giovedì 24 novembre 2011

Neonati e cliniche svizzere

Per il cattolico, ogni bambino che viene sulla terra è una benedizione dal cielo.

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E questo vale a prescindere dalle conseguenze. Capisco dunque coloro che esprimono questo sentimento tralasciando ogni analisi costi-benefici.

Capisco un po’ meno chi sull’ argomento rifiuta in toto l’ uso della ragione.

Si dà l’ impressione di buttarla su un sentimentalismo apprezzabile ma senza fondamento. L’ ateo ti guarda benevolente senza prenderti molto sul serio.

Fateci caso, se una persona consegna 100 euro a un’ altra persona, siamo tutti disposti ad ammettere che quest’ ultima migliori la propria condizione. Qualora, caso strano, non sia così, provvederà a disfarsi dell’ incomodo.

Non sto facendo un’ affermazione confessionale, è l’ assunto di base su cui si reggono le discipline economiche. Un economista neoclassico enfatizzerebbe il tutto dicendo che “è vero per definizione”.

Analogamente, se una persona riceve in dono la vita da un’ altra persona, noi dovremmo considerarla beneficiata.

Obiezione 1: ma prima quella persona non esisteva, era nel nulla, come possiamo fare un confronto e dire che ora sta meglio?

Risposta: quel che conta è che la persona, se lo vuole, puo’ tornare alla condizione precedente di non-esistenza (grazie al suicidio), esattamente come chi beneficia dei 100 euro.

Obiezione 2: suicidarsi è doloroso fisicamente e psicologicamente innaturale.

Risposta: una considerazione che indebolisce l’ argomento solo rispetto a chi non crede nella libertà dell’ uomo. Cio’ detto faccio presente che ormai non c’ è molta differenza tra l’ addormentarsi e morire in certe cliniche svizzere di mia conoscenza.

Obiezione 3: ma il suicidio ha delle esternalità, ci sono figli, genitori e amici a cui infliggeremo un danno.

Risposta: anche disfarsi dei doni ricevuti comporta delle esternalità. Piccoli doni, piccole esternalità; grandi doni, grandi esternalità. Per l’ analogia l’ importante è mantenere i rapporti invariati.

vril

Insomma, ogni bambino che viene sulla terra è una benedizione, la vita sembra avere un valore di per sè: lo afferma solitario il cattolico ma lo ribadisce la ragione di tutti.

E questo anche grazie alle cliniche svizzere che sono a un passo da noi.

p.s. approfondimento: http://econlog.econlib.org/archives/2010/08/the_economics_o_15.html

mercoledì 23 novembre 2011

Arte, esperienza, spirito e coscienza

SOMMARIO

L' arte ricicla un linguaggio abortito sulla via dell' evoluzione, un linguaggio in embrione, un linguaggio vago. La vaghezza linguistica serve a facilitare la ricerca e il legame comunitario. Per avere una ricerca infinita occorrono realtà spirituali, per avere un legame profondo occorrono delle coscienze. Poichè l' arte tocca le coscienze, l' oggetto artistico (descrizione) passa in secondo piano a favore del fenomeno artistico (esperienza). La bellezza è un' esperienza intima: ci dice chi siamo e ci lega al suo autore.

SVOLGIMENTO


Questo post ha un duplice obbiettivo:

1) abbozzare una “filosofia dell’ arte”, ovvero rispondere alla domanda “cos’ è l’ arte?”

2) abbozzare a una filosofia estetica, ovvero rispondere alla domanda “cos’ è la bellezza?”.

I pensatori contemporanei più influenti si limitano ormai solo alla prima domanda ma io penso che il duplice obbiettivo non possa essere scisso poiché quando si tenta di perseguire il primo isolatamente si arriva sempre a un punto in cui l’ arte viene definita come X + Y + Z + … + B. Dove B sta per bellezza, un concetto che richiama l’ estetica. Purtroppo, una formula senza B non è in grado di distingue l’ arte da altre operazioni ordinarie.

