mercoledì 2 aprile 2008
Sindromi olimpioniche
Testimonianze autorevoli
Joseph Goebbels
Preso da qui.
De-donmilanesizzare la scuola. Riforme
Lettera ad un politico. Una ventina di spintarelle nella direzione giusta. Ormai, in questo settore, fa paura parlare di riforme**.
- Buoni per facilitare la scelta della scuola. Ma seri, in modo da avvicinare il costo medio di un alunno nella scuola statale di oggi (3/4.000 euro). In alternativa molto subordinata la piena detraibilità dalle imposte.
- Esami solo in entrata.
- Un minimo di libertà didattica. E diamo un po' di libero sfogo a questi pedagoghi. Il direttore ha pur sempre la facoltà di cacciare i più invasivi.
- Aumentare gli esami con commissari esterni.
- Congegnare esami bipartiti: una parte centralizzabile, una parte caratteristica dell' istituto.
- Valutare le scuole (valutazione diretta, profitto matricole - anche i licei hanno il test... ). In GB apri la pagina internet e trovi le scuole ordinate per merito da istituti indipendenti. Non dico di arrivare a quel punto ma... Istituti di valutazione già ci sono. Per esempio il codice IRIS di Giuseppe Lo Nostro dell' università di Genova. Anche l' INVALSI dovrebbe essere reso operativo in modo serio. Il politecnico di milano pubblica il politest top school. In Trentino esiste un comitato ufficiale per la valutazione scolastica. Il modello è la Finlandia, si vuole stimolare una gara al miglioramento tenndo presente i punti di partenza. L' Eurydice parla chiaro: l' Italia è l' unico paese dove le scuole scampano a qualsiasi valutazione. In Svezia, Rep.Ceca, portogallo e Islanda la pagella è pubblica. In Norvegia e Finlandia è di competenza delle autorità locali. Nel Regno Unito spetta ad un ente privato indipendente.
- Attenzione alla qualità e alla quantità dei test.
- Valutare la scuola sui miglioramenti tarando il contesto e la curva di progressione naturale;
- Attenuare il valore giuridico del titolo.
- Bilanciare i due modelli classici di scuola. Dal merito oggettivo (modello continentale: scuola servizio pubblico con obiettivi e programmi prefissati che tutti devono raggiungere pena bocciatura) al merito adattivo (varietà dell' offerta e programmi personalizzabili modello nord europeo). Vaciago, sole 26/3/08 p.4 (nota che il secondo modello puo' essere temperato dalla pedagogia di cui sopra mentre il primo dall' autonomia).
- Una certa autonomia delle assunzioni.
- Una certa autonomia dei programma.
- Finanziamento correlato alle performances e alla capacità attrattiva (con misurazione delle iscrizioni fuori distretto).
- Prevedere la possibilità di appaltare interi istituti a staff privati (charter).
- Allentare l' obbligatorietà offrendo alternative.
- Possibilità di istituire esami di ammissione anche nelle scuole pubbliche (con gli evidenti limiti legati all' obbligatorietà).
- Possibilità di stabilire rette anche per gli istituti pubblici.
- Fissazione di un tiket scolastico flessibile.
- Possibilità di contrattualizzare gli studenti fissando percentuali sugli stipendi futuri.
- Dilatare il periodo di studi con la possibilità di sovrapporlo a quello lavorativo.
- Incentivare anche materialmente il profitto degli studenti (vedi qui Mele e Lacetera sugli incentivi monetari, vedi anche altrove nel blog).
- Possibilità di Home Schooling.
- Possibilità di Charter school (scuole fondate in piena autonomia dai genitori con finanziamenti e valutazione pubblica).
- Possibilità per la scuola di stipulare autonomamente contratti con imprese ed altri soggetti.
- Eliminare ogni discriminazione di trattamento tra profit e non profit.
- Reintrodurre il voto in condotta. Per alcuni la scuola è praticamente solo disciplina.
- Budget dei voti (Landsburg p.156).
- Alzare le tasse nell' università (Perotti): 1) cessa il Robin Hood alla rovescia 2) maggior controllo dell' utenza che se ne va portandosi via i danè 3) più risorse.
- Alzare le tariffe d' iscrizione alla scuola per chi puo' permetterselo: maggior controllo sociale.
- Centralizzare la correzione degli esami (vedi andrea ichino 24 ore 23.7.2008 p.1). Non aver paura dei test a risposta multipla (qualche argomento dall' ETS)).
- Ed Glaeser: migliori insegnanti, ovvero: 1) stipendi più alti 2) misurazione prestazioni 3) selezione ai presidi.
- ...
Un blog per chi ha sete
Soluzioni coasiane per la produzione e somministrazione di un bene essenziale.
Problemi con il dibattito elettorale? Una ricettina storico-economica per cavarsi d' impaccio
"...l' italiano si era abituato al boom degli anni 50 e 60, un boom prolungato artificiosamente dall' indebitamento e dall' inflazione degli anni 70, 80 e parte dei 90; sciagurate politiche pensionistiche e assistenzialismo al Sud, nonchè politiche distorsive sul mercato del lavoro hanno contribuito a creare un senso di eccessiva sicurezza basato su castelli fiscali di carta. Da qualche anno [grazie ai vincoli monetari e fiscali assunti in sede europea] i nodi sono venuti al pettine. Ed ecco il declino economico [che da sempre cova ma solo oggi è visibile]..."
Direi che manca solo una mazzatina al centro-sinistra degli anni 60, ovvero a quella forza politica che semino' leggi (pensioni, lavoro...) che più tardi contribuirono al dissesto.
Tutto bello e fila bene. ma forse facciamo i conti senza l' oste: avevamo in casa il Partito Comunista più forte d' Europa, e per le strade il terrorismo rosso aleggiava quando non imperversava.
Con un bubbone del genere Andreotti ha gioco facile nel dirci: voi, con tutta la vostra spocchia, non avreste potuto far di meglio.
Ma veniamo alle ricette. Per alzare i redditi il Prof. illumina alcune vie e io ci aggiungo del mio.
- Alzare la produttività: lavoriamo troppo poco e troppo in pochi, aliquote differenziate per le donne (ndr molto meglio differenziare i contributi, vedi punto sotto), altri incentivi ad entrare nel mondo del lavoro.
- Abbassare le tasse: finanziare la misura alzando l' età pensionabile e agendo sul pubblico impiego (pre pensionamenti, mobilità...).
- Alzare i salari puntando sull' innovazione incentivata dalla concorrenza.
- Alzare i salari contenendo l' inflazione mediante deregolamentazioni (es. grande distribuzione).
- Alzare i salari colpendo la classe dei privilegiati mediante abolizione della contrattazione collettiva e introduzione di un contratto unico.
- Add1: vendere i gioielli di famiglia e fare cassa con quelli.
- Abbassare gli oneri contributivi e dirottare la differenza su altri pilastri previdenziali.
- Liberalizzazione delle utilities.
I profughi palestinesi
- La pololazione rurale palestinese era povera e analfabeta, non più proprietaria delle terre e con una tendenza naturale a migrare. Migrava o in città o in altri stati arabi.
- l' Yishuv, già al tempo di Peel, non aveva escluso l' opzione "trasferimento obbligatorio" in accordo con le altre nazioni arabe. I dirigenti israeliani vedevano bene territori liberati dalla presenza araba (documentabile).
- Con Israele sulla difensiva (dic.47 mar.48) le classi superiori dei palestinesi fuggirono stabilendosi confortevolmente altrove in attesa della conclusione delle ostilità.
- Gli arabi più ricchi chiusero tutte le loro attività diffondendo disoccupazione, povertà e demoralizzazione verso la restante popolazione araba che in gran parte finì per seguire il loro esempio.
