Tesi: in ogni persona che si entusiasma per le imprese sportive dei grandi atleti riposa un nazista.
Di sicuro i regimi dittatoriali sono ricorsi in modo massiccio alle manifestazioni sportive per raccogliere consenso e rafforzare la coesione popolare, ma qui vorrei evitare impropri sillogismi del tipo: “siccome Hitler amava gli animali, chi ama gli animali è un criptonazista”. No, qui vorrei tirare in ballo l’essenza del nazismo al netto, per esempio, delle forme contingenti di propaganda che ha utilizzato per affermarsi.
Il problema fondamentale di tutti i nazionalismi è l’adorazione di astrazioni come la Bandiera, la Nazione, il Popolo. Ma questo è esattamente cio’ che fa un tifoso: adora la sua squadra, la Nazionale... Quanto più cresce questa adorazione, tanto più gli individui singoli diventano intercambiabili, l’unica cosa che conta è servire la causa: l’uomo è visto come soldato e la donna come fattrice. Questo, secondo me, è un atteggiamento sbagliato poiché l’individuo è l’unico soggetto concreto, l’unico in grado di provare piacere, dolore, soddisfazione, tristezza eccetera, cosicché dovrebbe essere la squadra al servizio dell’individuo e non viceversa. Ma questo è inconcepibile sia per il nazista che per il tifoso. Qualcuno, in un disperato tentativo di salvare lo sport, sostiene che i due nazismi sono sostitutivi ma la mia idea è che invece si rafforzino l’un l’altro.
Fortunatamente, la commercializzazione dello sport ha attenuato lo chauvinismo: oggi la Nazionale conta meno di una volta e parecchi atleti arrivano a rifiutarne la convocazione per curare meglio i propri interessi e la propria carriera. Resta però intatto il concetto di squadra e di tifo e forse i localismi sono ancora peggio che i nazionalismi.
Ma che dire dell’interesse per l’atleta singolo che compie un’impresa alle Olimpiadi? Qui non sembra che possano applicarsi le categorie di “squadra” e di “nazionalismo”. Si tratta allora di una “sana” ammirazione?
No.
Per capire meglio questa risposta lapidaria bisogna tornare nel Fuhrerbunker a Berlino nell’aprile del 1945. In quei momenti drammatici, cosa pensava Hitler della sua “squadra”, ovvero della sua Germania che stava soccombendo? La disprezzava. Perché? Aveva forse abiurato al Nazismo? No, usciva invece la quintessenza del suo nazismo, ovvero l’amore per la Forza. E’ la Potenza del vincente che ammira il nazista prima ancora che la comunità d’appartenenza: Hitler esaltava la Germania perché la riteneva Forte e Vincente, nel momento in cui si mostrò debole e perdente cominciò a disprezzarla.
Ma cio’ a cui dava valore Hitler è proprio cio’ che valorizziamo noi quando ammiriamo le imprese di Carl Lewis e soci: un’esibizione di una forza senza pari che ci lascia estasiati.
In un mondo di risorse scarse all’ammirazione per il Forte segue necessariamente il disprezzo per il Debole. Le medaglie sono scarse e noi decidiamo che a meritarsele è il Migliore.
La Forza e il Talento sono essenzialmente doti genetiche ma noi non siamo interessati a questo fatto: Carl Lewis merita in pieno la sua medaglia poiché riteniamo implicitamente che chi perde alla lotteria dei talenti valga meno di chi vince. Tanto è vero che con disdegno consideriamo dopato il boxeur che per vincere la paura altera il suo carattere naturale assumendo droghe come il Modafinil.
Il disprezzo verso i deboli puo’ prendere diverse forme che vanno dall’aggressività (Hitler), al paternalismo (democrazie contemporanee). Nello sport moderno il disprezzo verso i deboli si esprime attraverso la dimenticanza: di loro non c’è traccia nell’Albo d’Oro. Ma ai nostri fini cio’ che conta è che esso esista e costituisca l’essenza della mentalità nazista, nonché di quella di chi gode in modo disinteressato delle imprese sportive.
Personalmente, penso di essere immune allo chauvinismo ma rientro in pieno tra i cosiddetti “adoratori della forza”: guardando le Olimpiadi provo una sincera ammirazione per le gesta dei grandi campioni. Oltretutto, lo ammetto, non mi sento molto colpevole per questa forma di cripto-nazismo (per quanto la riconosca come tale) e non intendo fare nulla per frenarmi, cosicché penso che quanto affermato in questo post più che un auto-accusa sia una prova a discarico dell’ideologia Nazista, una dimostrazione della sua umanità. Nell’anno della Misericordia dobbiamo avere il coraggio di dare un’interpretazione caritativa dei fenomeni che ci disturbano di primo acchito, e chi ci riesce col Nazismo puo’ riuscirci con tutto.
Per approfondire sulla natura della passione sportiva: Values in Sport: Elitism, Nationalism, Gender Equality and the Scientific Manufacturing of Winners di Claudio Tamburrini, Torbjörn Tännsjö
P.S. Un modo per riconciliare il buon senso con la tesi espressa ci sarebbe: basta distinguere il diritto alla medaglia dalla medaglia meritata. E' la teoria morale del Just desert: abbiamo pieno diritto sul nostro corpo anche se non ce lo siamo meritato. Ma forse è "straussianamente" meglio far coincidere i due concetti.