Vuoi convertirti all’ anarchia?
Il modo migliore per farlo è leggere l’ ultimo libro di Michael Huemer, The Problem of Political Authority: An Examination of the Right to Coerce and the Duty to Obey.
MH non ha teorie da proporre, rinuncia a definire cosa sia la libertà o cosa sia la proprietà personale, evita con cura d’ imbarcarsi in ragionamenti sopraffini quanto astratti, chiede piuttosto al lettore di meditare su un fatto.
FATTO: Giovanni ha un problema: non riesce a sopportare che molta gente stia al mondo in perenne stato di bisogno. E’ un sentimento nobile il suo, e per questo sentimento riscuote l’ ammirazione di molti. Ma Giovanni non si limita ai sentimenti e passa presto all’ azione dedicando di fatto tutto il suo tempo libero al volontariato presso una ONLUS della sua città. Nonostante questa scelta lo appaghi, nota che ci vorrebbe molto di più per alleviare in modo significativo le molte sofferenze inique con cui entra in contatto giorno per giorno. Chiede ai vicini di collaborare attraverso delle donazioni decidendo al contempo di sequestrare e imprigionare nella sua cantina chi non è disposto a farlo in un modo che lui reputa adeguato.
OSSERVAZIONE: Chiunque legga una storia del genere condanna il comportamento di Giovanni. La sua voglia di aiutare il prossimo e commendevole ma le sue pratiche estorsive ripugnano al buon senso e fanno di lui un pericoloso fanatico. Possiamo chiedere a un berlusconiano, a un fascista, a un comunista, a un terzomondista, a un sincero democratico, a un liberista, a un nazionalista, a un idealista, a un pragmatico, a un conservatore, a un progressista… possiamo chiedere a chiunque e la risposta sarà sempre di ferma condanna. Una condanna che prescinde l’ ideologia di provenienza e la simpatia istintiva che si prova verso il generoso Giovanni.
LA DOMANDA DI MICHAEL HUEMER: perché chi condanna tanto fermamente Giovanni poi tollera, e magari loda, soggetti che tengono un comportamento analogo? Esempio: lo Stato?
Cosa dà al governo statale il diritto di comportarsi con modalità che se fossero osservate da chiunque altro sarebbero oggetto di dure reprimende?
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I filosofi della politica, imbarazzati da questo semplice quesito, hanno elaborato nel corso dei secoli alcune teorie per aggirare l’ ostacolo:
… c’ è chi ha parlato di contratto sociale… come se fossimo legati da un accordo… lo stato non è che un contratto, si dice… il problema di questo approccio è che un contratto del genere non esiste nella realtà… neanche in forma implicita… come si puo’ porre in modo credibile a fondamento della nostra vita condivisa qualcosa che non esiste?…
Altri hanno puntato sull’ elemento democratico:
… ma l’ elemento democratico di per sé non conferisce alcuna legittimità… la cosa è palese… se Qui, Quo e Qua vogliono esibirsi in un quartetto d’ archi non possono costringere Paperino a studiare il violoncello con la minaccia delle armi adducendo che la bizzarra vessazione è stata decisa da tutti gli interessati a maggioranza qualificata ed è quindi legittima…
Un precetto etico non sarà mai accettabile per il solo fatto che è stato deciso a maggioranza.
Molti pragmatici seguono Hobbes: senza un governo la società degenera in una lotta di “tutti contro tutti”, anche i tipi più bonari si trasformano in brutti ceffi.
… ma una teoria del genere legittimerebbe solo una parte infinitesimale del potere che oggi il governo pretende di esercitare e che noi gli riconosciamo senza sollevare grandi obiezioni… Non serve nemmeno discuterla nel merito – e ci sarebbe molto da discutere – per ritenerla inadeguata a giustificare cio’ che ci preme giustificare…
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Stringi stringi, la domanda tipica a cui deve rispondere chi si occupa di filosofia politica è questa:
… il governo politico dovrebbe avere vincoli morali simili a quelli che sono tenuti ad osservare gli agenti privati…?… poiché il buon senso ci dice che tutti dovremmo essere sottoposti ai medesimi vincoli morali e che non esistano soggetti “moralmente superiori”… dobbiamo concludere che in politica l’ unica posizione compatibile con il buon senso è quella libertaria… giusto l’ evidenza palmare e solidamente dimostrata di costi elevatissimi potrebbe indurci a deviare dal solco libertario…
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Provo un’ empatia istintiva con le posizioni di MH perché evita abilmente sia le presuntuose petizioni di principio che il sofistico conseguenzialismo.
La teoria dei diritti naturali non è necessaria, cosicché i vari contro-esempi che la confutano non disturbano. L’ utilitarismo non è tirato in ballo, cosicché tutta la sequela di debolezze che lo minano non rileva.
Non è necessario definire con il bilancino i limiti della libertà personale, non occorre nemmeno avere una teoria della proprietà.
Delle semplici analogie bastano e avanzano.
MH si limita a porre degli esempi che il buon senso e l’ intuizione etica di ciascuno risolve senza difficoltà – vedi il caso di Giovanni –, dopodiché ci viene chiesto semplicemente di seguire le regole intuite dal buon senso anche in casi analoghi a quello proposto.
MH non è dogmatico: quando il danno che deriva dal seguire le regole del buon senso è palmare, è il buon senso stesso che ci chiede l' eccezione.
Che Giovanni sbagli ce lo dice il buon senso, che non esistono soggetti moralmente superiori ce lo dice il buon senso… eccetera eccetera
Il buon senso diventa così la radice del libertarismo.
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Il libertarismo di MH lascia ampio spazio alle scienze sociali.
Torniamo per un attimo a quanto dicevo un attimo fa: “… quando il danno che deriva dal seguire le regole del buon senso è palmare…”.