Per cominciare mi avvalgo del concetto di arte che hanno molti psicologi evoluzionisti: l’ arte è un linguaggio abortito. L’ arte è un prodotto di scarto del lungo lavorio di affinamento che ha portato alla formazione evolutiva del linguaggio.

L’ arte, dunque, più che un linguaggio è il rudere di un linguaggio, e le sue mille lacune emergono dalla vaghezza che contraddistingue questo significante.

Come linguaggio l’ arte non ha dignità, ma l’ uomo ha pensato bene di riciclare questo rudere per altri fini.

D’ altronde la vaghezza del linguaggio è presente anche nel linguaggio ordinario, e non sempre in forma di lacuna. Molti si sono chiesti perché un linguaggio avanzato non opti sempre per la precisione? La vaghezza ha due funzioni:

1) la prima è una funzione di ricerca: grazie alla vaghezza si crea una collaborazione fruttuosa nella ricerca della verità. Pensate solo a un robot in grado solo di dare interpretazioni precise di quanto ascolta. Se chiedessi a una tale macchina di prendermi le scarpe “marroni”, lei tradurrebbe secondo i suoi precisi protocolli il termine “marrone”, e una volta constatato che scarpe del genere non esistono nella scarpiera, procederebbe a tentoni senza indicazioni di sorta. Chi condivide invece con noi un linguaggio vago avrebbe comunque delle indicazioni sulle mie preferenze al fine di ovviare alla richiesta imprecisa in modo sensato. L' autore che più ha approfondito questo aspetto è Bart Lippman.

2) la seconda è una funzione sociale: il legame sociale richiede di coniugare autorità e reticenza. L’ ipocrisia è un collante sociale di prim’ ordine, anche per questo le “alte istituzioni” ne fanno largo uso. Sentiamo il discorso di fine anno del Presidente a reti unificati, sappiamo di essere di fronte a prosopopea ma ne usciamo motivati e incoraggiati. Le profezie non si autorealizzerebbero senza una lettura dei fatti distorta da lenti rosa. La vaga reticenza qui è centrale, se fossimo di fronte a mere “balle” il Presidente sarebbe liquidato come un mero mentitore e perderebbe tutta la sua autorevolezza. Per approfondire questo aspetto basta un semplice manuale di teoria dei giochi.

L’ arte è dunque essenzialmente “arte del discorso vago”. In essa si esaltano le due funzioni viste sopra.

Vediamo come questa prima considerazione ci aiuta a fissare alcuni punti topici intorno ai quali ferve la discussione dei filosofi dell’ arte contemporanei.

1) L’ “intentional fallacy” (l' autore non ha un ruolo centrale nell' interpretazione dell' opera) va riabilitata: il segnale vago trova il suo compimento lontano da chi lo produce e in modo indipendente da chi lo produce. IF indica l’ irrilevanza delle opinioni dell’ autore circa l’ opera.

2) L' approccio “gestalt” va riabilitato contro isomorfismo e simbolismo perché evidenzia bene l' ambiguità di fondo dell' opera d' arte come oggetto in cui percepiamo due cose diverse contemporaneamente, come se fossero una nell' altra. Ascoltando una frase musicale noi percepiamo distintamente un movimento laddove non esiste nessun movimento nei suoni prodotti. Evidentemente il movimento è "nei" suoni ed intuito dalla nostra interiorità.

4) Il relativismo estetico va scartato: se l’ arte viene definita X+Y+B dove B è la bellezza, allora bisognerà avere un criterio di bellezza e rinunciare così al relativismo. D' altronde è stata dimostrata la compatibilità tra teoria anti realista e assolutismo estetico.

