Nell’epoca dell’informazione diffusa e dell’università obbligatoria fino a 25 anni ha poco senso distinguere tra “istruiti” ed “ignoranti”. Meglio distinguere tra “acculturari” e “colti”.
L’ “acculturato” trascorre più tempo a scrivere che a leggere e almeno ogni mese passa in rassegna tutto lo scibile umano dicendo la sua con grazia e superficialità. Magari in un tweet. Di solito è un giornalista, spesso vive di “parole”.
Si differenzia dall’ignorante perché lui non ignora, ha solo delle lacune qua e là. La “maledizione dell’acculturato” consiste nel fatto che è irresistibilmente attratto dalle sue lacune e che il suo discorso persiste in modo singolare nell’orbitare intorno ad esse.
Il “colto” scrive solo un libro su un argomento all’apparenza marginale dopo aver passato tutta la vita a pensarci su. Anziché scrivere il secondo libro opta per un aggiornamento del primo. Di solito è un professore universitario.
Ma meglio delle definizioni astratte è un esempio concreto su un argomento specifico: prendiamo il caso della “tortura”.
Ecco esattamente cosa dobbiamo aspettarci dall’acculturato frettoloso:
… Dio permetteva, eccome, la tortura, forse anche lo esigeva. Per questo era considerato normale che a un ladro venisse tagliata una mano in piazza, e che un assassino venisse squartato in pubblico, che un eretico venisse bruciato vivo davanti a una folla di curiosi. Ma dopo Cristo [sic], dopo San Francesco [sic], dopo Voltaire e Beccaria, la tortura è passata in clandestinità…
Dacia Maraini
Ed ecco invece il “colto” sullo stesso tema:
… intorno al 1200 giuristi medievali introdussero con cautela lo strumento processuale della tortura ben consapevoli dei suoi limiti… quando nel XVIII secolo il suo impiego andò via via scemando non fu certo per i proclami di un Voltaire e di un Beccaria, e nemmeno per l’azione dei sovrani illuminati di allora… le motivazioni etico-politiche non giocarono pressoché nessun ruolo nella fase “abolizionista”, furono invece ragioni meramente giuridiche e di procedura a consentire l’accantonamento della tortura…
John H. Langbein
L’acculturato parla con intenzioni lodevoli cosicché si garantisce l’immunità da ogni critica, anche se è chiaro che non sa nemmeno di cosa stia parlando (difficile “estrarre” informazioni da un uomo squartandolo). Ma chi oserebbe mai usare toni aspri contro una persona tanto “buona” che oltretutto conosce perfino l’esistenza di tal Cesare Beccaria? Nessuno! Una persona così è un “bene pubblico” a prescindere dalle sue tante ignoranze specifiche. Una persona così merita necessariamente una rubrica sui grandi quotidiani. La merita anche se il resoconto dell’uomo colto sullo stesso tema è talmente diverso che probabilmente sarebbe più affine a quello dell’ignorante tout court – se esistesse ancora e se dovesse pronunciarsi (a casaccio) sull’argomento.
Dacia Maraini non sa cosa sia la tortura, e naturalmente non conosce nemmeno la sua storia. Ignora completamente in che relazione stia con gli istituti giuridici delle varie epoche, non conosce il dibattito storico tra i giureconsulti, non ha un’ idea adeguata del rapporto che intrattenne con il diritto romano e nemmeno sembra informata sulla dialettica tra i tribunali anglosassoni e quelli continentali. Ma queste non sembrano lacune atte a frenarne il giudizio o a renderlo più sfumato: probabilmente, trovandosi al mare in un giorno di pioggia, ha fatto visita a qualche Castello dell’entroterra dotato di sala delle torture e tutto cio’ ha sconvolto il suo animo sensibile ispirandola a scriverne. Poi, frequenta da sempre i “buoni” (Gesù, Francesco, Voltaire e, ciliegina, Beccaria) ha messo i buoni contro i cattivi torturatori facendo di questa contrapposizione il perno delle sue riflessioni.