- Paura, intimidazione e vere espulsioni. Ci sono casi documentabili
- La politica delle rappresaglie nella prima fase degli scontri incide sulle decisioni. Episodi come Deir Yassin innescano la "psicosi della fuga".
- In molte aree fu ordinata l' evacuazione dai comandanti arabi al fine di predisporre al meglio l' invasione. Una campagna di preparazione psicologica è documentabile sin dal 1947.
- Alcuni generali israeliani come Allon, forti dei poteri di guerra, li usarono anche per assottigliare la minoranza araba del futuro stato di Isrele.
- Il governo isreliano non prese nessuna iniziativa per frenare l' esodo. Per contro l' Alto comitato arabo la sollecitava.
- L' invasione araba accrebbe le ostilita e Israele, per evidenti ragioni militari, si oppose al ritorno dei profughi.
- Durante l' ultima parte della guerra, gli arabi mostrarono volontà di restare (conobbero le misere condizioni dei profughi) e le fughe furono solo l' esito di maltrattamenti ed espulsioni.
- Non ci fu mai e non fu mai discussa una politica sistematica di espulsioni. Il mercante di Haifa partiva quando una certa soglia critica della sicurezza e del benessere veniva superata dall' effetto cumulativo dei disagi.
- 2 offerte per il ritorno : 1) accoglimento di 100.000 profughi (65.000 più i già ritornati e quelli in cammino) 2) incorporamento della striscia di Gaza con i suoi 60.000 abitanti + accoglimento di 200.000 profughi. Proposte respinte con indignazione. N.B. israele parla di un totale di 520.000 profughi, i paesi arabi arrivano a 900.000/1.000.000.
- I Paesi Arabi fecero poco per assorbire i profughi. consideravano la loro presenza un' arma preziosa contro Israele.
martedì 1 aprile 2008
Il dilemma degli obblighi matrimoniali e degli investimenti mancati
"...In many Western countries divorce laws have requirements that force the party with the greater income to continue in paid work and pay alimony to allow the other party to maintain the style of living to which they "have become accustomed during the marriage," or with similar wording. However, I am having a hard time reconciling this with some of the replies to question, which referred to the obligation to have sex during marriage. Most people would certainly agree that one is not obliged to have sex with a partner, or an ex-partner after a relationship has broken up. The arguments there focused on people having an "inalienable right to one's body", but surely this same argument could be used against forcing people to do work they don't want to do? More specifically, how is forcing person A to work against their will to provide financial support for person B *ethically different* from obliging person A to have sex against their will to provide sexual satisfaction for person B?..."
L' unica risposta che vedo è la seguente: per garantirsi le rendite monetarie del matrimonio, il coniuge debole avrebbe dovuto realizzare per tempo investimenti a cui ha rinunciato. D' altra parte, le rendite sessuali garantite dal matrimonio, non richiedono investimenti nel tempo e non vengono pregiudicate dal divorzio.
Ma non è poi così vero. Anche la rendita sessuale richiede investimenti fatti per tempo. Un matrimonio sbagliato (per colpa del partner) ci danneggia eccome dal punto di vista della rendita sessuale. ormai vecchi e brutti, chi ci guarda più? Il tempo perso non torna.
Altra risposta: la rendita sessuale puo' essere incorporata in quella monetaria. Il partner che ammette le proprie colpe ed è condannato a obblighi monetari è anche il partner più ricco. Questa ricchezza si puo' commutare in una rendita sessuale. Non puo' dunque dimostrare un pregiudizio sui suoi investimenti in questo settore. Lo stesso dicasi per la ricchezza trasferita, puo' commutarsi in rendita sessuale.
La stessa cosa non potrebbe dirsi per la rendita affettiva. Quindi il giochino funziona finchè il matrimonio civile non impone obblighi affettivi indipendenti da obblighi matrimoniali.
C' è poi la soluzione che taglia la testa al toro: la vita sessuale non ha mai un valore sostanziale.
Qualcuno potrebbe dire che costrizioni in campo sessuale hanno ben altro impatto psicologico su chi le subisce rispetto a costrizioni fisiche in altri ambiti. Questo è vero, eppure risolverla così, dicendo che la sessualità è qualcosa di "particolare" che segue delle sue regole, non è mai soddisfacente.
Nella rete di Janet
In esclusiva internettiana ascoltati un pezzo dall' ultimo cd di Janet Feder.
Quando l' identità conta - riflessioni sul teppismo da forum
Personalmente ho sempre ascoltato con scetticismo chi inneggiava al primato del dialogo e della relazione. Mi chiedevo: "ma come è possibile che la relazione preceda la persona?", ero infatti dell' idea che una relazione fosse costituita dalle persone. Mi chiedevo anche: "ma come è possibile che il dialogo anticipi l' identità?". Trovo molto più lineare pensare aldialogo come a qualcosa a cui danno vita dei dialoganti. So che è un po' fuori moda, però, se devo abbandonarmi alle mie idee, questa dimensione tradizionale resta per me la più congeniale. Sapere chi si è e cosa si vuole è un prerequisito per arricchiere lo scambio. Se vado al mercato senza niente, cosa mai potrò donare? Ma se vado al mercato con un "me stesso", ecco che potrò fare dei buoni affari.
Poi è successo un fatto che considero un punto segnato dalla fazione per la quale propendo.
Siccome il forum ha barriere difensive molto deboli, è rimasto vittima di una squadretta di teppisti telematici che, clonando i nick, falsificando i nomi, minando le identità, ha fatto irruzione vanificando ogni scambio e sabotando ogni tentativo di relazionarsi.
Questo spiacevole evento ci insegna forse qualcosa: è attraverso l' attacco all' identità che si vanifica il dialogo appagante e proficuo. L' identità elisa fa saltare anche la relazione. Quando l' identità è resa liquida e imprendibile, l' interesse allo scambio dialogico evapora, non sai chi hai di fronte, perdi interesse a saperlo, lo sforzo prodotto per conoscere il proprio prossimo cade regolarmente come un castello di carte, il bluff si annida ovunque, tutto diventa un cicaleccio nichilista, il nulla assume un peso insostenibile e capisci che è meglio cambiare aria. Perlare con un sig. nessuno assomiglia tremendamente al parlare con se stessi.
Non sarà un caso che proprio i sostenitori di una posizione distante da quella che ho descritto più sopra (es. Valeria), siano anche stati coloro che più hanno insistito nel voler dialogare con un fantasma inesistente e polimorfo. Ma questa loro insistenza per me non è stata molto fruttuosa e non ha affatto rinforzato la loro visione, tutto si è ridotto ad un gioco estenuato e infecondo. E non sorprende nemmeno che in questa stagnante palude formalistica, colui che si diverte di più a protrarla, è proprio il teppista/nichilista.
lunedì 31 marzo 2008
Donne meno competitive
Sole 30.3.2008 Francesco Daveri p.39.
Studi: 1, 2.
Macroeconomia in una lezione
- Ogni fase depressiva o di rallentamento puo' essere ricondotta a shock aggiustabili mediante deflazione. In altre parole: la deflazione riconduce l' economia ad una condizione di pieno impiego.
- Le tre teorie principali: Teoria Keynesiana (TK), Teoria Neoclassica (TC), Teoria Austriaca.
- TK e TA sono una variazione su TC. Sia TK che TA postulano dei momenti di irrazionalità dell' agente economico.
- TK postula che in alcune fasi l' operatore economico (specie il lavoro dipendente) si interessa unicamente al valore nominale del suo reddito, trascurando quello reale (trappola della liquidità).
- TK non è particolarmente interessata a come nasce la crisi. Si concentra sulla cura.
- L' ipotesi di TK rende impossibile un aggiustamento mediante deflazione. D' altro canto apre la via ad un aggiustamento mediante inflazione, visto che non puo' esistere l' inconveniente dell' escalation. La storia degli anni 70 ha messo a dura prova l' ipotesi: i lavoratori dipendenti, in periodo inflazionistici, si interessano eccome del loro salario reale. Altro che balle. Questo rende estremamente problematica la cura proposta.