6) Realismo o anti-realismo? Trovo più convincente la seconda opzione. Premessa: entrambe le posizioni si sposano con l' oggettivismo. E' anche vero che oggettivismo e realismo è l' accoppiata vincente: se un' opera mi appare bella, allora la sua bellezza è qualcosa di reale che posso descrivere. Molti pongono l' estetica in parallelo con l' etica facendo notare il realismo di quest' ultima: se un' azione mi pare buona, allora la sua bontà è qualcosa di reale che possono descrivere. In realtà, però, il buon senso sembra spingerci verso un' asimmetria tra etica ed estetica. L' etica si occupa dei valori umani mentre l' estetica delle emozioni umane. Ma anche la psicologia si occupa delle emozioni umane descrivendole puntualmente (realismo), eppure non potrebbero esistere due discipline che si occupano dello stesso oggetto. L' arte deve quindi differenziarsi da approcci concorrenti, esigenza che l' etica non ha. Lo fa allora rinunciando alla "descrizione" in favore dell' "espressione". L' arte non descrive emozioni ma le esprime. L' espressione ci parla di cio' che sfugge alla psicologia e a qualsiasi approccio descrittivo. L' espressione fa appello a un' esperienza interiore di emozioni da condividere: il sentimento della bellezza emerge quindi dentro di noi (anti-realismo) in una condivisione sincera. Essendo un' esperienza cessa di essere un attributo reale dell' opera d' arte. Senza una "destinazione" umana, il bello non esisterebbe.

5) La ragione ha una sua parte nel giudizio valutativo: dove c’ è oggettività, c’ è ragione.



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Veniamo ora a trattare più da vicino la parte più delicata,  ovvero il tema della bellezza.

6) Il lavoro artistico non puo’ prescindere da delle abilità specifiche. Anche Duchamp, in fondo, aveva un’ abilità sua propria: fare le cose giuste al posto giusto e al momento giusto. Forse questo non lo rendeva un pittore ma lo rendeva un artista, malgré soi.

7) L’ abilità dell’ artista è “caratteristica” e si chiama stile. Lo stile 1) consente di produrre un linguaggio vago poiché indica in modo trasversale e 2) consente di produrre un linguaggio personale. Il virtuosismo è abilità senza stile. La bellezza richiede una "personalizzazione",  ha dunque una relazione con il singolo. La comunicazione ha bisogno di individui per realizzarsi. L’ arte relaziona le coscienze (autore/fruitore), quindi agisce su singole realtà spirituali (vedi sotto).

8) Poiché le abilità stilistiche sono extraconcettuali, l’ artista non potrà mai essere considerato filosofo.

10) L' arte è rappresentazione o espressione? Poiché l' arte ha un significato viene facile considerarla una rappresentazione, tuttavia il suo significato, diversamente dalle altre rappresentazioni, è difficilmente traducibile e cio' instilla molti dubbi. Per contro, Croce considerava l' opera come espressione intuitiva dell' autore; in effetti l' elemento umano sembra imprescindibile per avere un' opera d' arte, tuttavia 1) l' intentionally fallacy non sarebbe tanto manifesta se davvero le cose stessero in questi termini e 2) dire che il significato dell' opera è racchiuso nell' intuizione dell' autore nulla ci dice del significato stesso. Bisogna mediare tra queste due posizioni: l' opera ha dei suoi significati e la natura espressiva dell' opera stessa è fondamentale per definirli in modo non arbitrario, tuttavia è fondamentale che il fruitore interiorizzi i contenuti espressi nell' opera legandoli ad esperienze personali, solo in questo modo "comprende" l' arte con cui entra in contatto.

11) C' è chi dice che nel caso dell' arte il verbo "esprimere" dovrebbe essere usato in modo intransitivo. Ma una simile prudenza è eccessiva, basta precisare che la specificazione di cio' che viene espresso avviene nell' interiorità di ciascun fruitore. Se l' autore esprime un dolore, puo' essere compreso solo connettendo la sua opera a cio' di indicibile di cui abbiamo fatto esperienza in circostanze dolorose, ma una simile connessione non si realizzerebbe mai se l' espressione fosse solo intransitiva.