John Langbein invece si è fatto un paiolo così. Per approfondirlo a dovere ha dovuto trascurare i problemi più interessanti del nostro tempo, quelli che dilettano tanto l’acculturato, che ne so… la questione femminile, il gender, il darwinismo, la politica, l’economia, la crisi, l’immigrazione, la sicurezza, l’islam, la guerra, la droga e bla bla bla. Per lui tortura, poi tortura e infine ancora tortura. Che palle… ma almeno sulla tortura è attendibile, e attendibile risulta il suo bellissimo libro: Torture and the Law of Proof: Europe and England in the Ancien Régime
Talmente bello che merita farne almeno un cenno che vada un po’ al di là della citazione di cui sopra.
Immaginatevi una proposta del genere:
… se confessi la tua colpevolezza la pena sarà mite, in caso contrario rischi pene molto più severe…
Ecco, questa “proposta” descrive abbastanza bene quello che nel sistema giudiziario si chiama “patteggiamento”.
Non si puo’ negare che in tutto cio’ ci sia un che di minaccioso Per esempio, nel campo che conosco meglio – quello fiscale – l’aspetto ricattatorio della conciliazione è evidente: chi rinuncia ad “accordarsi” con gli uffici diventa automaticamente il nemico pubblico numero uno, un tale che vuole sabotare il sistema “ingolfandolo”.
Questo lato oscuro del patteggiamento non è sorprendente per gli storici del diritto, basta risalire alla sua genealogia: il patteggiamento è l’erede della tortura.
Detto meglio, i paesi in cui è sempre esistito (essenzialmente il Regno Unito) hanno conosciuto solo marginalmente l’istituto della tortura. Chi invece lo ha introdotto solo recentemente (Europa continentale) ha una tradizione consolidata di tortura dell’inquisito.
Ma le sorprese non sono ancora finite.
La Tortura si è sviluppata nell’Italia del nord del tredicesimo secolo come portato diretto del diritto romano. La pratica si è poi estesa in tutto il continente raggiungendo il suo apogeo nel sedicesimo secolo dove fungeva da “rimedio universale”.
Per non fare confusione (vedi Maraini): la Tortura non è una punizione ma solo un mezzo per acquisire delle prove, e solo all’interno di questa fase processuale va esaminata.
Ma partiamo dall’inizio, ovvero dal medioevo. In principio fu l’ordalia, una procedura irrazionale ereditata dai popoli germanici. L’imputato veniva sottoposte a prove stravaganti come quella della scottatura al braccio: se l’arto non s’infettava cio’ era segno della sua innocenza.
Con l’ordalia il verdetto di colpevolezza veniva lasciato a Dio, ed era, quindi, un giudizio infallibile.
La mentalità giuridica che si formò in seguito a queste procedura fu quella di un garantismo assoluto: cio’ che più si temeva e si voleva scongiurare all’epoca era l’arbitrio del giudice. Se per noi è meglio che dieci colpevoli circolino piuttosto che un innocente paghi, allora si sentiva come dovere di garantire degli standard a tutela per l’imputato molto più elevati rispetto a quelli attuali.
Ma nel 1215 ecco il colpo di scena: il IV Concilio Laterano ritrattò i fondamenti dell’ordalia dichiarando che l’esito di queste pratiche non corrispondeva al volere divino, i preti non avrebbero più dovuto/potuto prendere parte a queste pratiche.
Fu un vero shock poiché la sentenza passò dal tribunale di Dio a quello degli uomini con tutte le incertezze del caso. Come puo’ un uomo giudicare un altro uomo? Potrebbe sbagliarsi compromettendo beni essenziali. Difficile accettarlo per la mentalità medioevale.
I giuristi ebbero il loro bel da farsi per mettere in piedi una procedura non dico con le garanzie della precedente, ma che per lo meno limitasse i danni della transizione. Si optò per una reintroduzione del diritto romano, il sistema con gli standard di innocenza più elevati.
Nel diritto romano, per delitti gravi, non si poteva condannare senza due testimoni oculari del fatto o senza la confessione del colpevole.
In altri termini: nel diritto medievale che rimpiazza l’ordalia non esiste processo indiziario che possa concludersi con una condanna. Concretamente: il colpevole puo’ anche essere visto allontanarsi dal luogo del delitto, puo’ anche essere sorpreso con l’arma o con il bottino ma, poiché questi sono solo indizi e non prove, non puo’ essere condannato.