- La TK conteneva un' ulteriore ipotesi molto forte: la domanda di moneta era insensibile al tasso d' interesse. Cio' consentiva ai sostenitori di TK di trascurare qualsiasi politica monetaria per spingere l' aggiustamento. I nuovi sostenitori di TK sembrano oggi rilassare di parecchio l' ipotesi di cui sopra.
- La cura di TK convive male con i regimi democratici poichè la necessità di coltivare clientele politiche incentiva l' abuso del deficit spending.
- TA postula che l' imprenditore, qualora esista una banca centrale che manovri il tasso d' interesse in modo da non mantenere la base monetaria costante (per esempio la banca centrale concentrata sull' inflazione), sbaglia sistematicamente i suoi investimenti condannandosi al fallimento. Insomma, è tradito dalla segnaletica di alcuni prezzi che non rispondono alle regole di mercato.
- TA ha la ricetta, sia per neutralizzare le cause del ciclo (glod standard), sia per curare al meglio il ciclo quando si innesca (lasciar lavorare i fallimenti).
- I rimedi di TA sono poco praticabili: comportano forti deflazioni e le moderne democrazie difficilmente potranno mai tollerare simili traumi.
- E' un po' difficile ipotizzare che l' imprenditore perda tutta la sua capacità predittiva nonostante sappia che la banca centrale stia manovrando i tassi nominali e la riacquisti subito dopo al punto da saper muoversi con lungimiranza in periodi deflazionistici.
- Anche TC non è caratterizzata da una particolare attenzione alle cause. Si concentra sui rimedi. Certo, la deflazione è il rimedio ottimo. Purtroppo i costi di coordinamento (indotti dal calo di fiducia) affinchè si realizzi spontaneamente sono insormontabili. Mentre nell' inflazione il primo che alza i prezzi ci guadagna, nella deflazione il primo che li abbassa perde. E' necessario un operatore che guidi il processo deflazionistico controllando un prezzo molto particolare: il tasso d' interesse. Morale: la crisi viene superata grazie ad una opportuna politica monetaria.
- Per TC la Banca Centrale serve per combattere la deflazione. Non esiste simmetria tra deflazione e inflazione. La deflazione implica costi di coordinamento che l' inflazione evita. Altre asimmetrie non sembrano convincenti.
- Inoltre, aggiustare immettendo moneta limita quella discresionalità distributiva tipica delle politiche fiscali.
- Varianti di TC tentano di dirci qualcosa sulle cause. Prescott e Kydland puntano il dito su shocks tecnologici negativi.
- I rimedi di TC sono ambigui: fino a che punto abbassare i tassi è un' utile guida in grado di anticipare la deflazione naturale e fino a che punto invece si eccede andando ad evitare fallimenti che sarebbero dovuti? In questo secondo caso forse si tampona la crisi presente ma si stanno mettendo i semi per quella a venire.
- In qualche modo TC deve considerare gli allarmi di TA. E' per questo che alla banca centrale viene consigliata l' adozione di una regola anzichè una politica arbitraria. Sì ma alcune regole sono meglio di altre. Taylor ha proposto la sua.
- Nella recente crisi dei subprime sembra che gli imprenditori abbiano fallito. Alcuni stipulando mutui con soggetti insolventi. Altri acquistando titoli che incorporavano quei mutui. Puo' darsi che quasti fallimenti siano dovuti anche a Greenspan, cioè ad una cura troppo generosa inoculata per tamponare la precedente bolla. Una cura troppo generosa incrementa di molto il tasso naturale dei fallimenti a venire (se i è molto basso si alzerà il tasso dei fallimenti ottimo).
- L' errore imprenditoriale sembra fatto dalle banche nel valutare la solvibilità del privato. Non sembra il classico errore previsto da TA, sembra piuttosto che sia stato calcolato male il tasso ottimo dei fallimenti. Siamo ad un punto in cui ce ne sono troppi.
- Se gli errori sono di questo tipo, allora il rimedio potrebbe essere: 1) minore generosità nel manovrare i tassi in modo da distribuire più equamente i fallimenti evitando di trascinarli alla crisi successiva concentrandoli e intrecciandoli tutti insieme; 2) più regole per una maggiore trasparenza dei bilanci. Magari mutui pazzi saranno ancora stipulati ma perlomeno sarà difficile piazzarli con la cartolarizzazione. In questo modo si limitano gli intrecci pericolosi e i fallimenti a catena, ovvero quei fenomeni per cui ci si vede costretti ad intervenire con i soldi del contribuente anche per salvare una banca d' investimento (senza depositi) minore.
- ...
Opere pubbliche: più contratto, meno esproprio
Purtroppo aste del genere non esistono ma ci si puo' avvicinare. Nel seguente schemino mi ripropongo di formulare in modo semplificato alcune idee avanzate sul tema.
Prendiamo il caso di una strada (o di una ferrovia). Cerchiamo di ricalcare anche per questo caso le tipiche procedure d' asta impiegabili nel caso NIMBY.
Purtroppo il caso della "strada" è molto più incasinato del caso "NIMBY", alcune ulteriori forzature si rendono necessarie.
Il fatto poi che da noi non esistano aste nemmeno per i casi NIMBY è abbastanza scoraggiante.
Ma non abbattiamoci, raccogliamo le energie e procediamo.
Vediamo se articolando l' azione generale in una dozzina di punti si riesce ad esporla meglio.
- Tutti gli espropriandi devono essere individuati e invitati all' asta.
- L' asta è istantanea (se fosse telematica sarebbe il massimo).
- Il tempo che intercorre tra l' invito e la formulazione del prezzo domandato dai proprietari dovrebbe essere breve (in modo da alzare i costi di transazione di un accordo tra proprietari).
- Tutti gli invitati devono fomulare un prezzo (chi non lo fa subirà delle penalizzazioni).
- Il produttore dell' opera pubblica formula in busata chiusa il suo prezzo standardizzato.
- Sia per la domanda che per l' offerta esisterà un prezzo medio standardizzato.
- Se il catasto funzionasse, il presso offerto dalle istituzioni potrebbe orientarsi sui valori catastali, ovvero sui valori che fungono da base alla tassazione.
- Al termine dell' asta, confrontando il prezzo medio standardizzato della domanda e il prezzo medio standardizzato dell' offerta, si decide se il contratto è chiuso.
- Qualora non sia chiuso, i proprietari che ne hanno impedito la chiusura verranno colpiti da una tassa di scopo (una tassa il cui impiego è vincolato nella costruzione di strade, per esempio).
- L' individuazione dei proprietari penalizzati è semplice: basta prendere chi ha domandato mediamente di più, escluderlo dalla domanda complessiva e valutare se la nuova domanda standardizzata sarebbe stata accettata. Se ancora no, si procede con il secondo proprietario che ha chiesto di più, e così via.
- In caso di collusione e offerte di pari importo i proprietari penalizzati saranno individuati mediane sorteggio.
- Nota che la tassa di scopo non sarebbe poi così campata in aria: il proprietario che la versa, paga le sue tasse normali su un valore catastale che è di gran lunga inferiore al valore che lui stessa dimostra di reputare un valore reale.
- Le tasse di scopo potrebbero essere utilizzate nelle aste successive per alzare il prezzo offerto dall' Istituzione.
- Le Istituzioni valuterebbero alternative di percorso potendo fare offerte sempre più convenienti. Non è escluso che, a distanza di tempo, le istituzioni possano riproporre l' offerta ai medesimi proprietari.
