davanti. Ricordiamocene quando la stampa secolarizzata alzerà l'ennesimo lamento presentando il nuovo indice Gini.

Ma perché i giovani non sono più religiosi?
Troppe regole. 

La loro mentalità individualista non tollera un' autorità tanto perentoria quanto quella della chiesa. 

Un tempo la religione costruiva la comunità e le regole imposte servivano questo sforzo edificatorio.
Ma il B20 possiede già la sua comunità virtuale, sente come pleonastiche certe restrizioni. 

Come se non bastasse è inseguito da una burocrazia opprimente e onnipotente, se ci si mette anche la chiesa... 

Quando il B20 perfettamente secolarizzato rivolge un pensiero alla chiesa la descrive come qualcosa di intollerante,  come qualcosa che non propone ma proibisce. Come il regno dell'ipocrisia: "come si puo' amare tutti tranne i gay...". 

Noi cristiani abbiamo un unico salvagente a cui aggrapparci: ancora oggi (e chissà per quanto) la grande maggioranza delle persone considera come un fatto negativo la perdita di religiosità nei giovani (e non solo). 

Diamo ora giusto un occhio a chi ha saputo contenere l'emorragia di adepti: gli Evangelici. Ebbene, le loro chiese offrono al credente un servizio completo, creano relazioni personali e propongono un senso forte. E qui viene il dubbio che intiepidire la proposta religiosa potrebbe essere fatale anziché salvifico. 
Forse la religione del futuro sarà un mix delle due conclusioni a cui siamo pervenuti: un po’ meno regole etiche ma un ancor più potente coinvolgimento spirituale ed esistenziale. 


Per chi vuole approfondire:
iGen: Why Today's Super-Connected Kids Are Growing Up Less Rebellious, More Tolerant, Less Happy--and Completely Unprepared for Adulthood--and What That Means for the Rest of Us -
Jean M. Twenge