Solo una procedura oggettiva che vedesse il giudice come un automa sarebbe stata all’altezza degli standard garantiti dall’ordalia. Il sistema “testimoni plurimi o confessione” assicurava tutto cio’. la colpevolezza del condannato sarebbe stata “più chiare della luce del giorno”, come si diceva allora.
Ma nei fatti, il nuovo codice di procedura rendeva impossibile perseguire i delitti perpetrati in segreto e non confessati. Le difficoltà di questo garantismo eccessivo iperbolico sono per noi evidenti: nessuna comunità puo’ sopravvivere a tanto.
Il sistema andava necessariamente ritoccato. Poiché non si poteva agire sulla prova testimoniale si agì su quella confessionale ammettendo la tortura.
I giureconsulti la introdussero con cautela e ben consapevole dei limiti di questo strumento. Le questioni poste al torturato dovevano essere chiare. Le risposte ottenute dovevano essere ripetute il giorno dopo senza tortura (anche se la minaccia di una nuova tortura era implicita). Erano bandite le domande suggestive o con risposte non verificabili. Infine, le informazioni ottenute andavano puntualmente verificate in modo oggettivo per essere acquisite agli atti.
Nonostante le cautele la procedura si prestò – come sappiamo - ad elusioni, abusi e forzature.
Nella seconda metà del settecento la tortura andò via via sparendo dagli ordinamenti.
Perché? Forse perché pensatori illuminati come Voltaire o Beccaria alzarono il loro autorevole lamento che colpì le ormai mature coscienze dei popoli? O perché sovrani ammirevoli come Federico il Grande o Giuseppe II ebbero il coraggio di rompere il ghiaccio anticipando i tempi?
No di certo. I limiti della tortura erano ben noti ai giuristi e ampiamente dibattuti sin dal medioevo. Non fu certo la retorica di un Voltaire o di un Beccaria a spostare le cose, furono invece le riforme che interessarono il processo penale nel corso del seicento, in particolare l’introduzione del processo indiziario e la possibilità di condannare sulla base del libero convincimento del giudice (anche in assenza di prove). L’allentamento delle garanzie per l’imputato rese superflua la confessione, e quindi anche la tortura. La confessione non era più necessaria per sentenziare una condanna.
Nel Regno Unito, da sempre i processi erano celebrati con le giurie che condannavano sulla base del loro convincimento anche in assenza di prove. Il fatto di non aver adottato le rigorose tutele del diritto romano consentì a quei popoli di scampare la tortura.
Anche le varie forme di patteggiamento con pene ridotte facilitava le confessioni non coercitive e quindi rendevano inutile la tortura. Più che un vero patteggiamento si trattava di pene discrezionali che il giudice poteva comminare a seconda delle circostanze e in base al comportamento dell’imputato nel processo. Ma per chi temeva sopra ogni cosa la discrezionalità del giudice (Europa continentale) una simile soluzione del genere era improponibile.
Sia il “libero convincimento” che il “patteggiamento” sbarcarono in tempi diversi sul continente sovvertendo il diritto romano e la sua “necessaria” ancella: la tortura.
Che curiosa la storia: ieri il processo indiziario e i processi indiziari erano considerate barbarie mentre la tortura era una dolorosa necessità della società civile. Oggi è vero il contrario.
Ora, vi sembra che le parole della Maraini possano rispecchiare l’andamento dei fatti? A me no. Ma non faccio una colpa alla Maraini. Se un Cazzullo, un Gramellini o un Severgnini avessero detto le stesse cose non mi sarei certo sorpreso. L’acculturato si è fatto massa ed è quindi intercambiabile. Noi stessi apparteniamo alla categoria E allora, chiudo per un consiglio per noi acculturati: ricordiamoci che per ogni argomento c’è almeno una persona che ha speso la sua vita intellettuale ad approfondirlo. Spesso è una persona disinteressata e amante della conoscenza, non conduce guerre culturali, non è schierata a prescindere… Ecco, meglio rivolgersi a lei anziché ai nostri simili.