giovedì 2 maggio 2013

Punire il femminicida

Il Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini recentemente ha scritto un' accorata lettera al Corriere della Sera per prendere di petto una volta per tutte l’ emergenza che in queste ore sta mettendo a dura prova le sorti del Bel Paese, parlo dell' emergenza femminicidio naturalmente.
Il Presidente auspica che il fenomeno venga affrontato per via legislativa: Governissimo e Parlamento devono farsene carico al più presto.
Nessuno sa con esattezza cosa ci sia dietro espressioni quali “per via legislativa” ma è possibile prevederlo: pene più severe. Meglio se esemplari.
Detto in altri termini, il criminale che si macchierà di “femminicidio” sarà punito più severamente del criminale che, ad esempio, si limiterà ad uccidere una donna.
Il primo ad appoggiare in modo entusiasta l’ appello è stato il pimpante Aldo Cazzullo che settimana scorsa leggeva i giornali a Prima Pagina.
Il giornalista ha alzato al cielo le sue strilla di giubilo giustificandole poi così: trattasi di atto “particolarmente odioso” che merita pene “particolarmente severe”.
Una motivazione particolarmente ideologica, mi viene da dire.
E vista la carica altamente ideologica  che ha sempre contraddistinto una figura come Laura Boldrini, sono portato a pensare che la giustificazione della sua richiesta non si discosti in modo significativo da quella del Giornalista Unico di vedetta questa settimana nell’ inespugnabile fortino di Radio Tre.
Eppure scommetto che anche per due “smart” come il giornalista Cazzullo e la Presidente Boldrini sarebbe imbarazzante presentarsi al cospetto dei parenti di un assassinato a sangue freddo nel corso di una rapina dicendo che in fondo cio’ che ha subito il loro congiunto non è un trattamento “particolarmente odioso”.
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Purtroppo (per LB) i criteri con cui di solito si stabilisce l’ equità di una pena non comprendono l’ “esemplarietà”.
L’ ideologia dovrebbe essere bandita da materie tanto delicate e gli atti simbolici dovrebbero di conseguenza lasciare spazio agli atti razionali.
Stabilire l’ equità di una pena inflitta non è come indire un “giorno della memoria” all’ ONU, la sensibilità al simbolico deve cedere il passo al pensiero ordinato. C' è poco dai giochicchiare con i simboli quando in ballo c' è la vita delle persone.
Di sicuro la sede in cui si stabilisce l' equità della pena non è la sede ideale per allestire la vanitosa sfilata dei "buoni" di professione.
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Ma come si calcola una pena equa?
La pena equa è decisa da un membro molto particolare della società. Un soggetto costruito a tavolino e che non esiste nella realtà, un soggetto che dobbiamo raffigurarci facendo uno sforzo d’ immaginazione. Potremmo chiamarlo Decisore.
Se la comunità fosse costituita dai soggetti x, y e z, il Decisore prenderebbe dapprima le sue decisioni in materia di pena equa, e solo successivamente, in modo completamente casuale, scoprirebbe  la sua reale identità che potrà essere indifferentemente x, y o z.
In gergo si dice che il Decisore agisce dietro un velo d’ ignoranza.
Un soggetto del genere non è né maschio né femmina, né ricco né povero...  Non è nulla del genere, o meglio, non è ancora nulla del genere; nel momento in cui decide non ha nemmeno un corpo!
Ideologismi e moralismi sono finalmente tolti di mezzo, il Decisore è un egoista razionale. Ma un egoista molto particolare che non puo’ trascurare gli interessi di nessuno visto che in lui collassano gli interessi di tutti.
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La pena equa selezionata dal Decisore per ciascun crimine sarà dunque scelta soppesando alcuni parametri chiave.
1. VITTIMA/COLPEVOLE.
Nella sua vita incarnata il Decisore potrebbe ritrovarsi ad essere un criminale, pensando a questo ci andrà piano nel prevedere pene eccessivamente severe.
Ma potrebbe essere anche una vittima potenziale in grado di scamparla se solo la pena fosse sufficientemente elevata da offrire una deterrenza efficace.
E’ da questo tira e molla che nasce la pena equa.
In altri termini, il Decisore, da dietro il suo velo, è sia vittima che carnefice. Dentro di lui potenziale vittima e potenziale carnefice contrattano animatamente.
2. DANNO/VANTAGGIO.
Se i danni derivati alla vittima saranno ingenti, nel decisore la voce della vittima cercherà di orientarlo con forza verso una pena aspra; ma se i vantaggi derivati al colpevole saranno ingenti, il Decisore sentirà forte una voce che sponsorizza pene lievi.
Per cogliere meglio il punto: uccidere un ragazzo nel fiore degli anni e pieno di vita non è esattamente come uccidere  un aspirante suicida. Anche se sempre di omicidio si tratta.
3. APPLICABILITA’.
Se il colpevole puo’ facilmente sfuggire alla sua sorte, la vittima desidererà compensare questo pericolo con pene più severe; d’ altro canto, il potenziale colpevole tollera la richiesta di pene più severe quando sa che le vie di fuga sono molte.
Si tratta di un fattore in cui gli interessi di potenziale colpevole e potenziale vittima sono allineati.
4. RECIDIVA.
Anche qui gli interessi sono allineati: se riteniamo che ricadere nello stesso delitto sia poco desiderabile sia per la vittima che per il colpevole, è giusto auspicare pene tanto più severe quanto più questa possibilità è concreta.
Se un delitto non verrà mai commesso di nuovo dalla stessa persona, perché punirla con un sovrappiù di pena?
5. COSTOSITA’ della pena.
Applicare la pena è costoso. La galera non sarà un hotel a cinque stelle ma ha pur sempre un costo che di solito viene accollato alle potenziali vittime.