- E' necessario imporre un limite di tempo (e eventuali penalizzazioni) all' autorità per chiudere almeno un' asta in cui ci sia impiego delle tasse di scopo. In caso contrario le aste potrebbero essere un pretesto per esigere tasse arbitrarie.
- Nel caso l' asta debba concludersi con una chiusura del contratto (es.: i lavori sono già iniziati), le tasse di scopo andrebbero a beneficiare i restanti componenti del gruppo dei proprietari. E' necessario prevedere incentivi all' autorità per non ribassare (penali di tempo, redistribuzione delle tasse di scopo dopo un certo numero di aste non chiuse...) (input dovuto a Libertyfirst).
Naturalmente ci sono altre complicazioni: come isolare i "disturbati"? Bisogna limitarsi ai proprietari dei terreni?, come standardizzare il disturbo? Tutta roba che si affronterà dopo aver fatto il primo passo, inutile pensarci in questa prima fase.
Per un' esposizione analitica di aste del genere e similari, basta consultare l' opera dei Nobel di quest' anno.
Problema aggiuntivo: quando l' acquirente è lo Stato, come indurlo a formulare offerte di mercato? Basta aprire l' asta a tutti. L' acquirente, qualora l' acquisto si chiuda, verrà sorteggiato tra il vincitore d' asta e lo Stato (vedi Landsburg p.140.
http://assets.wharton.upenn.edu/~faulhabe/nimby.pdf
http://www.economicprincipals.com/issues/2009.05.24/412.html
L' esproprio gentile
- Spinti dai progrom e dall' ideologia sionista (tra religione e nazionalismo ottocentesco), gli ebrei degli insediamenti (russia europea tra Lituania e Crimea) cominciano a migrare e una minoranza scelse la Palestina cap. I.
- Herzl teorizza (in privato) l' esproprio gentile (risarcire e trovare lavoro altrove all' arabo palestinese).
- I primi coloni ebrei: gente che dal 1880, sovvenzionata anche da benefattori stranieri, comincia a comprare terreni su terreni sotto un governo ostile che emanava per loro una pletora di divieti aggirati grazie all' inefficienza e alla corruttibilità della burocrazia ottomana. La Palestina si compone di 27m di dune, la gran parte disabitata e non coltivata. Gli ebrei nel 1907 ne possedevano 400.000. L' acquisto di terreni era la chiave di volta del sionismo p.54
- Relazioni con gli arabi: cattive da subito, tafferugli, disprezzo reciproco. Solo i rapporti di lavoro (ebreo datore) potevano riconciliare p.60ss. Nota che i socialisti della seconda aliya erano per l' esclusione dell' arabo dall' economia. Di diverso parere i coloni imprenditori contrari ad ogni discriminazione p.70.
- Dal 1908 si passa da attriti localisti ad una resistenza nazionalista p. 80. Il nazionalismo ebraico era sorto molto prima di quello arabo. Da cio' trasse vantaggi notevoli, soprattutto in termini di organizzazione.
- Lla dichiarazione di Balfour: gli alleati in difficoltà, ergendosi a garanti dell' autodeterminazione ebraica, tentano di guadagnare alla loro causa gli ebrei americani per spingere gli USA in guerra p.99.
- Dopo le rivolte del 29, si rafforza il radicalismo arabo spinto anche dall' immigrazione massiccia e dalla compravendita dei terreni con espulsione del fittavolo (prezzo 50 volte più alto dal 1910 al 1944. "...gli arabi di giorno protestano, di notte vendono..." p.160.
- Il nazionalismo palestinese assume toni hitleriani negli anni 30/40 p.162.
- 29.11.47 l' ONU vota il piano di ripartizione dei territori . Sionisti soddisfatti, gli arabi lasciano la sala dochiarando la risoluzione 181 senza valore p.237
- Anche i palestinesi crearono un Fondo nazionale per meglio combattere la battaglia dei terreni. Fu un fiasco, pochi contribuirono p.163.
- Anche tra gli ebrei la rivolta del 29 rafforzò il radicalismo p.165.
- Rivolta violenta araba 36/39, somiglianze con l' Intifada. Uno sciopero arabo favorì la sostituzione con lavoratori ebraici p. 167. E reazione ebraica p.176. Commissione Peel p.179.
- Risoluzione 181: il 37% della popolazione riceve il 55% del territorio possedendone fino a quel momento il 7% (ma c' è da valutare il deserto del Negev) p.238.
- Dal Novembre 47 al maggio 48: guerriglia israelo/palestinese nei territori israeliani. Si comincia con scioperi, vandalismo e bombe arabe p.242. Dapprima in difesa, poi contrattacco e vittoria p.251
- L' Igrun e l' LHI impiegarono anche mezzi terroristici per trasformare i disordini in guerra p.252
- Qualcuno dice che il terrorismo arabo naque osservando l' efficacia di quello israeliano. Ad ogni modo, il miglior artificere arabo era stato addestrato dalle SS p.257.
- La guerriglia continua e episodi come Deir Yassin causarono l' esodo dei palestinesi p.267. Altri furono espulsi per avere aiutato la guerriglia palestinese p.268. Molte iniziative militari israeliane erano mirate a minare il morale e indurre all' esodo.
- Ben Gurion: non riuscivo a capire perchè gli abitanti se ne andassero. P.270
- Nel 47 furono anche violati territori che la risoluzione assegnava agli arabi. Era importante precludere le vie all' invasione pan araba che si annunciava p.272.
- Se i rapporti di forza hanno ancora un senso nel giudicare la storia e nell' accettarne le conseguenze, bisogna dire che gli israeliani, molto minori come numero, seppero creare un coordinamento che rese il loro esercito di gran lunga più efficiente rispetto a quello più sgangherato e litigioso degli arabi. Inoltre seppero aggirare l' embargo del 48 rivolgendosi alla Cecoslovacchia.
- "Sarà una guerra di sterminio". Dichiarazione del capo della lega Araba alla vigilia dell' invasione pan-araba p.278.
- Completa emarginazione dei palestinesi nel corso dell' invasione araba del 48 p. 282.
- I profughi palestinesi dopo la guerra p.319. Perchè se ne sono andati? 1) per loro volontà 2) sotto l' ordine dei dirigenti palestinesi 3) per lasciare campo aperto all' invasione 4) per sostenere la propaganda della cacciata 5) espulsi dagli israeliani in modo premeditato.
- La questione dei profughi secondo Morris.
- La guerra dei sei giorni: con l' occuopazione dei "territori" nasce la questione palestinese (prima l' affare era tra stati arabi e israele). Risoluzione 242.
sabato 29 marzo 2008
Corto circuiti: contro l' "aziendalizzazione" della scuola in nome della...responsabilità!? (6)
Ho già detto che usavo questa espressione in un senso tecnico, quindi con un significato meramente formale e smentibile nei fatti qualora quel formalismo non funzioni. La mia sottolineatura era un modo provocatorio per dire: ne vogliamo parlare? Vale la pena di chiarire? No, nonostante la mia precauzione si è ritenuto di aver già capito tutto e di passare alle offese.
Prendiamo due personaggi "l´ economista" e "il fisico". Il fisico ricercatore svolge il suo lavoro in laboratorio e nei suoi pensatoi.
Ma molte delle modalità essenziali attraverso cui svolge il suo lavoro -orari, limiti alla strumentazione, frequenza ed entità del suo compenso, grado di precarietà in cui lavora, modo in cui si formano le sue opportunità di lavoro, modo in cui si formano le sue opportunità di investimento - è demandato all´ opera dell´ economista il quale disegna l' ambiente in cui il fisico è chiamato a muoversi. Per quanto, ben inteso, l´ ultima parola spetti al politico che detiene la forza.
