In autostrada c’è stato un incidente, cominciano a formarsi delle code, si procede a rilento fino al blocco del traffico.
Esiste un’alternativa: uscire dall’autostrada e imboccare la statale.
L’Onda Verde riceve la segnalazione e deve divulgare la notizia.
Dire semplicemente come stanno le cose è controproducente per la circolazione: tutti uscirebbero dall’autostrada intasando la statale con effetti ancor più gravosi.
Da un rapido calcolo dei flussi si deduce che il rapporto ottimale tra chi resta e chi esce è di 60/40. Come comunicare la notizia per produrre questo esito?
Ci vorrebbe un mago della linguistica, ma che sia anche un mago della psicologia applicata, ma che conosca intimamente la cultura locale. Ci vorrebbero molte cose per elaborare il messaggio più idoneo. Si fa quel che si puo’.
Di certo non si puo’ dire papale papale che “l’autostrada è bloccata”, come in realtà è: si otterrebbe – almeno in un paese dalla cultura piuttosto ingenua - un rapporto disastroso di 0/100, che manderebbe in tilt la circolazione complessiva.
Si dovrebbe provare allora con messaggi più sfumati del tipo: “causa incidente si procede a rilento sull’autostrada nel tratto…”. Oppure un ancor più ambiguo: “code causa incidente all’altezza…”. In alternativa si potrebbe dare un chilometraggio ad hoc della coda calibrato per ottenere l’agognato 60/40. Di sicuro l’esperienza passata aiuterà a mettere insieme il messaggio generico al punto giusto. Sì, ecco: più dell’algoritmo puo’ l’esperienza e gli errori passati.
Una cosa è certa: il messaggio ottimale produrrà il rapporto 60/40 senza far perdere all’ Onda Verde quella autorevolezza necessaria per gestire analoghi problemi che senz’altro si presenteranno a breve.
L’enigma affrontato dall’Onda Verde mette in luce quanto in una società ben ordinata sia importante l’ambiguità delle parole.
I “principi” servono anche a questo: sono una valida alternativa alla precisione chirurgica della regola mirata.
I “principi” sono regole molto vaghe. Sono comandi in cerca di una situazione concreta in cui incarnarsi. Finché non vengono specificati suonano talmente bene da poter essere sottoscritti da tutti in buona fede. Il legame tra principio e regola è molto lasco e dipende dall’interpretazione contingente. I principi non sono mai mirati ma consentono il lusso di aggiustare continuamente il tiro.
Molti si lamentano della nostra legislazione, si dice che sia scritta male, che sia confusa, labirintica e chi più ne ha più ne metta. Molto spesso questa situazione caotica è il frutto di buone intenzioni: in nome della certezza del diritto si desidera essere precisi senza lasciar nulla al caso, si desidera costruire un edificio coerente nei minimi particolari. Ma spesso essere precisi è controproducente e ci precipita in un caleidoscopio nel quale si perde l’orientamento.
A volte, solo a posteriori noi sappiamo chi sono i buoni e i cattivi, cosicché, in teoria, la cosa migliore è fissare le regole solo a posteriori. Ma poiché un’operazione del genere suonerebbe arbitraria, si fissano dei “principi” a priori per rinviare a dopo la loro interpretazione concreta. In questo modo avremo dei “principi” incontestabili e delle interpretazioni non del tutto arbitrarie. Un simile paradigma richiede che il giudice finale sia anche un po’ legislatore, ma questa non è una stranezza della storia: in passato, specie nei paesi di common law il giudice era di fatto il legislatore della nazione.
Quando il “principio” funziona meglio della “regola”?
Il governante affronta due problemi differenti. Ci sono i “problemi algoritmici”: per quanto ostici hanno una soluzione chiara e ben definita, basta applicare l’algoritmo corretto per scovarla. In questo caso lo strumento della “regola” s’impone come il più efficiente.
Poi ci sono poi i “problemi scacchistici”: qui il governante interagisce con il governato, una legge all’apparenza ottima viene successivamente degradata dalla reazione del governato cosicché necessita di una revisione, e così via all’infinito. In casi del genere lo strumento del “principio” è il migliore per uscire dal gioco di specchi.
Ma qui è meglio fare un paio di esempi.
L’evasione, per esempio, è un problema scacchistico: dare delle regole precise produce elusione, ovvero evasione legalizzata. Per riparare, piuttosto che invischiarsi in una legislazione bizantina e soffocante, meglio allora ricorrere a principi generici come per esempio quello dell’ “abuso del diritto”: nel momento in cui riconosco l’evasore, grazie a questo principio, lo condanno senza bisogno di dimostrare – cosa impossibile - che abbia violato una regola specifica e pre-determinata.
Un altro esempio di problema scacchistico è quello legato al “capital requirements” nel settore bancario: quante riserve devo detenere io banca per fare certe operazioni a rischio sul mercato aperto? In altre parole: quanto puo’ esporsi una banca? Una caterva di regole cercano di risolvere questo problema senza ingessare il sistema ma di solito le regole date dopo aver sperimentato una crisi di sistema sono solo i semi della crisi successiva. Gran parte dei disastri finanziari recenti derivano dal tentativo di eludere i vincoli dettagliati stabiliti per rimediare a squilibri passati da un regolatore che si credeva certosino. Con la normativa di Basilea, per esempio, il regolatore pignolo si addentrava nella giungla dei titoli azionari/obbligazionari per stabilire caratteristiche e rischiosità annessa, cosicché gli operatori, sempre pronti a reagire, s’inventarono la costruzione in laboratorio di contorti titoli assicurativi in grado di guadagnare punti nella meticolosa tassonomia del rischio. In poche parole: i titoli tossici nascono anche e soprattutto dagli accordi di Basilea. Ebbene, anche qui, perché non ricorrere ai “principi” anziché alle “regole certosine”.
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