11) Il problema del significato dell' opera non è posto dalla domanda "qual è il significato di questa musica?" ma piuttosto dalla domanda "ha senso collegare questa musica a questa mia esperienza umana?".

12) Il formalismo à la Hanslick sembra insufficiente a dar conto della bellezza musicale: proibisce con vigore l' uso di metafore ma poi le adotta lui stesso anche se appena meno specifiche. Perché, per esempio, vietare la metafora cardiaca ma consentire la metafora della pulsione quando la musica che si esamina non è né un cuore né una presenza pulsante. Forse che la metafora "gestalt" cessa di essere metaforica? Altri formalisti in passato sono caduti nella medesima contraddizione, evidentemente c' è qualcosa che non và nel formalismo: alle metafore che legano arte e vita non si puo' e non si deve rinunciare poiché la musica assume senso proprio avvicinando l' esperienza dell' ascolto alle esperienze vitali.

13) Per comprendere l' arte occorre comprendere le logiche del linguaggio metaforico. Il linguaggio metaforico non ha lo scopo di descrivere ma quello di connettere le cose coinvolgendo l' umanità di chi parla e di chi ascolta.

9) Bisogna intendersi meglio sull' oggetto di cui ci occupiamo (suono, immagine...). Esiste una distinzione importante tra oggetti e fenomeni. L' oggetto ha una sua fisicità e le sue proprietà possono essere ben rese attraverso descrizioni fisiche. Il fenomeno è inestricabilmente legato alla coscienza umana e non puo' essere penetrato in assenza di essa. Per esempio, il suono è da molti ritenuto un fenomeno poiché il sordo non puo' comprenderlo appieno, non puo' capire di cosa si parla quando si parla di suono, per quanto comprenda perfettamente il resoconto oggettivo che lo descrive in termini di vibrazioni frequenziali di un oggetto. Ebbene, questa interpretazione del suono mi sembra la più appropriata.

9) Contro la visione materialista, il suono/evento è dunque sganciato dalla fonte che lo produce. Cio' si ripercuote sull' epistemologia dell' opera d' arte. In questo senso viene accantonata l' impostazione "produttivista": per la comprensione dell' arte non è strettamente necessario comprendere appieno le modalità di realizzazione della stessa. In altri termini: l' esecutore (musicista, pittore, cineasta, scrittore...) non possiede particolari privilegi per comprendere l' opera (sinfonia, romanzo, tela...) che esegue. Insomma: in teoria potrebbe esistere un computer che compone musica di alto livello attraverso un software (e oggi roba del genere comincia a spuntare) ma non potrà mai esistere un computer che ascolta e comprende la musica, questo deve dirci qualcosa su cosa debba intendersi per "comprendere" l' arte.

14) Capire la musica significa assegnarle un significato non arbitrario che la connetta con qualcosa di rilevante appartenente alla nostra esperienza emotiva più profonda. Questa stessa connessione è essa stessa un' esperienza. La bellezza non è una proprietà dell' oggetto ma emerge da un' esperienza che il contatto con quell' oggetto ci facilità.

15) Il riferimento dell' arte risiede nel mondo emotivo dell' uomo e il fine ultimo dell’ arte è spirituale: la vaghezza innesca una ricerca di significati ma questa ricerca deve essere infinita e non arbitraria affinché i termini da cui parte possano essere definiti autenticamente vaghi. In caso contrario saremmo di fronte a termini complessi ma precisi. Le uniche realtà che richiedono una ricerca infinita sono le realtà spirituali.

16) Dal combinato disposto dei punti precedenti emerge che l’ arte si riferisce a realtà astratte: lo spirito è reale e non materiale. Ogni forma di nominalismo va abbandonata.

17) La contaminazione produce ambiguità e favorisce l' emergere della bellezza. Le arti di genere sono arti secondarie che antepongono i codici alla vaghezza. In merito nota la distinzione tra arte di genere e arte d'autore; la seconda è definita in negativo, come qualcosa che si nobilita sfuggendo all' etichetta e rifugiandosi nel mero stile.