L' economista si occupa della cornice chiamata a vincolare nei fatti l´ attività del fisico. Per esempio, se l´ insegnante sarà pagato e quanto, in genere viene chiesto all´ economista (da noi non è stato così e si vede), il quale disegnerà un meccanismo, un mercato con tutte le correzioni del caso, per stabilire i compensi. Il fisico, come l´ operaio, agisce entro il quadro di regole ideate dall´ economista.
Poi, l´ apporto benefico alla società da parte del fisico, puo´ essere immensamente superiore, sia rispetto all´ apporto dell´ operaio, sia rispetto all´ apporto dell´ economista. Cio´ non toglie che nella sua azione sia vincolato in una cornice frutto del lavoro intellettuale dell´ economista.
In questo senso parlo di "dominanza", non certo quindi nel senso di "superiorità" o di "maggiore dignità" ma solo riferendomi a come si incastrano le competenze.
DIMOSTRARE TEOREMI ASSUNTI COME VERI. APPENDICE. Un settimo elemento che impedisce di considerare la scuola un´ azienda: l´ adozione di valori etici legati all´ egalitarismo. Poiché l´ aziendalizzazione produce differenziazione, è inevitabilmente incompatibile con il valore di cui sopra. Un ottavo elemento che rende pericoloso considerare la scuola come un´ azienda: considerare la famiglia come radicalmente sganciata dagli interessi del figlio. In questo caso sarebbe molto pericoloso dare voce in capitolo, accanto all' utente pubblico, anche alla famiglia.
La Chiesa puo´ essere vista tranquillamente e proficuamente come un´ azienda (lo dico da uomo di fede).
Alcuni studi condotti in quest' ottica sono famosi.
Perché l´ Islam ha avuto nella sua storia una fortissima capacità di penetrazione (...di mercato)?
Barry studia la capacità dell´ Islam di decentrare e rendere flessibili le sue strutture.
Come spiegare il fallimento del protestantesimo europeo a petto dei successi protestanti in Sudamerica?
I servizi della Chiesa in molti casi sono in concorrenza con il welfare moderno. Laddove quest´ ultimo si amplia, la rilevanza della Chiesa si ritira. La Chiesa coglie i suoi maggiori successi operando in ambienti rischiosi (è una delle cause avanzate per spiegare la religiosità degli USA rispetto all´ europa).
Recentemente leggevo un lavoro in cui, con un excursus storico, i rilevanti investimenti in capitale umano della comunità ebraica venivano spiegati come un tentativo di minimizzare i costi di trasporto. Spiegazione eminentemente aziendalistica.
Per non parlare poi dell´ aspetto ideologico. La Chiesa Cattolica nella sua storia è stata tanto indifferente all´ efficienza? Solo nella misura in cui è stata indifferente al mondo, ovvero molto poco. Gli studi anti weberiani ormai si sprecano. L´ origine del capitalismo è rintracciato all´ inizio del secondo millennio nell´ Italia settentrionale, in zone a forte presenza cattolica. In molti citano i tardo scolastici spagnoli e italiani come i primi teorici formali del capitalismo.
Alcuni sono rimasti legati ad un concetto di "merce&servizi" antiquato, come se la nuove teorie del consumatore non fossero mai state concepite, come se sul punto i Nobel non fossero mai stati distribuiti... Ancora si vede la merce come qualcosa di materiale e non invece un "bundle" tramite il quale il consumatore forma la sua identità, le sue caratterizzazioni, accumula il suo capitale umano, esprime e rafforza le sue tradizioni, si crogiola nei suoi pregiudizi...
Alcuni addirittura vedono l´ economista come qualcuno alle prese con valori freddi e oggettivi quando l´ economista si occupa quasi esclusivamente di valori soggettivi e non confrontabili, valori interiori che si esprimono mediane la scelta.
Alcuni vedono nell´ utile semplificazione dell´ homo economicus il paradigma della razionalità economica quando l´ economista fronteggia invece la complessità dei mercati e deve quindi continuamente ricorrere alle razionalità idonee a fronteggiare la complessità.
Corto circuiti: contro l' "aziendalizzazione" della scuola in nome della...responsabilità!? (5)
“…Aspetti che sono tipici dell'azienda - e magari la definiscono - non è detto che bastino a definire la scuola… Per esempio un insuccesso scolastico di un alunno non implica affatto un fallimento della scuola o un errore dell'insegnante…"
E perché mai l’ insuccesso scolastico di un alunno dovrebbe, secondo un’ ottica aziendale, segnalare il fallimento della scuola?
Ammettiamo che esistano solo due Licei ("A" e "B") e una sola Università prestigiosa dove convergono gli allievi dei Licei. Ammettiamo anche che la preparazione in entrata degli allievi che cominciano il Liceo sia la medesima. Ora supponiamo che le matricole provenienti da A abbiano un profitto universitario nettamente superiore alle matricole provenienti da "B" e questo indicatore sia considerato per valutare la qualità dei due Licei. "A" potrebbe mantenere alto il suo indicatore ricorrendo a tassi di bocciature (insuccessi scolastici) più elevati rispetto a "B". E’ un’ ipotesi perfettamente plausibile.
Ecco allora che, secondo un’ ottica strettamente aziendale, in questo caso il tasso di bocciature è correlato con la qualità dei Licei (e quindi, si presume, anche con il finanziamento). L’ esatto contrario delle conclusioni che il virgolettato implica qualora si adotti una prospettiva aziendale.
venerdì 28 marzo 2008
Corto circuiti: contro l' "aziendalizzazione" della scuola in nome della...responsabilità!? (4)
È una discussione inutile, sterile. Lei continua a dare per ovvio che le sue caratterizzazioni dell'azienda sono necessarie e sufficienti a definire la scuola come tale. È come se si dovesse discutere se un teorema sia vero assumendo come premessa che è vero. Basta poi l'affermazione: "che l’ economista rivendichi un suo dominio intellettuale sulle altre discipline è un fatto tecnico". Un economista serio si vergognerebbe di dire che lui ha un dominio intellettuale sulle altre discipline perché gli verrebbero attaccati (giustamente) i barattoli dietro.
Ed ecco la mia replica insolitamente calma (ne vado molto orgoglioso).
Professore, lei in molti casi, molto semplicemente, si arrabbia avendo travisato il senso di parole che invitavo per precauzione inutile a non travisare.
Per esempio quando parlavo di “dominanza intellettuale”.
Probabilmente è colpa mia visto che ne parlavo solo di passaggio senza le dovute precisazioni. Ma lascio cadere questa questione perché poco pertinente al cuore del discorso.
La cosa singolare è che lei insiste dicendo che assumo come “ovviamente benefica l’ aziendalizzazione”.
Resto stupito visto che mi sono preso la briga di ELENCARE ALMENOo 6 (SEI) condizioni in presenza delle quali l’ aziendalizzazione risulterebbe faticosa quando non impossibile. Sono condizioni chiare, sono condizioni per la verifica delle quali sarebbe facilissimo stendere un protocollo di sperimentazione e avere l’ esito.
Popper sarebbe abbastanza soddisfatto, invece lei insiste (ma mi avrà letto?) nel dire che per me “è tutto ovvio” e si deve solo procedere.
Riproduco qui il paragrafo passato inosservato e riguardante i vincoli.
[…Tanto per fare qualche esempio. Se i soggetti in ballo in questo gioco fossero "sistematicamente irrazionali" (e molti psicologi lo sostengono, vedi Kahnamen), l´ incentivazione e la responsabilizzazione avrebbero effetti perversi, sarebbe assurdo insistere su una logica aziendale. Se i soggetti non presentassero un movente almeno vagamente egoista, l’ aziendalizzazione non servirebbe a niente (ai santi non servono incentivi). Se i benefici forniti dalla scuola non fossero in qualche modo "misurabili" non avrebbe alcun senso "aziendalizzare". Se il soggetto pubblico è afflitto da storture istituzionale ed esprime delle volontà che nulla hanno a che fare con la produzione di beni pubblici, allora sarebbe addirittura pericoloso "aziendalizzare" (poiché l´ agenzia è particolarmente efficiente nel servire l´ utenza, sarebbe ancora più minacciosa qualora i desideri dell´ utenza fossero distorti). Se la struttura delle relazioni nella realtà che si vuole "aziendalizzare" è di tipo "one shot", allora meglio rinunciarvi o agire con la massima prudenza. Se invece l´ interazione tra i soggetti implicati è continua ed evolutiva, allora il terreno è più fertile...]