La potenziale vittima razionale pensa in questi termini: se una pena ha scarso potere deterrente meglio abbassarla, si risparmierà almeno sui costi.
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Vediamo ora come i quattro fattori salienti impattano nel confronto tra femminicidio e semplice omicidio (magari di una donna).
1.
Sarò vittima del crimine?
Ecco cosa si chiede il decisore da dietro il suo “velo”.
Se il crimine in questione è l’ omicidio da rapina, allora è praticamente impossibile rispondere. Chiunque, per esempio, puo’ essere vittima di una rapina che si conclude tragicamente. Come escluderlo a priori?
E nel caso del femminicidio?
Non dirò certo che uno si va a cercare certe compagnie ma di sicuro in un caso del genere gioca un ruolo anche la discrezionalità della vittima: ma perché non lo molli prima un tipo così? Anzi, perché hai cominciato a frequentarlo contribuendo ad intrecciare con lui un rapporto tanto morboso?
Una discrezionalità del genere è opinabile ma di sicuro non esiste, per esempio, nell’ omicidio in seguito a rapina.
Mi hanno rapinato e mi hanno ucciso. Certo, potevo starmene a casa anziché andare al cinema, ma…
Chi rinuncia a vivere ne uscirà sempre incolume ma chiedere una simile rinuncia è palesemente assurdo.
Il Decisore ragionerà allora in questi termini: scampare al femminicidio sarà per me possibile, qualora sentirò “puzza di bruciato”, forse saprò tirarmi indietro.
Ed ecco che le probabilità di essere vittima di femminicidio si abbassano di un pelino a parità di tutto il resto.
Ricordiamoci che nel Decisore il potenziale colpevole spinge per abbassare la pena incontrando l’ opposizione della probabile vittima; se la probabile vittima si accorge di essere un po’ meno probabile di quel che pensava, rilasserà le sue pretese.
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C’ è poi il caso dei “colpevoli innocenti”.
Nel Decisore, oltre alla voce del potenziale colpevole, parla anche la voce del potenziale innocente dichiarato colpevole. Entrambi questi personaggi fanno le medesime rivendicazioni.
L’ interesse dei due è allineato e diventa importante isolare quei crimini dove l’ errore giudiziario è più probabile.
Esiste il rischio che un innocente venga condannato di omicidio?
Naturalmente esiste in tutti i generi di omicidio. Ma nel caso dei femminicidi il rischio è più elevato visto che la fattispecie non sempre è chiaramente distinta da quella del “semplice” omicidio.
A dire la verità ancora oggi c’ è gente che non ha capito bene come discernere in teoria il femminicidio dall’ omicidio di una donna, figuriamoci quando si passa al caso pratico.
Il Decisore deve tener conto che potrebbe incarnarsi in un colpevole ma deve assommare a quella probabilità la probabilità di incarnarsi in un semplice omicida accusato ingiustamente di femminicidio.
2.
L’ vittima dell’ assassinio sarebbe stata una persona felice?
Se sì, allora i danni procurati dall’ assassino sono particolarmente gravi.
Difficile comunque rispondere alla domanda: io me ne andavo al cinema e un rapinatore mi ha ucciso. Sarei stato felice? Boh!
E la vittima media dei “femminicidi”?
Anche qui difficile dire, bisognerebbe chiedere allo psicologo.
Probabilmente non si tratta di persone particolarmente abili nella gestione delle relazioni intime e noi sappiamo che la felicità di un soggetto dipende in modo preponderante dalla qualità delle sue relazioni.
Il Decisore dovrà soppesare con cura simili informazioni.
3.
Il femminicidio non è quasi mai un omicidio perfetto.
Il femminicida difficilmente sfugge alla sua sorte. Addirittura è talmente poco desideroso di sfuggire alla sua sorte che spesso si suicida o si costituisce.
Quando va male tenta delle ridicole quanto brevi fughe.
Di sicuro è più difficile catturare chi uccide in modo professionale calcolando tutte le conseguenze del suo gesto, pensiamo solo ai rapinatori professionisti o ai terroristi.
Il fatto che il colpevole non puo’ o non vuole farla franca indebolisce il bisogno di una deterrenza forte della pena.
4.
Sicuramente la recidiva è un rischio a cui sono soggetti tutti gli assassini.
Bisognerebbe chiedere ai criminologi la posizione dei femminicidi rispetto agli altri assassini.
C’ è però un aspetto tecnico che rende la recidiva del femminicidio più difficoltosa: bisogna costruire una relazione minimamente complessa e stratificata per odiare la propria donna fino ad ucciderla. Questo richiede tempo ed energie.
Il killer appena uscito di galera, al contrario, puo’ ricevere ordinativi che lo fanno entrare in azione immediatamente.
5.
Spesso il femminicida è un povero disperato che si augura solo di marcire in galera. Si dirà: e allora non lesiniamo sulle pene!
In questi casi l’ atteggiamento più corretto è quello contrario: le pene verso chi desidera subire pene aspre dovrebbero essere più lievi.
Chi desidera pene aspre non teme la pena. Detto in altri termini, la pena non ha potere deterrente su di lui, ovvero non tutela le potenziali vittime. D’ altro canto la pena ha un costo che le potenziali vittime devono sobbarcarsi. La conclusione è che in casi del genere non ha senso formulare pene particolarmente afflittive. 
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Analizzando i cinque fattori non ideologici sulla base dei quali elaborare una pena equa, non mi sembrano emergere stringenti ragioni per inasprire quelle che colpiscono il femminicida.
E consiglio al Presidente Boldrini di non approfondire la pratica, il rischio è quello di giungere a conclusioni opposte rispetto a quelle verso cui la spinge la tanto amata ideologia.