18) L' originalità, essendo così legata allo stile e quindi ad una persona e ad una coscienza, è strettamente legata anche al bello.

19) La bellezza non emerge da proprietà dell' oggetto ma è piuttosto  un’ esperienza. Noi facciamo esperienza del bello. Questa esperienza consiste in una ricerca infinita di significato interiore, una ricerca che il fruitore compie in collaborazione e sotto la guida dell’ autore. L’ arte che riesce ad innescare e a rendere particolarmente ricca questa esperienza, ovvero questa ricerca infinita di significato, puo' dirsi riuscita, ovvero “bella”. Per semplificare potremmo chiamare "bello" l' oggetto che favorisce l' inizio di un' esperienza del genere.

20) Possiamo tentare una sintesi. Cos' è il bello? Il bello è un' esperienza in cui 1) ricerchiamo senso trovandolo ma senza mai esaurirlo 2) ci poniamo in comunione con la coscienza dell' autore nel corso della ricerca.

21) Perché la scienza - che è ricerca - non puo' dirsi arte?: Perché utilizza un linguaggio preciso, analitico quindi la sua ricerca in qualche modo "finisce", il suo senso viene assegnato e tutto termina, per questo non puo' applicarsi alle realtà spirituali. Una teoria scientifica è "finita". Poi magari è sbagliata e va corretta, ma è formulata per esaurire il proprio senso e venir verificata. Non ha senso recuperare vecchie teorie, il sapere scientifico è cumulativo. Inoltre, la ricerca scientifica non contempla lo stile evitando di caratterizzare l' individuo e la sua coscienza identitaria, ma cio' preclude quella comunione di coscienze tipica dell' arte. Il brividino estetico che puo' dare una teoria deriva dal fatto che anch' essa veicola una comprensione meravigliosa in cui il piccolo (formula) sintetizza mirabilmente il grande (universo), esattamente come fa il gesto artistico.

22) Perché il discorso del politico o del retore - che pure è vago - non è mai arte? 1) perché non implica ricerca autentica (la sua funzione consiste nel far credere che gli altri credano) e 2) in assenza di stile non implica comunione di coscienze.

23) Perchè uno spettacolo naturale - pur rinviando a significati vaghi - non è arte? Perché la natura non ha uno stile e quindi non realizza una comunione di coscienze (autore/fruitore). Naturalmente uno spirito religioso puo' pensare, per esempio, a Dio come autore e all' armonia come stile, ecco perché è tanto facile realizzare delle esperienze estetiche ammirando dei panorami naturali.

24) Perché in passato l' originalità - oggi imprescindibile - non era una virtù artistica? Il concetto di artista è recente (ottocento?). Prima si prendeva a modello il bello naturale, ovvero senza autore, senza coscienza. La religiosità più diffusa consentiva di vedere Dio come autore e la comunione si realizzava con nostro Signore, il vero autore dietro l' opera era considerato un artigiano illusionista.

25) Secondo i sostenitori della cosiddetta "art pour l' art", i criteri di valutazione dell' opera sono autonomi. Se quanto abbiamo deto fin qui è vero, esiste invece un collegamento tra opera e interiorità della coscienza, il che rende probabile un legame tra valori estetici e valori morali: l' opera agisce in modo potente sulla vita interiore del fruitore. Il moralismo più stantio è innanzitutto un errore estetico!

26) Tentiamo una sintesi. Come si diceva all' inizio la vaghezza linguistica ha anche una doppia funzione positiva 1) sviluppare conoscenza comune (gli esempi non mancano) e 2) far cooperare più soggetti alla ricerca di verità. La musica è un linguaggio vago che 1) ci unisce e 2) ci dice chi siamo realmente. Comunità e Verità. Per avere ricerca infinita è necessario che ci si applichi sulle realtà spirituali, per avere comunione è necessario avere delle coscienze. Ma come possono essere legati verità e unità? Attraverso la comunione per simpatia tra autore e ascoltatore.

