mercoledì 11 ottobre 2017

La salute non è tutto SAGGIO


La salute non è tutto


Definire la malattia è impresa improba, in genere siamo di fronte ad una “malattia” quando alcuni tratti distintivi si presentano tutti insieme.
Ne propongo sei.
  1. Il malato presenta un’ alterazione biologica di qualche tipo.
  2. La condizione del malato è involontaria.
  3. La malattia è  rara.
  4. La malattia è spiacevole.
  5. La malattia è “discreta”: l’umanità puo’ essere divisa tra “malati” e “sani”(*).
  6. La malattia si cura con medicine e terapie scientifiche(scoperte o da scoprire).
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Il cancro sembra avere le carte in regola per essere considerato una malattia, in effetti tutte e sei le condizioni si presentano.
Il nanismo non sembra una malattia poiché manca la quinta condizione
La vecchiaia, con buona pace dei transumanisti, non sembra una malattia poiché manca la terza condizione.
L’omosessualità non sembra una malattia poiché manca la quarta condizione.
L’obesità non sembra una malattia poi che mancano la seconda, la quinta e la terza condizione.
La depressione non sembra una malattia poiché manca la prima e la quinta condizione.
In molte malattie mentali manca la quarta condizione.
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Quando si discute di questi temi è facile cadere nell’equivoco: molti ritengono che l’argomento sia “medico” quando invece è “etico”.
Non è possibile stabilire cosa sia una malattia se non si possiede un solido paradigma etico di riferimento.
Si consideri che noi abbiamo un moto empatico verso il “malato” mentre stigmatizziamo il “finto malato”. Da ciò si comprende la rilevanza dell’etica nella questione definitoria.
Ipotizziamo che i nostri valori etici di riferimento siano  libertà, responsabilità e benessere.
Ebbene, non ha senso considerare ammalato chi non è disturbato dalla sua malattia. Penso all’omosessuale o al matto che crede di essere Napoleone.
Oppure: non ha senso far accedere alla condizione privilegiata di malato chi è in qualche modo responsabile per la sua condizione. Penso all’alcolizzato, al drogato o allo studente distratto.
A questo punto la “malattia” rischia di diventare un concetto soggettivo. Come definire l’omosessuale non in pace con se stesso?
Uno sbocco del genere atterrisce solo chi vede la società come una “fabbrica” con l’esigenza di uniformare tutto per innescare soluzioni a cura della catena di montaggio burocratica.
(*) La medicina antica batteva vie alternative.
Breast cancer (whole breast removed) #1, pigment print, 60 cm x 40 cm.  From the series Removals 2011-2013 by Maija Tammi.

martedì 10 ottobre 2017

Definire la malattia

"Disease" suggests that certain characteristics always come together. A rough sketch of some of the characteristics we expect in a disease might include:

1. Something caused by the sorts of thing you study in biology: proteins, bacteria, ions, viruses, genes.
2. Something involuntary and completely immune to the operations of free will
3. Something rare; the vast majority of people don't have it
4. Something unpleasant; when you have it, you want to get rid of it
5. Something discrete; a graph would show two widely separate populations, one with the disease and one without, and not a normal distribution.
6. Something commonly treated with science-y interventions like chemicals and radiation.

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People commonly debate whether social and mental conditions are real diseases. This masquerades as a medical question, but its implications are mainly social and ethical. We use the concept of disease to decide who gets sympathy, who gets blame, and who gets treatment.

Proposta:

 We should blame and stigmatize people for conditions where blame and stigma are the most useful methods for curing or preventing the condition, and we should allow patients to seek treatment whenever it is available and effective.

“Ma quando tornano i belgi…”

“Ma quando tornano i belgi…”

