lunedì 21 maggio 2018

IL FIGLIO

"Per tutto il pomeriggio i miei mi avevano tormentato con i loro affari e, assordandomi con i loro discorsi o invece opponendomi un assoluto silenzio sui discorsi che si sarebbero dovuti fare, mi avevano rinfacciato di essere la loro disgrazia. Di avere elevato a metodo l’essere sempre contro di loro e contro la loro condizione, contro i loro affari e contro il loro modo di pensare, che pure era anche il mio. Di aver preso l’abitudine di farlo a pezzi, quel loro modo di pensare, e di schernirli, demolirli e ucciderli. Di essermi disposto con tutto me stesso a farli a pezzi e demolirli e ucciderli. Giorno e notte non meditavo altro, hanno detto, e appena sveglio ripartivo all’attacco. Non io ero il malato e dunque il debole, hanno detto, ma i malati e i deboli erano loro, erano loro a essere tiranneggiati da me e non viceversa; io ero il loro oppressore, non erano loro ad attaccare me, bensì io ad attaccare loro. Ma questo me lo sento dire da quando esisto. Fin dalla nascita sono stato contro di loro, dicono, fin da bambino, un malevolo bambino non ancora capace di parlare, solo di fissarli incessantemente, ho rinfacciato loro la mia esistenza, la loro perfida mostruosità. Già il bambino che apriva per la prima volta gli occhi li aveva sconvolti, perché era contro di loro, dicono. Fin dai miei primi attimi di vita tutto in me si era rivoltato contro di loro dapprincipio istintivamente e infine, al destarsi dell’intelletto nella mia testa, con la massima determinazione e spietatezza. Io sarei il loro annientatore, hanno ripetuto anche oggi, mentre darei sempre a intendere che sono loro i miei annientatori, loro a perseguire il mio annientamento fin dall’istante in cui mi hanno generato. I miei mi hanno sulla coscienza, affermerei in qualsiasi cosa io dica, mentre invece sono loro che in qualsiasi cosa dicano e pensino e con il loro ininterrotto agire affermano che li avrei sulla coscienza io. In un luogo tanto bello e in una casa tanto bella mi hanno messo al mondo e collocato, dicono di continuo, e io non farei che schernirli e disprezzarli ininterrottamente. In ogni mia asserzione non v’è altro che questo scherno e questo disprezzo di cui un giorno morranno, dicono, io invece penso che un giorno sarò io a morire del loro scherno e disprezzo… Tutte le osservazioni da me fatte di fronte a loro non avevano mai incontrato altro che il fraintendimento e la meschinità alleata al fraintendimento. Così nel corso dei decenni ho detto sempre di meno e infine niente più del tutto, e le loro reprimende si sono fatte sempre più spietate. Ero andato nella biblioteca e mi ero preso dagli scaffali un libro filosofico nella consapevolezza di commettere un delitto, poiché ai loro occhi già varcare la soglia della biblioteca era un delitto e tanto più lo era prendere dagli scaffali un libro filosofico, dal momento che già il fatto di ritrarmi da loro era considerato un delitto… Perché ogni nuovo mattino ci ricorda immancabilmente che è solo in una terribile sopravvalutazione di se stessi e nella loro effettiva megalomania procreativa che i nostri genitori ci hanno concepiti e figliati, gettandoci in questo mondo più orribile e disgustoso ed esiziale che non piacevole e utile. La nostra inermità la dobbiamo ai nostri procreatori, e così la nostra inettitudine, tutte le nostre difficoltà che nell’intero corso della vita non riusciamo a superare.

Thomas Bernhard: “La petulanza del Figlio”"
Per tutto il pomeriggio i miei mi avevano tormentato con i loro affari e, assordandomi con i loro discorsi o invece opponendomi un assoluto silenzio sui discorsi che si sarebbero dovuti fare, mi avevano rinfacciato di essere la loro disgrazia. Di avere elevato a metodo l’essere sempre contro di loro e contro la loro condizione, contro i loro affari e contro il loro modo di pensare, che pure era anche il mio. Di aver preso l’abitudine di farlo a pezzi, quel loro modo di pensare, e di schernirli, demolirli e ucciderli. Di essermi disposto con tutto me stesso a farli a pezzi e demolirli e ucciderli. Giorno e notte non meditavo altro, hanno detto, e appena sveglio ripartivo all’attacco. Non io ero il malato e dunque il debole, hanno detto, ma i malati e i deboli erano loro, erano loro a essere tiranneggiati da me e non viceversa; io ero il loro oppressore, non erano loro ad attaccare me, bensì io ad attaccare loro. Ma questo me lo sento dire da quando esisto. Fin dalla nascita sono stato contro di loro, dicono, fin da bambino, un malevolo bambino non ancora capace di parlare, solo di fissarli incessantemente, ho rinfacciato loro la mia esistenza, la loro perfida mostruosità. Già il bambino che apriva per la prima volta gli occhi li aveva sconvolti, perché era contro di loro, dicono. Fin dai miei primi attimi di vita tutto in me si era rivoltato contro di loro dapprincipio istintivamente e infine, al destarsi dell’intelletto nella mia testa, con la massima determinazione e spietatezza. Io sarei il loro annientatore, hanno ripetuto anche oggi, mentre darei sempre a intendere che sono loro i miei annientatori, loro a perseguire il mio annientamento fin dall’istante in cui mi hanno generato. I miei mi hanno sulla coscienza, affermerei in qualsiasi cosa io dica, mentre invece sono loro che in qualsiasi cosa dicano e pensino e con il loro ininterrotto agire affermano che li avrei sulla coscienza io. In un luogo tanto bello e in una casa tanto bella mi hanno messo al mondo e collocato, dicono di continuo, e io non farei che schernirli e disprezzarli ininterrottamente. In ogni mia asserzione non v’è altro che questo scherno e questo disprezzo di cui un giorno morranno, dicono, io invece penso che un giorno sarò io a morire del loro scherno e disprezzo… Tutte le osservazioni da me fatte di fronte a loro non avevano mai incontrato altro che il fraintendimento e la meschinità alleata al fraintendimento. Così nel corso dei decenni ho detto sempre di meno e infine niente più del tutto, e le loro reprimende si sono fatte sempre più spietate. Ero andato nella biblioteca e mi ero preso dagli scaffali un libro filosofico nella consapevolezza di commettere un delitto, poiché ai loro occhi già varcare la soglia della biblioteca era un delitto e tanto più lo era prendere dagli scaffali un libro filosofico, dal momento che già il fatto di ritrarmi da loro era considerato un delitto… Perché ogni nuovo mattino ci ricorda immancabilmente che è solo in una terribile sopravvalutazione di se stessi e nella loro effettiva megalomania procreativa che i nostri genitori ci hanno concepiti e figliati, gettandoci in questo mondo più orribile e disgustoso ed esiziale che non piacevole e utile. La nostra inermità la dobbiamo ai nostri procreatori, e così la nostra inettitudine, tutte le nostre difficoltà che nell’intero corso della vita non riusciamo a superare.

Thomas Bernhard: “La petulanza del Figlio”