Un esempio banale per farsi un' idea: se due soggetti guardano un oggetto blu diranno di vedere entrambi un oggetto blu, ma come possono essere sicuri di intendere per "blu" la stessa cosa? In altri termini, come possono essere sicuri di provare la stessa sensazione di fronte ad un oggetto blu? Non esiste questa garanzia, puo' darsi che di fronte a quell' oggetto il primo soggetto provi le stesse sensazioni che il secondo soggetto prova rispetto ad un oggetto giallo. L' equivoco di fondo è sempre possibile poiché le convenzioni linguistiche sono impotenti nell' affrontarlo, non esistono parole precise per esprimere l' esperienza del guardare un oggetto blu, e se questo vale per i colori, gusti e suoni, vale ancora di più per le emozioni e i valori. La nostra conoscenza più importante è di tipo "solipsistico" e l' arte - con la ricerca e l' unità che realizza - vince il solipsismo. L' intuizione è al centro di tutto e la musica lavora proprio sull' intuizione interiore di chi è chiamato a comprenderla.

La musica (e l' arte in generale) cerca in ultima analisi di colmare il nostro solipsismo, di diminuire le probabilità di equivoco con l' altro. L' arte crea una simpatia tra noi e l' autore riducendo gli equivoci a cui è sempre esposto il resoconto dell' esperienza interiore. Comunità e verità, quindi.

27) Molti critici delle arti contemporanee fanno notare come questo mondo manchi di capolavori. C' è qualcosa di vero in questo rilievo ma occorre aggiungere che, forse, oggi i capolavori non vengono nemmeno cercati, si ritiene pressoché impossibile crearne. Faccio un' analogia forse azzardata: anche la scienza manca di "grandi scoperte" ma è forse per questo meno apprezzabile rispetto alla scienza dei tempi di Newton o Einstein? No, più verosimilmente oggi viviamo in un mondo estremamente complesso, la scienza stessa è talmente complessa da essere quasi incomprensibile anche agli addetti ai lavori, ognuno si specializza nella sua nicchia e non è in grado di dominare l' intero panorama delle conoscenze, nemmeno di quelle inerenti alla sua materia. In queste condizioni difficilmente emergerà una figura in grado di regalarci scoperte sconvolgenti, l' impresa scientifica oggi non puo' che essere cooperativa. Forse accade lo stesso per l' arte, il panorama è inevitabilmente saturato da una pratica e una riflessione enorme esplosa negli ultimi due secoli. Ogni artista si specializza in modo cervellotico. Il Mozart c' era tutto: dramma, gioco, grottesco, satirico. Oggi possiamo ancora trovare di tutto e ad alto livello, ma dobbiamo spostarci da un autore all' altro, viaggiare tra i generi. Ecco: lo spettatore deve essere disposto a muoversi lui stesso per costruirsi da sé il suo "capolavoro". Il capolavoro, forse, non puo' che essere cooperativo e, forse, anche involontario. O meglio, è il fruitore che deve metterlo insieme raccogliendo un po' qua e un po' là formandolo come fosse una sua personale playlist.

AGGIUNTE POSTUME

ADD1. Ancora sul giudizio estetico. Per quanto si riconosca l' esistenza di valori estetici oggettivi, è praticamente impossibile ordinare per valore le opere, le comparazioni sono spesso assurde: valgono più 10 songs di Gerschwin o una sinfonia di Prokofiev? Vale di più l' Amleto o il Re Lear? Bisogna allora trovare altri metri: forse è più significativo valutare la produttività artistica di alcuni periodi storici. Ma con quale criterio? La qualità media dello opere non sembra un criterio adeguato, meglio concentrarsi sui picchi. Ma anche i picchi isolati possono trarre in inganno. Propongo due criteri: 1) considerare la qualità estesa (es. primi 100 picchi) e 2) considerare la varietà (i picchi nei vari generi).