E chi stabilisce le “evidenze palmari”? Non certo l’ esperienza aneddotica di Pinco Pallino ma i metodi statistici delle scienze sociali.
E’ attraverso di esse che noi siamo tenuti a dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio che una certa pratica è socialmente devastante e va quindi proibita.
La pornografia su internet è “socialmente devastante”?
Per molti riduce addirittura gli stupri. Sia come sia non esistono prove palmari che sia “socialmente devastante”, di conseguenza le regole libertarie che hanno radice nel buon senso continuano a valere.
E l’ immigrazione? Idem.
E il libero porto d’ armi? Idem.
E la droga? Idem.
Eccetera, eccetera.
Vi garantisco che un uso rigoroso della statistica riesce a dimostrare ben poco, ovvero, confuta in modo rigoroso chi ritiene di aver dimostrato qualcosa. Potrei sbizzarrirmi con gli esempi: più soldi alla scuola? Devi dimostrarmi che la cosa serve, dice il libertario (mettendo facilmente in dubbio che la cosa sia mai servita in passato). E così per tutto il resto.
MH convince meno nella seconda parte del libro, quando difende la posizione anarco-capitalista.
Se guardo alla storia delle società umane posso dire due cose:
1. Hobbes ha torto marcio: l’ assenza di governo non produce affatto l’ anarchia del tutti contro tutti ma si traduce sempre in un ordine naturale.
2. Purtroppo l’ ordine naturale che emerge è di tipo clanico e assomiglia ben poco a quello tanto amato dai libertari, potrebbe essere a malapena digerito da un conservatore duro e puro.
[… forse abbiamo scoperto come mai esiste un filo rosso che lega libertari e conservatori: le società che nascono secondo l’ idealizzazione libertaria producono poi valori tipicamente conservatori (famiglia estesa, onore, sangue…)…]
Dei valori libertari c’ è poco o niente. Come ottenerli, allora?
Ho la netta sensazione che per produrli sia necessario affidare allo Stato almeno un paio di missioni: coordinare la produzione di alcuni beni pubblici (difesa, giustizia, utilities) e compensare le esternalità evidenti (inquinamento).
In tutta questa discussione c’ è una domanda che aleggia come un convitato di pietra: se la presenza di un governo esteso è sia irrazionale che contraria al buon senso, perché i governi centrali esistono, persistono e sono ormai una soluzione universalmente adottata?
Per molti il fatto che un governo esista e persista è di per sé qualcosa che lo giustifica.
Questo è un modo per dire che le spiegazioni non interessano, ad altri invece interessano eccome e tentano di darne.
Presso i libertari va per la maggiore questa:
… una volta che lo stato s’ insedia comincia a formarsi una classe burocratico-clientelare che prospera più o meno indirettamente grazie alle attività statali… è una classe composta da persone che conoscono a fondo i meccanismi dello stato e che sono interessate ad estenderne le funzioni quanto più possibile… l’ azione di queste minoranze organizzate e competenti fa premio sugli interessi della maggioranza ignorante…
Non mi convince: si puo’ prendere in giro qualcuno per molto tempo, si possono prendere in giro molte persone per un certo tempo ma non si possono prendere in giro tutti per sempre.
No, siamo noi a volere lo stato-mamma, solo una sparuta minoranza ne farebbe volentieri a meno. Parlando con amici e conoscenti mi accorgo che sono anche più statalisti dei boiardi ministeriali.
Occorre una teoria alternativa, la mia preferita è questa:
… le persone sono mediamente molto più sconvolte da piccoli soprusi sporadici, anonimi e imprevedibili, piuttosto che da grandi soprusi costanti, identificabili e prevedibili… Gli anarchici sostengono che il Governo non si differenzia dal semplice bandito di strada se non per il fatto che il governo dopo averti rapinato senza indossare una maschera non scappa ma resta alle tue calcagna in attesa di rapinarti anche il giorno dopo… non si rendono conto che proprio questa caratteristica spiega il successo dello Stato moderno… infatti, una ragione per cui ci si sottomette alle coercizioni governative sta proprio nel fatto che esse sono relativamente costanti, che i leader di governo siano ben identificabili e le loro vessazioni tutto sommato prevedibili…
Abbiamo un rapporto strano con il rischio: la sicurezza ci crea dipendenza.
La nostra avversione al rischio cresce fino a diventare una vera avversione alle perdite.
E che problema c’ è?, dicono in molti, in fondo un alto grado di avversione al rischio non esprime altro che una “preferenza” e lo stato è la risposta razionale a questa preferenza del tutto legittima. Avere una preferenza non significa essere in errore.
Bè, devo riconoscere che chi parla così ha solide ragioni.
Ma l’ avversione alla perdita è anch’ essa una preferenza?
Non saprei come negarlo, anche se sembra una preferenza a dir poco particolare. Potremmo chiamarla una “preferenza irrazionale”!
Veramente non saprei dire se il concetto di “preferenza irrazionale” abbia senso, mi sa di no.
Ma giudicate voi, mi limito a chiarire i termini per chi non mastica di queste cose:
1. Avversione al rischio: preferisco intascare 100 anziché 150 perché 100 sono sicuri mentre 150 sono incerti.
2. Avversione alla perdita: sebbene entrambe le ricchezze siano certe, preferisco avere 100 anziché 150 perché per avere 150 dovrei prima ottenere 200 e poi perdere 50. Il dispiacere per la perdita sarebbe tale da non poter essere compensato dal guadagno netto finale, per quanto questo guadagno sia certo.
Non so se l’ avversione alla perdita sia una semplice preferenza o un bias psicologico ma ho la netta sensazione che la metamorfosi dell’ avversione al rischio in avversione alla perdita faccia crescere una genuina domanda di Stato-mamma.