Il colonialismo non gode di buona stampa, gli storici lo hanno fatto a pezzi.
Eppure, non merita la reputazione che si ritrova. In generale è stato sia benefico che legittimo.
Parlo di quello del XIX secolo, ovvero quello più radicato e duraturo.
I paesi che una volta liberi hanno abbracciato la loro eredità coloniale hanno fatto meglio di chi l’ha ripudiata.
Il vero flagello della storia recente è stata invece l’ideologia anticoloniale, autentico freno pluridecennale allo sviluppo delle ex colonie.
Il colonialismo, per quel che ha messo in mostra, non merita solo l’assoluzione ma anche di essere ripensato e realizzato in forme nuove.
Meriterebbe l’assoluzione… ma non si puo’ impartirla. I tempi non sembrano ancora maturi.
La vicenda Helen Zillen è un chiaro monito; parlo della politica sudafricana che twittò l’ovvio: “gran parte del successo di Singapore va ascritto alla sua capacità di valorizzare il lascito coloniale”.
Fine di una carriera politica. Bye bye. L’ennesima vittima di un’ideologia ottusa e dannosa. E questo nel terzo millennio.
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La molla principale per ripensare il colonialismo ci viene dal fallimento su tutti i fronti dell’anticolonialismo con il suo ormai secolare pedaggio fatto di fallimenti economici ma anche di vite umane e atrocità sdoganate.
Ma come riprendere la lezione coloniale?
Prima via: chiedere ai governi locali di replicare il più possibile le tipiche istituzioni coloniali.
Lo hanno fatto con paesi di successo come Singapore, Belize e Botswana. Perché gli altri non possono?
Seconda via: ricolonizzare alcuni settori cruciali che oggi continuano a stentare. Per esempio le finanze pubbliche, oppure la sicurezza e l’ordine pubblico. Si tratterebbe di cedere fette di sovranità: un paese maturo e umile non ci penserebbe due volte.
Terza via: costruire nuove colonie partendo da zero.
Quasi dimenticavo: il nuovo colonialismo, sia chiaro, deve fondarsi sul consenso dei colonizzati.
Nonostante la tempesta abbattutasi sulla Zillen, ci sono anche segnali più incoraggianti: i padri nobili del colonialismo – Livingstone in Zambia, Lugard in Nigeria e de Brazza in Congo – godono oggi di crescente rispetto.
A Kinshasa un intercalare consolidato suona così: “ma quando tornano i belgi?”.
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Una prima critica al colonialismo lo considera oggettivamente dannoso.
Di solito la critica è aneddotica: qualche evento preso a caso qua e là, qualche atrocità considerata fuori contesto e si ritiene di aver assolto al proprio dovere di aver fatto storia.
Si potrebbe rispondere a tono facendo altrettanto: guarda la sorte toccata alle nigeriane nel nord del paese dopo la fuga dei coloni! Fine.
Ma la critica va affrontata in modo razionale chiedendosi quale sarebbe stata l’alternativa e facendo i dovuti confronti.
Misurare un controfattuale richiede di costruire un campione di paesi non colonizzati nel XIX secolo, per esempio: Cina, Etiopia, Liberia, Arabia Saudita, Thailandia, Haiti e Guatemala.
Un esercizio del genere come minimo incrinerebbe definitivamente la boria anticolonialista.
Un approccio alternativo è quello di una specifica storia controfattuale sui singoli episodi. E’ molto problematica ma s’impone.
Esempio, la campagna inglese contro i Mau in Kenya tra il 1952 e il 1960 risulta indifendibile a prima vista. Poi, guardando più da vicino, si capisce che agendo in modo tanto deciso si è evitato il peggio.
Un altro approccio mette in luce i punti deboli delle critiche al colonialismo.
Innanzitutto sono contraddittorie: a volte si sostiene che è stato troppo distruttivo, altre volte troppo poco.
Esempio: i coloni non hanno costruito uno stato solido mantenendo in voga troppe tradizioni barbare. Dopodiché, si denuncia la distruzione delle tradizioni locali.
Altro esempio: i confini dei coloni hanno portato ad un’integrazione forzata. Dopodiché, si denuncia la conservazione del tribalismo autoctono.
Altro esempio: non si è investito abbastanza in sanità e infrastrutture. Dopodiché, si denunciano gli investimenti in questi settori come una forma di sfruttamento della popolazione.
C’è poi un frutto del colonialismo che i critici sono inclini a dimenticare: l’abolizione della schiavitù.