ADD2. C' è sempre il problema della qualità e dei generi bassi. Ma se la bellezza è un' esperienza prima ancora che un requisito, possiamo tracciare un parallelo con la fede. Ora, possiamo avere la fede del raffinato teologo come possiamo avere la fede dell' ignorante pastorella (magari di Lourdes). Chi dei due sperimenta una fede più degna? Difficile dirlo, di sicuro la sperimentano sfruttando tramiti differenti: il primo sfrutta i ponderosi libri di teologia per accendere la sua fiammella, la seconda sfrutta l' accorata preghiera della devozione popolare. Esiste una sorta di qualità sia nel primo mezzo che nel secondo, una qualità che porta ad una fede degna sia nel primo caso che nel secondo. Così pure nella musica la bellezza puo' essere sperimentata sia apprezzando una grandiosa sinfonia che immergendosi in una canzone popolare costruita con tutti i crismi dell' autenticità.

***


APPENDICE

Avevo iniziato a scrivere questo post ma poi mi sono stufato e l' ho piantato a metà. Forse la materia si è allargata un po' troppo e francamente ora non ho voglia di fare quello sforzo intellettuale necessario per riannnodare i fili. Pazienza, forse domani... per ora posto ugualmente i lavori in corso.

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Sono convinto che un’ autentica esperienza musicale sia qualcosa di raccomandabile: oltre ad arrecare piacere, contribuisce all’ edificazione spirituale della persona e al rafforzamento delle sue convinzioni più profonde. 

Anche per questo sarebbe auspicabile che un giovane sia messo nelle condizioni più propizie per dedicarsi a 

Tuttavia, sono anche convinto di esprimere un’ idea eccentrica, l' introduzione alla musica si compie quasi sempre su altre basi. 

Mi spiego meglio.

Introdurre alla musica significa essenzialmente accompagnare per mano il neofita nel mondo dei suoni, senonché esistono concezioni molto diverse di cosa sia un suono.

Una semplice domanda spesso utilizzata da chi approfondisce queste faccende è già in grado di discriminare tra impostazioni radicalmente diverse: si puo’ introdurre una persona sorda nel mondo dei suoni?

Il buon senso ci dice di no ma secondo alcuni parrebbe invece di sì.

La risposta, evidentemente, dipende dalla concezione che si ha del suono e da questa concezione dipendono poi molte altre cose. 

Chi risponde affermativamente ritiene che per capire cosa sia un suono basta descrivere come viene prodotto. 

A questo punto si cominciano a menzionare oggetti vibranti, onde,  frequenze, meccanismi di trasmissione nell’ etere, orecchi con relativa dotazione di timpani, membrane e quant' altro. 

Per chi predilige questa impostazione il suono è semplicemente la proprietà che hanno alcuni oggetti di produrlo allorché opportunamente trattati.

Le azioni necessarie per produrre un suono possono essere puntigliosamente descritte e anche una persona sorda (ma intelligente) puo’ comprenderle abbastanza bene. Tutto puo’ essere anche visualizzato ed esemplificato, e questo senz’ altro aiuta. Insomma, col sordo si puo' fare di tutto tranne che ascoltare, cosicché divnta difficile dire se una persona del genere possa mai essere realmente "introdotto nel mondo dei suoni". In effetti a questa trafila sembrerebbe mancare qualcosa di fondamentale.

Eppure, considerare il suono come una semplice proprietà degli "oggetti risonanti” sembra entusiasmare molti. Perché?

Fateci caso. Cosa domina in questa visione? 

Oggetti, aria, membrane… La materialità sembra farla da padrona nel resoconto "produttivista", e forse proprio questo piace tanto all’ uomo moderno che si sente come rassicurato e à la page dalla precisione e dalla concretezza "scientifica", per quanto arida possa essere.