Tra un invito alla modestia, uno alla vergogna, una rinfrescata di economia aziendale a cura di un eccellente critico di letteratura mitteleuropea, un’ ammonizione a non bollare la Arendt come “superata” (avevo solo detto che non poteva tener conto dell’ opera di studiosi – e ho citato di passaggio due Nobel – venuti dopo di lei) , lei ha pure tirato fuori qualche argomento che mi incuriosisce:
“…ci sono solo giudizi qualitativi intersoggettivi che possono esprimersi in limitate forme quantitative…”
Non capisco bene quali siano le caratteristiche di questi giudizi (non sono cardinali? Non sono ordinabili? Non sono confrontabili?...), sicuramente lo apprenderò dalla lettura del suo ultimo libro, perché se quelle “limitate forme quantitative” sono limitate al punto da essere irrilevanti, allora potrebbero effettivamente mettere in discussione una delle sei caratteristiche. Come vede non è tutto “ovvio”.
Certo che senza la possibilità di “ordinare” (condizione necessaria e sufficiente) siamo in panne… niente aziendalizzazione: stipendi uguali per tutti, carriere automatiche, centralizzazione compulsiva, limiti alla sperimentazione, finanziamenti a pioggia, meriti non compensati e una responsabilizzazione rilevante solo per i Santi, ovvero per coloro che la sentono in assenza di qualsiasi incentivo.
Naturalmente poi ci sono i fatti, e sui successi dell’ aziendalizzazione (o responsabilizzazione) della scuola mi è difficile riferire poiché non riesco a mettere i link.
Prendiamo, che ne so, i licei di New York. La crema è rappresentata in larga parte dal privato (si paga, proprio come si paga l’ azienda!), almeno 13 Licei privati sono considerati d’ eccellenza. Il loro costo è elevatissimo (dai 25 ai 30 mila dollari). Si discute molto se una simile realtà sia equa ma si discute mooolto meno sulla qualità dell’ istruzione impartita là dentro ai futuri nobel e presidenti della repubblica! Se poi andiamo ai Licei pubblici, nel disastro generale, ne svettano due o tre. Uno è lo Stuyvesant (http://en.wikipedia.org/wiki/Stuyvesant_High_School). Gratis, paga l’ utente pubblico. Eppure anche lì i criteri di incentivazione, valutazione e differenziazione trovano ampia applicazione. A partire dall’ ammissione (100 allievi ogni anno su 20.000 richieste). Si puo’ parlare anche di Finlandia (generalmente considerato il paese con i migliori risultati in ambito scolastico). La fetta di privato non è ampia ma la decentralizzazione (elemento centrale per una concorrenza) e l’ autonomia (elemento centrale per l’ innovazione) sono fortissimi visto che l’ intero sistema scolastico è per lo più su base comunale…
Nota bene che non parlo dell' Università, lì non ci sarebbe proprio storia.
Corto circuiti: contro l' "aziendalizzazione" della scuola in nome della...responsabilità!? (3)
Claudio Magris: «... l’imperante economicismo, che crede di poter trasformare di colpo le università in imprese, produce l'effetto contrario. L’impresa ha la sua logica e la sua peculiarità e proprio per questo non ogni cosa è un’impresa. Una famiglia, una fabbrica di scarpe e una brigata alpina devono essere tutte gestite con oculatezza economica, senza sprechi e facendo quadrare i bilanci, ma senza scordare che il fine della fabbrica di scarpe e il profitto, il quale invece per la famiglia e per la brigata alpina – e anche per l’università – è un mezzo necessario per realizzare altri fini. La Fiat è un’azienda, l’Italia o la Chiesa no, e ciò non significa sottovalutare la dignità della Fiat. Una cultura d’impresa inoltre non si crea per decreto o vezzo intellettuale. Le università americane hanno dei patrimoni che investono, ma non passano tutto il tempo a parlare di investimenti, anche quando è il momento di parlare di filologia classica o di odontoiatria. Da noi invece le università, strangolate dalla povertà di mezzi che spesso le priva delle più elementari attrezzature scientifiche e assordate dall’aziendalismo ideologico, parlano solo di soldi senza produrli».
Lei continua a fare un discorso autoreferenziale. Concepisce, forse senza rendersene conto, l'azienda come l'unica dimensione possibile e quindi si chiede - ovviamente - come la scuola possa non esserlo.
«Quanto al “senso” del termine “aziendalizzazione”, con tutti i miei limiti, penso di conoscerlo abbastanza visto che lo impiego all’ interno della disciplina che lo ha coniato», Già ma provi a uscire un momento da questo contesto e a chiedersi se esistano altre dimensioni che in esse non rientrano. Se lei cita un economista sull'aziendalizzazione di agenzie pubbliche e lo applica alla scuola, da per scontata la tesi... È un elementare circuito logico.
«Mi rimane invece il dubbio che il senso originario abbia subito delle storpiature nel passare in altri “ambiti”, magari distanti dalla disciplina che lo impiega nel senso originario». Già, ma perché deve per forza passare in altri ambiti?... Provi a cambiare occhiali e a chiedersi se il mondo non contiene per caso qualcosa di più che aziende.
«Quindi la scuola non ha né obiettivi pubblici né obiettivi privati da perseguire?»
Sì, ma non sono obbiettivi assimilabili alla produzione di oggetti o al conferimento di servizi. È trasmissione di educazione e di cultura, che non sono oggetti o servizi, tantomeno misurabili in termini monetari.
«Quindi la scuola non produce né costi né benefici? Quindi in ambito scolastico è superflua ogni forma d’incentivo?»
Sa che una condizione necessaria non è anche sufficiente? Altro elementare errore logico. Aspetti che sono tipici dell'azienda - e magari la definiscono - non è detto che bastino a definire la scuola o la Chiesa. Per esempio un insuccesso scolastico di un alunno non implica affatto un fallimento della scuola o un errore dell'insegnante, come credono invece certi ottusi tecnocrati che stanno in tal modo deresponsabilizzando studenti e famiglie.
«Quindi nella scuola non c’ è possibilità di individuare uno scambio tra corpo docente e allievi?»
Sì, ma è un rapporto di persone che non si riduce minimamente a uno scambio di merci o di servizi. Sto per andare a lezione e so di non prestare affatto un servizio, ed è proprio per questo che potrò essere un buon insegnante.
«Quindi nella scuola non ha senso il tentativo di progettare azioni razionali anche solo in forma limitata?»
Ho passato una vita a lavorare sul concetto di razionalità e quello di cui lei parla, legato alla filosofia utilitarista, è una aspetto minimale e ridottissimo delle funzioni della ragione. Mi viene voglia di citare il discorso di Ratisbona....
«Oppure in questo ambito non ha alcun senso “misurare” le grandezze a cui accennavo e una misura vale l’ altra?»
Non ci sono grandezze che si misurano, ci sono soltanto "giudizi" qualitativi intersoggettivi che possono, riflettendo l'esperienza dell'insegnante, esprimersi in limitate forme quantitative. La misurazione delle qualità è una cialtronata fallimentare di quella pseudoscienza che va sotto il nome di docimologia.
