Molti moderni approntano il bello al solo fine di sfregiarlo con una rasoiata improvvisa.
E’ pratica comune, talmente comune da sfumare oggi nello stereotipo.
Ma la sensazione è che la truppa avanguardista soffra la presenza di infiltrati e tra i “similatori dello sfregio” annovero Lawrence Dillon.
Un tale che sembra “deturpare”, ma la cui reale intenzione è intrattenersi anche solo un attimo con il “bello & tranquillo”, lusso che la musica contemporanea concede a pochi, pena l’ ostracismo. Facade sembra proprio il frutto di questa alienazione che inverte mezzi e fini beffando i rigori della sperimentazione iconoclasta. I colpi inferti (per finta) assomigliano più a mal trattenuti impeti beethoveniani che alle coltellate tanto apprezzate dai “terroristi culturali” in servizio permanente effettivo. In fondo in fondo si teme di sfasciare del tutto il giocattolino che si è messo in piedi e a cui ci si è affezionati.
Nell’ altro pezzo, ulteriore passo falso che smaschera la “talpa”, affiorano ovunque lacerti dell’ amata tradizione violinistica romantica, che per un compositore “arrabbiato” è come per un adolescente essere beccato con i giornaletti porno.
Ma tutto si limita a un’ emersione di materiale slegato, episodico, rapsodico, occasionale, avulso da ogni tessitura; un suono scarnificato che porge il bianco dell’ osso al nero di un silenzio stantio, quello tipico delle camerette dove lo studente dotato ma non troppo prova e riprova una musica continuamente abortita che non per questo rinuncia a sognare un volo librato tra i velluti delle sale da concerto in cui non metterà mai piede.
Lawrence Dillon – Violin music