martedì 25 ottobre 2011

Le Università sono fatte per imparare? No. Prova n. 13

Tempo fa ci chiedevamo: ma perché l’ on line e l’ information technology non rivoluzionano il mondo delle università?

Sembra incredibile ma mia nipote frequenta l’ ateneo esattamente come facevo io: avanti e indietro sui treni, magari con un’ ora di lezione fissata al mattino e una al pomeriggio (le quattro in mezzo girovagando in cerca di un angolino per studiare che sia il meno scomodo e freddo possibile).

Eppure, standosene a casa, potrebbe assistere comoda (molto di più che in presenza) alle lezioni dei professori più prestigiosi del mondo. Riascoltarsele e studiare al calduccio nella sua cameretta cominciando da subito senza perdere tempo. Magari interagendo con una compagnia scelta. Magari ordinando, ripetendo e personalizzando gli ascolti come si crede.

A costi bassissimi, la crema intellettuale potrebbe far lezione a moltissimi studenti sparsi in tutto il mondo. Eppure una rivoluzione del genere non sembra essere affatto all’ orizzonte.

Nelle nostre Università, tutto scorre placido, esattamente come se niente fosse successo.

Si potrebbe fare a meno di gran parte della classe docente e di gran parte dell’ “hardware” universitario (immensi e prestigiosi palazzoni stipati di libri e dalla manutenzione costosissima).

Wary Meyers

Questa affermazione potrebbe far drizzare le orecchie, ma io non penso che il blocco innovativo sia da imputare esclusivamente a resistenze di “casta”.

La risposta all’ enigma, per quanto sgradevole, mi sembra invece piuttosto facile: evidentemente le Università hanno poco a che fare con l’ istruzione di chi le frequenta. Il loro obiettivo è un altro.

Ma d’ altronde, basta fare un minimo di introspezione per accorgersene.

Gran parte delle abilità richieste vengono acquisite sul posto di lavoro. Dài, guardiamoci negli occhi, per chi non è così? Il sapere acquisito all’ università, se mai c’ è stato, è da subito remoto e perduto per sempre.

Non voglio con questo insinuare che le Università siano inutili: operano pur sempre una costosissima cernita molto apprezzata dalle aziende.

Per esempio, il sistema universitario indica quali sono i ragazzi più docili, coscienziosi e conformisti. Almeno le università più dure.

Chi non lo sottoscriverebbe?: bisogna avere un’ indole del genere per sopportare anni e anni di duro studio.

Questa informazione, lungi dall’ essere secondaria, è molto valorizzata da chi assume (provate a portarvi in casa un semi-teppista lunatico, magari anche intelligentissimo).

Certo, il costo per ottenere la cernita di cui sopra è decisamente sproporzionato, ma è anche “nazionalizzato” e quindi questo genere di sprechi non interessa il datori di lavoro.

Le aziende, dunque, sono molto sensibili alle informazioni che ricevono dalle università, conviene sempre assumere (e pagare di più) un laureato piuttosto che un diplomato. Cio’ fa sì che la laurea divenga “obbligatoria”, specie quando non si pagano i servizi ricevuti. E per lo più questo genere di servizi non si paga o si paga in misura ridotta!

Chi non vede in tutto cio’ un colossale spreco? L’ unica soluzione sarebbe quella di impedire a gran parte degli utenti di fruire del servizio (test severi all’ ingresso o innalzamento dei contributi), in modo che avere certi titoli o assumere gente con certi titoli non sia più sentito come “obbligatorio” visto che certi titoli sono riservati a un’ élite.

Quando il pc sostituirà la scuola e la domanda da cui siamo partiti non avrà più senso, forse, sarà un bel giorno.

p.s. che all’ Università non si vada né per imparare, né per insegnare è una delle tesi su cui lavora indefesso il “department of isn’t”.