«Se le nostre scuole sono dei diplomifici in cui irrompono genitori isterici è per altri motivi (obbligatorietà della scuola, valore legale del titolo di studio, fallimento dell' utenza pubblicas, mancanza di un college premium sul mercato del lavoro…) »
Questa - me lo lasci dire - è una sciocchezza assoluta che dimostra che lei non ha la minima idea di cosa accade nel mondo della scuola e dell'università e delle loro funzioni sociali. Bisognerebbe rendere la scuola non obbligatoria?... Ma per favore...
«io “chiedevo”, e senza alcuno spirito polemico »
Vede, non mi dica che non sono disponibile a impiegare tempo per rispondere. Ma non pensa che anche lei dovrebbe impiegare qualche tempo a leggere quello che è stato scritto sulla scuola, modestamente e senza pregiudizi, invece di pensare di poter risolvere i massimi sistemi con quattro chiacchiere? Non dico leggere i miei libri, ma per esempio quelli che ho citato nell'articolo su L'Occidentale e tanti altri scritti. E non bollare le riflessioni di Hannah Arendt come superate (dachi, poi?) senza neppure averle lette né sapere di cosa parlano.
Vede - e non la prenda come polemica, vista l'attenzione che le sto dedicando - questi atteggiamenti sono anche un termometro di come si sia perso il senso di cos'è la cultura.
Che è in primo luogo: riflessione, lettura, modestia, non credere di poter traslare le proprie conoscenze dappertutto come chiave del mondo, uscire dal proprio guscio.
Anche finod (la cui storia non conosco) ha ritenuto di prendere la parola, ecco il suo contributo:
io trovo tutto questo un po' surreale: "il genitore (utente) andrebbe semmai a prendere a schiaffi il professore perché suo figlio non ha superato i test di ammissione dell’ Università prestigiosa (prodotto avariato)"... ma in un caso del genere questo genitore non dovrebbe prendere a schiaffi (mi auguro metaforici) suo figlio al posto del professore? O magari se stesso, perché ha spinto suo figlio a cercare di entrare in una facoltà per cui non è portato?
Ora la mia replica.
Caro Finod, quindi tu “trovi surreale” un sistema d’ incentivi per cui un genitore chieda alla scuola frequentata dal figlio di fornire una preparazione adeguata allo stesso affinchè costui possa affrontare preparato i test d’ ammissione in un’ Università prestigiosa?
Cosa vorresti in alternativa, forse che il genitore chieda il pezzo di carta e faccia la piazzata se non l’ ottiene? E’ questo un mondo reale e fornito dei corretti incentivi.
Caro professore. Mi scusi se accenno ad un paio di risposte anche si in difetto rispetto alla lettura completa della sua produzione.
Le chiedo solo di considerare gli argomenti. Quanto al tono, non posso parlarle direttamente, ma le assicuro che è modesto e umile come vuole lei.
Il fatto che l’ economista rivendichi un suo dominio intellettuale sulle altre discipline è un fatto tecnico, mica una questione di modestia personale.
L’ azienda ha come FINE la realizzazione di un profitto. Vero (anche se Magris non mi sembra sia sul punto una fonte particolarmente autorevole).
Il profitto è correlato con la soddisfazione del consumatore (il nostro prossimo).
La soddisfazione del nostro prossimo è legata ai suoi FINI.
In ultima analisi tutto è legato ai fini del consumatore.
Nel caso della scuola il consumatore è costituito dal SOGGETTO PUBBLICO e dalle FAMIGLIE.
Il “profitto” della scuola è dunque legato in ultima analisi AI FINI DEL SOGGETTO PUBBLICO E DELLE FAMIGLIE.
Cosa c’è è che non va? Non è proprio il mondo che vogliamo quello in cui vengono serviti al meglio i fini del soggetto pubblico e delle famiglie?
L’ azienda NON E’ AFFATTO L’ UNICA DIMENSIONE POSSIBILE (quindi non colgo l’ accusa di autoreferenzialità)!!
Tanto per fare qualche esempio. Se i soggetti in ballo in questo gioco fossero “sistematicamente irrazionali” (e molti psicologi lo sostengono), l’ incentivazione e la responsabilizzazione avrebbero effetti perversi, sarebbe assurdo insistere su una logica aziendale. Se i benefici forniti dalla scuola non fossero in qualche modo “misurabili” non avrebbe alcun senso “aziendalizzare”. Se il soggetto pubblico è afflitto da storture istituzionale ed esprime delle volontà che nulla hanno a che fare con la produzione di beni pubblici, allora sarebbe addirittura pericoloso “aziendalizzare” (poiché l’ agenzia è particolarmente efficiente nel servire l’ utenza, sarebbe ancora più minacciosa qualora i desideri dell’ utenza fossero distorti). Se la struttura delle relazioni nella realtà che si vuole “aziendalizzare” è di tipo “one shot”, allora meglio rinunciarvi o agire con la massima prudenza. Se invece l’ interazione tra i soggetti implicati è continua ed evolutiva, allora il terreno è più fertile…
Potrei proseguire ma mi fermo qui.
Cinque esempi che ci indurrebbero a rinunziare, penso che siano sufficienti per scrollarmi di dosso una volta per tutte l’ accusa di autoreferenzialità.
Non c’ è alcun "circuito logico perverso" visto che formulo delle ipotesi verificabili che se verificate porterebbero ad abbandonare il progetto.
Potrei fare degli esempi. Facciamo il caso della difesa, il quinto requisito è problematico, Cio’ rende l’ “aziendalizzazione” sconsigliabile se non sotto molti vincoli.
Lei dice che la “trasmissione di cultura” non è assimilabile a un servizio. Sarebbe così se un’ operazione del genere non fosse misurabile in alcun modo. Se i soggetti utenti (Pubblico+famiglie) non potessero in nessun modo valutare l’ arricchimento che deriva da simili relazioni. Se non esistessero proxy credibili in merito. Vede come non sono affatto autoreferenziale?
Ho citato alcune caratteristiche che assimilano la scuola ad un’ azienda (con utenza pubblica). Lei dice che sbaglio poiché considero solo le “condizioni necessarie”. Ma questo è semplicemente falso, io considero quel pacchetto di condizioni “necessario E sufficiente” per procedere con forme di aziendalizzazione. Ripeto: un’ azienda con UTENZA PUBBLICA (oltreché privata).
A proposito di “problemi con la logica”, c’ è un passaggio abbastanza chiaro.
Io dicevo: “«Se le nostre scuole sono dei diplomifici in cui irrompono genitori isterici è per altri motivi (obbligatorietà della scuola, valore legale del titolo di studio, fallimento dell' utenza pubblica, scarsa considerazione del curriculum scolastico sul mercato del lavoro, mancanza di un college premium sul mercato del lavoro…) »
Al che lei mi risponde: “…questa è una sciocchezza… bisognerebbe forse rendere la scuola non obbligatoria…”.
E’ una reazione completamente incongrua rispetto alla mia affermazione, mi mette in bocca qualcosa che non ho detto nè implicato.
Se dico che l’ “obbligatorietà della scuola” (magari fino a 18 anni) CONTRIBUISCE, in misura che non specifico, ANCHE al presentarsi di inconvenienti (il genitore reagisce perché vuole il figlio al lavoro e vede nella scuola una resistenza), lei, senza un nesso, mi rimprovera quasi di voler abolire l’ obbligatorietà! E' come se lamentandomi di un mal di testa lei mi dicesse che sono pazzo a volermela tagliare. Il mio sguardo si farebbe interrogativo.
Naturalmente il progetto di costruire delle Agenzie per la fornitura di servizi pubblici non è fondato esclusivamente su una razionalità utilitarista (come lei sembra affermare). Anzi, il ruolo principale è rivestito da razionalità differenti, di stampo evolutivo, un certo grado di autonomia serve proprio a quello (sull’ aziendalizzazione evolutiva vedi Simon, Hayek…e mi limito ai primi due Nobel che rammento e che si sono dedicati a questo tema).