Poi qualcuno se ne ricorda per criticarla: non è avvenuta abbastanza in fretta.
Se si è onesti alla fine bisogna necessariamente concludere che la gran parte degli interventi europei hanno comportato un beneficio netto per i paesi assoggettati.
L’opera di Juan de Pierskalla lo mostra bene.
Ecco alcune aree dove il colonialismo ha fatto tanto per migliorare la situazione: istruzione, sanità, schiavitù, lavoro, amministrazione,  infrastrutture di base, diritti della donna, caste, tassazione (più equa), accesso ai capitali
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Veniamo alla seconda critica: l’azione dei colonialisti è stata moralmente illegittima.
Molti vedono il colonialismo in modo ingenuo come l’assoggettamento forzoso di una popolazione.
Non fu questo, tanto è vero che a milioni le persone si spostarono spontaneamente verso i territori colonizzati.
Il colonialismo europeo del XIX secolo non conobbe vere forme di resistenza, anche prendendo a riferimento un orizzonte secolare.
Dice Sir Alan Burns, governatore della Costa d’ Oro: “eravamo in quattro gatti, la popolazione avrebbe potuto buttarci a mare in un attimo”. Un classico.
La parte positiva del colonialismo era sotto gli occhi di tutti. Persino un resistente come Patrick Lumumba lodò i belgi nella sua autobiografia del 1962, secondo lui ripristinarono la “dignità dell’uomo”.
Anche negli scritti di Chinua Achebe l’omaggio all’impero non manca mai.
Se i protagonisti della liberazione celebrano il “nemico” forse un briciolo di verità c’è.
No, si derubrica tutto alla voce “falsa coscienza”.
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Ma il terzomondismo ha prodotto solo ideologia militante, sarebbe tempo perso cercare in esso uno sforzo di accuratezza.
Oggi il terzomondismo s’incarna nel politically correct e non cessa di far danni. Basta guardare al Sudafrica e alle sue continue implosioni: una delle terre più fortunate del pianeta!
L’anti-colonialismo produce ancora oggi danni incalcolabili nella sua inesausta azione per fomentare la rabbiadistruttiva dei nazionalisti e  sobillare la parte più ignorante della popolazione contro il mercato e il pluralismo in politica. Tutto viene azzerato e resta solo l’invocazione del Messia, che di solito assume le sembianze di un militare specializzato in fosse comuni.
E ogni volta bisogna partire da capo con l’assunto ben chiaro in testa che “comunque sia è sempre  tutta colpa dell’uomo bianco”.
L’anti-colonialista è il cantore della vendetta e arriva perfino a fare l’apologia dell’atroce. Assurdo.
La Guinea-Bissau è un caso di scuola.
Qui l’eroe degli anti-colonialisti si chiama Amilcar Cabral.
Il suo piano era semplice: distruzione totale dell’esistente.
Si tenga presente che quando i portoghesi arrivarono laggiù la produzione di riso quadruplicò fin da subito. Anche la speranza di vita s’impennò in breve tempo.
Cabral agì raccogliendo l’aiuto degli scontenti? No, di scontenti ce n’erano pochi, tutta colpa della “falsa coscienza”. In cambio però raccolse l’aiuto di Cuba, URSS, Cecoslovacchia e Svezia.
La sua azione di resistenza cominciò e nel 1974 finalmente prese il potere: 30.000 morti e 150.000 profughi.
E il “dopo” liberazione?
Guerra civile, ovvio.
Nel 1980 la produzione di riso era dimezzata rispetto a quella dei portoghesi. La politica era una rissa continua tra guerriglieri.
Una rissa tra alleati perché l’opposizione era tutta nella fossa comune (500 cadaveri rinvenuti nel 1981).
E il lavoro?: problema risolto assumendo 15.000 impiegati pubblici (10 volte quelli dei portoghesi).
E gli storici marxisti? Dopo una breve ma profonda confusione mentale trovarono il colpevole: l’eredità coloniale.
Arrivano poi aiuti dall’occidente: milioni e milioni. Ci si specializza nell’accaparramento della manna anziché nella produzione.
Oggi la produzione di riso è ancora 1/3 rispetto a quella storica portoghese. E intanto sono passati 40 anni. L’unica cosa che non passa, per certi storici, è “l’eredità coloniale”.
Ah, la vita media… è oggi di 55 anni. Non è aumenta dall’indipendenza.
In Guinea tutti hanno sospirato per anni: “ma quando tornano i portoghesi?”.
Vi sembra un caso estremo? No, è un caso qualunque.
Nel terzo mondo la politica dei despoti è sempre stata la stessa: rievocare il fantasma coloniale. E in questo una bella mano l’ha data una storiografia superficiale perché militante.
L’errore di fondo, secondo Isgreja, è stato quello di assumere che gli anti-colonialisti fossero le vittime anziché i carnefici.
Ma agli storici europei i crimini anti-coloniali non interessano, loro hanno nel mirino solo il colonialismo: la fonte di tutti i mali.
Per fortuna c’è stata anche una decolonizzazione più armoniosa: l’ha compiuta chi ha accettato l’eredità coloniale facendola fruttare. Arthur Lewis si riferisce a questi paesi “copia/incolla” come alla parte più creativa del Terzo Mondo.
Purtroppo, la regola generale è stata quella della Guinea-Bissau: secondo la Banca Mondiale l’Africa è stata testimone di un netto regresso nel periodo post-coloniale.
Ma l’anticolonialismo è un tarlo insediato nella testa di molti e che non riesce ad essere sgomberato. Persino grandi paesi come India, Brasile e Sudafrica amano ancora apparire, specie in politica estera, come anti-occidentali.
La strategia di politica estera di molte ex-colonie è ancora trainata dal vittimismo. Più che difendere i propri interessi e accollarsi le proprie responsabilità preferiscono “rivendicare” diritti a destra e a manca, e quando non arriva niente, cominciano a pietire. Sri Lanka, Zimbawe, Venezuela, e gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Oggi l’anti-colonialismo è anche la maggior minaccia ai diritti umani. In nome dell’anticolonialismo tutto è concesso.
Le ex colonie devono reagire! Se l’Inghilterra non avesse reagito sarebbe ancora una terra di Druidi lamentosi in cerca di risarcimenti dai romani.
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Che fare dopo la dipartita degli imperialisti? la cosa migliore è riprendere laddove costoro hanno interrotto la loro opera.
In molti casi virtuosi la vecchia classe burocratica colonialista è stata riassunta in blocco. Lo stesso dicasi per le forze dell’ordine.
Spesso occorre un atto di umiltà: riconoscere la propria incapacità ad autogovernarsi. Non è un atto facile, e i più superbi sono anche i più stupidi (ma va?).
Plamenatz e Barnes vedono in questa mancanza di umiltà il problema centrale.
Un paese umile non teme di appaltare servizi importanti a paesi esteri secondo nuove forme virtuose di colonialismo.
Esempio: nel 1985 il governo indonesiano licenziò 6000 ispettori corrotti e inefficienti all’aeroporto di Jakarta appaltando il servizio alla SGS svizzera. Un successone.
Le multinazionali dovrebbero essere coinvolte anche nella fornitura di servizi pubblici, non anatemizzate come la fonte di tutti i mali. Quando questo avviene a volte va male ma più spesso va bene. E quando va bene va davvero bene…
La seconda via è quella che consiste nel “ricolonizzare” alcune aree del paese, il cosiddetto “statebuilding”.
Il problema dello “statebuilding” è lo scarso coinvolgimentodell’occidente. In altri termini: troppo poco colonialismo, non troppo.
Recentemente l’Australia si è impegnata in uno statebuilding nelle isole Salomone. Lo sforzo e il coinvolgimento necessario sono stati massimi per addivenire ad un successo. E le isole Salomone sono uno sputo nell’oceano.
L’ONU per istituire con qualche garanzia una commissione di giustizia in Guatemala ha dovuto avocare a sé tutte le forze di giustizia e di sicurezza di quel paese per appaltarle poi a poteri esterni. Una manovra complessa e rischiosa… ma necessaria.
E poi, non inventiamo strane parole per cortesia: certe missioni sono missioni coloniali a tutti gli effetti, punto e basta. Già questa paura ad usare in modo preciso i termini fa temere che l’occidente non potrà mai essere coinvolto al 100% in questi progetti.
Ignatieff: l’imperialismo non cessa di essere necessario per il semplice fatto che è politicamente scorretto.
Ma oggi c’è il mito dell’auto-governo: tutti sono per definizione capaci di governarsi. E’ bello crederlo ma è stupido continuare a farlo dopo che i fatti hanno parlato chiaro e in modo contrario.
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I problemi del neocolonialismo sono almeno tre: 1) come farsi accettare dai colonizzati, 2) come motivare i paesi occidentali ad agire, 3) come rendere la colonizzazione una strategia vincente.