Vede professore, “traslare le proprie conoscenze in altri ambiti” non mi sembra affatto presuntuoso, specie se in passato molti successi ci hanno arriso.
Le parlavo dell’ Agenzia delle Entrate. Faccio ora un altro esempio.
All’ economista recentemente, davanti allo sfacelo della giustizia, è stato richiesto - da qualche folle lei penserà - di “entrare in tribunale” (come ha già fatto da molto tempo nei paesi che ci sopravanzano).
Nel farlo ovviamente si avvale di esperti del settore. A loro chiede “ha senso dire che una procura funziona meglio di un’ altra”, “ha senso dire che un giudice lavora meglio di un altro”, “quali sono le proxy migliori per identificare l’ eventuale gap”...?
E’ dalle risposte dell’ esperto che imposta il suo modello, un modello per modificare l’ attuale realtà de-aziendalizzata (che piace a tantissimi: carriera uguale per tutti, aumenti a pioggia degli stipendi…).
A queste domande si puo’ tranquillamente rispondere che una certa grandezza NON E’ MISURABILE, l’ economista potrebbe convenire e rassegnarsi rinunciando. Assurde sono invece le reazioni che vedono in questo interessamento (richiesto da terzi che difficilmente sono in completa malafede) un’ interferenza, magari avendo in mente una concezione ante guerra dell’ economia.
Corto circuiti: contro l' "aziendalizzazione" della scuola in nome della...responsabilità!? (2)
Preferisco non leggere la polemica altrimenti viene voglia anche a me di essere polemico.
Il suo discorso è autoreferenziale perché lei non mette in discussione la ragione per cui la scuola non è un'azienda: e cioè perché non fornisce né prodotti né servizi, bensì qualcosa che non è né una merce né una prestazione di servizio: cultura ed educazione.
Quindi continuare a intorcinarsi sulla questione dell'utenza non ha senso, se utenza non c'è. Forse chi va a scuola è come chi va ad acquistare un prodotto al supermercato o a pagare una bolletta all'ufficio postale? È da questa pazzesca confusione che nasce lo sbandamento di quei genitori che vanno a prendere a schiaffi il professore se non promuove il figlio, come si protesterebbe in un supermercato che vendesse merce avariata.
Comunque non posso dilungarmi perché tutto questo è spiegato in dettaglio e argomentato nel mio libro. Andrebbe letta anche Hannah Arendt al riguardo. Quindi si tratta di cose serie e delicate (pensate da menti non di secondo piano) che non si risolvono con le formule dell'ingegneria gestionale o con gli slogan tipo benchmark, buoni per una fabbrica di automobili. E siccome sono questioni serie preferisco non vederle liquidate con polemiche sommarie, altrimenti - ripeto - cadrei anch'io nella polemica. Il che è facile, di fronte alla superficialità e ignoranza dei valutatori e tecnocrati che impazzano sulla scuola.
Un'osservazione detta davvero con spirito amichevole e costruttivo. Ma se uno dichiara di non saperne gran che del mondo della scuola e si trova di fronte a un'affermazione di cui dichiara anche di non capire bene il senso, non sarebbe meglio aspettare, riflettere, leggere, invece di buttarsi a corpo morto a far polemica? In fin dei conti, non pretendo che quel che dico sia la Verità, ma è frutto di riflessioni di anni e di letture documentate.
“…ma se uno… si trova di fronte ad un'affermazione di cui dichiara…di non capire bene il senso… non sarebbe meglio aspettare, riflettere…”
Infatti io “chiedevo”, e senza alcuno spirito polemico (quello semmai era nell’ altrove che segnalavo, e non era poi nemmeno tanto aspro).
Quanto al “senso” del termine “aziendalizzazione”, con tutti i miei limiti, penso di conoscerlo abbastanza visto che lo impiego all’ interno della disciplina che lo ha coniato. Visto che ho partecipato da vicino ad alcune “aziendalizzazioni” di successo e ho una vaga idea di cosa le faccia fallire.
Mi rimane invece il dubbio che il senso originario abbia subito delle storpiature nel passare in altri “ambiti”, magari distanti dalla disciplina che lo impiega nell' accezione originaria. E poiché esiste un dibattito pubblico, queste storpiature non sono formalismi su cui sorvolare (sono molti i settori in cui, in nome della de-aziendalizzazione, potrebbere trovare fondamento la richiesta di privilegi smaccati e arbitrari).
“…la scuola non è un’ azienda…”
Quindi la scuola non ha né obiettivi pubblici né obiettivi privati da perseguire? Quindi la scuola non produce né costi né benefici? Quindi in ambito scolastico è superflua ogni forma d’ incentivo? Quindi nella scuola non c’ è possibilità di individuare uno scambio tra corpo docente e allievi? Quindi nella scuola non ha senso il tentativo di progettare azioni razionali anche solo in forma limitata? Oppure in questo ambito non ha alcun senso “misurare” le grandezze a cui accennavo e una misura vale l’ altra?
Sì perché la concezione di “azienda” nelle discipline economiche è parecchio mutata da almeno 25 anni (almeno dai lavori di Coase e Becker) e ho paura che Hanna Harendt non possa tenerne granchè conto. Senza queste nozioni la confusione semantica diventa rischiosissima.
L’ azienda è un organizzazione che si realizza per poter “internalizzare” i frutti dell’ azione che produce.
Internalizzare, cioè’ far ricadere sulle spalle di chi ha prodotto certe azioni le conseguenze di quelle stesse azioni. In altri termini, l’ azienda è un modo per agire in modo razionale sfruttando come armi la RESPONSABILITA’ e gli incentivi.
Laddove non ha senso parlare di “responsabilità”, di “incentivi”, di “azione razionale”, non ha senso neppure parlare di “aziendalizzazione”
“…superficialità e ignoranza dei valutatori e tecnocrati che impazzano sulla scuola…”
Guardi che anche il mercato è pieno di aziende (canoniche) che lavorano male per CARENZA NEL VALUTARE i propri dipendenti, i propri collaboratori, i prezzi futuri, i costi previsti… e chi più ne ha più ne metta. In genere subiscono una ristrutturazione per non fallire. Non una de-aziendalizzazione.
“…Forse chi va a scuola è come chi va ad acquistare un prodotto al supermercato o a pagare una bolletta all'ufficio postale? È da questa pazzesca confusione che nasce lo sbandamento di quei genitori che vanno a prendere a schiaffi il professore se non promuove il figlio, come si protesterebbe in un supermercato che vendesse merce avariata…”
Da questa lineare esemplificazione si coglie bene un classico ribaltamento dei termini.
Se la Scuola fosse un’ Agenzia demandata dall’ utenza (pubblica e privata) a fornire una preparazione all’ allievo (prodotto? servizio?), allora il genitore (utente) andrebbe semmai a prendere a schiaffi il professore perché suo figlio non ha superato i test di ammissione dell’ Università prestigiosa (prodotto avariato). E una situazione del genere (a parte gli schiaffi) non è certo patologica!!
Se le nostre scuole sono dei diplomifici in cui irrompono genitori isterici è per altri motivi (obbligatorietà della scuola, valore legale del titolo di studio, fallimento dell' utenza pubblica, mancanza di un college premium sul mercato del lavoro…)
L’ economista Alex Tabarrok (si è occupato soprattutto di carceri e ferrovie) individua tre fasi che inquadrano l’ aziendalizzazione di agenzie pubbliche 1) realizzazione (ovvero responsabilizzazione dell’ agenzia) 2) fallimento dell’ utenza (in genere l’ utenza è il soggetto pubblico che fallisce nel progettare le richieste o nell’ implementare i controlli) 3) ristrutturazione dell’ utenza 3) successo crescente.
Ci sono tutti i segnali per dire che siamo nella fase 2.