Il nuovo colonialismo deve fondarsi sul consenso, sia chiaro. Ma attenzione: di fatto è sempre stato così, lo abbiamo visto più sopra.
E qui i critici si fanno sarcastici: manca sempre un consensoformale, trasparente e rappresentativo.
I critici non colgono l’essenziale: se i paesi colonizzati fossero formalmente puliti, trasparenti e capaci di produrre rappresentanze non avrebbero bisogno dei colonizzatori! Il lavoro di Chesterman è chiaro sul punto.
Il consenso in genere è di fatto. Esempio: il chiaro supporto della Sierra Leone all’azione inglese tra il 1999 e il 2005 per ricostruire le forze di polizia.
Serve un leader locale che sia popolare e al contempo uno sponsor della relazione coloniale.
Il presidente della Liberia Ellen Johnson Sierleaf costituisce un prototipo.
Man mano che il colonizzato si rende autonomo, la legittimità del colonizzatore declina e va continuamente ricalibrata: la exit strategy diventa fondamentale.
Per Darwin si realizza un paradosso tipico: l’uscita coincide con il momento più attivo dello statebuilding. Tutto puo’ essere rovinato da un passo falso.
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C’è poi il problema di motivare l’occidente. L’impresa coloniale è quasi sempre stata in perdita. Richard Hammond ha parlato di “imperialismo diseconomico”.
E’ per questo che i colonizzatori hanno sempre mollato la preda senza resistere granché. Wu fa l’esempio degli olandesi a Taiwan come prototipo.
Il problema dell’imperialismo non è che è cattivo ma che è costoso.
Chiedete quanto è costato all’Australia colonizzare e ricostituire un tessuto istituzionale nelle isole Salomone.
L’ ONU in questo senso è inaffidabile, dominato com’è da paesi imbevuti nell’ideologia anticoloniale.
Soluzione Hechter: creare un mercato transnazionale per la governance.
Un colonialismo in affitto: i colonialisti vengono pagati – con rinegoziazioni periodiche – per i servizi resi.
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Terzo problema: come realizzare progetti coloniali di successo?
Prima lezione: ripartire dalle vecchie istituzioni coloniali, la Cambogia è un buon esempio.
Seconda lezione: mantenere una congruenza tra i valori della comunità e quelli dello stato.
Il vecchio colonialismo conosceva bene il trucchetto: mandato duale,  regola indiretta, staff locale, primato della consuetudine… sono tutte istituzioni che lavorano in parallelo alle riforme di modernizzazione.
C’è poi la visionaria soluzione proposta da Paul Romer: colonizzare integralmente dei nuovi territori disabitati. I paesi ricchi dovrebbero costruire delle charter city nei paesi poveri prendendo in affitto territori desertici o quasi.
Praticamente si tratterebbe di ricreare tante Hong Kong in giro per il mondo.
Il piano nasce da una semplice considerazione: per ridurre la povertà nel mondo la piccola Hong Kong ha fatto di più di tutti i programmi internazionali d’aiuto messi insieme. Che farne di questa informazione?
La legittimazione delle charter city è ovvia: i cittadini verrebbero spontaneamente attirati da istituzioni occidentali. Nessun sospetto di assoggettamento.
Qui il colonizzatore potrebbe evitare gran parte dei problemi che abbiamo visto finora: avrebbe una tabula rasa su cui costruire partendo da zero. Zero path dependence.
Ipotesi: prendete l’isola di Galinhas di fronte alla Guinea-Bissau (10 miglia) e supponete che venga affittata ai portoghesi i quali ne farebbero un Portogallo in miniatura. In teoria, si badi bene, potrebbe ospitare l’intera popolazione della Guinea-Bissau.
Con un pazzo come l’anticolonialista Cabral in continente cosa succederebbe?
Migrazione di massa, ovvio. No stragi, no fosse comuni, no guerra civile… e Cabral a casa quanto prima.
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Provocazione: se la Palestina si facesse colonizzare da Israele tutti i problemi pratici sarebbero risolti per quasi tutti. Fine di un tormentone telegiornalistico.
E se l’Italia si facesse colonizzare dalla Germania?
L’Italia del sud si è fatta colonizzare a suo tempo dai piemontesi e non è andata molto bene, forse con la Germania andrà meglio? 🙂
COLONIEEE