L' evoluzionista, per esempio, guarda volentieri ai suoni in questa ottica: l’ uomo primitivo era abile nel risalire dai suoni alle fonti, per lui l' identificazione delle fonti era fondamentale, una questione di vita e di morte: le foglie del bosco schiacciate in una certa maniera producevano un suono che indicava l’ avvicinarsi dell’ orso da fuggire. Questa enfasi sui meccanismi di produzione sonora rende il suono in se stesso un epifenomeno trascurabile, quel che conta è la "fonte" e la sua identificazione.

Peccato che una descrizione del suono in questi termini, oltre che arida, sia anche lacunosa e insoddisfacente nel momento in cui pretende, contro il senso comune, che anche il bambino sordo possa comprendere appieno la musica.

Ma allora qual è l’ alternativa?

Per capirlo bisogna pensare meglio dove l' impostazione "produttivista" forza la mano. 

In poche parole, essa identifica indebitamente il suono con le fonti sonore, il prodotto finito con il processo di produzione. Una volta descritti i processi per produrlo, si pensa di aver dato conto del suono, di aver fornito gli elemeti necessari per comprenderlo. Per questo motivo ho voluto chiamare questa visione "approccio produttivista".

Ma il suono, forse, è qualcosa di diverso, qualcosa di concepibile come a se stante, sebbene, nessuno lo nega, per esistere sia necessario che venga prodotto in qualche modo.

Questa confusione genera il paradosso del bambino sordo perfettamente consapevole della musica che non ascolta.

Fateci caso, in teoria anche un sordo sarebbe in grado di suonare uno strumento, persino di comporre una musica valida. Ma se è solo per questo anche un computer potrebbe in teoria suonare e comporre (cominciano in effetti a comparire prototipi in grado di superare il test di Turing relativo). D'altro canto, un computer non puo' ascoltare musica, proprio come il sordo. E' per questo motivo che chi non aderisce all' ideologia produttivista ritiene estremamente problematico introdurre alla musica sia il computer (per quanto intelligente) che il sordo (per quanto intelligente). 

Ma proviamo allora ad evitare le forzature commesse dall' impostazione produttivista, proviamo ad essere più rigorosi, vediamo dove il rigore ci conduce e forse scopriremo anche perché si è tanto riluttanti a seguirlo.

L' alternativa migliore consiste nel considerare il suono un fenomeno (puro evento), ovvero qualcosa che noi possiamo anche descrivere parlando delle cause che lo hanno generato ma per comprenderlo appieno doppiamo necessariamente sperimentarlo.

Quando siete a tavola, provate a spiegare cosa si prova degustando il "dolce" ad una persona molto arguta che però non puo' sentire i sapori.

Il bambino sordo non puo’ comprendere i suoni perché puo’ comprenderne solo la descrizione. Ma se è vero che i suoni sono innanzitutto dei fenomeni, la loro comprensione implica sperimentazione diretta, attività preclusa al bambino sordo.

Ho quindi distinto il suono/oggetto dal suono/fenomeno, poiché solo quest’ ultima formula è rigorosa.

Non si puo’ dar conto di un fenomeno senza ricomprendere nel resoconto il soggetto che lo percepisce.

Non si puo’ dire cosa sia un suono senza far rientrare nel resoconto l’ orecchio che lo percepisce.

Nell' impostazione alternativa, quindi, l' orecchio in ascolto è più importante sia della mano che batte, pizzica o pigia, sia della bocca che soffia.

In realtà parlare di “orecchio” non basta. Se lo scenario fosse popolato solo di orecchi, mani e bocche avremmo in scena una serie di oggetti che interagiscono tra loro, e saremmo punto e a capo.

Per uscire dal circolo vizioso occorre che all’ altro capo della relazione ci sia una mente in grado di fare esperienze.

Si tratta di esperienze necessariamente solipsiste, ovvero non comunicabili, anche se possiamo supporre che l' esperienza di coloro a cui ragionevolmente attribuiamo una mente simile alla nostra, somigli in qualche modo alla nostra.

Ma forse parlare di mente è ancora poco, molti potrebbero avere una concezione fisicalista della mente, potrebbero pensare che i processi mentali siano descrivibili, io direi allora che occorre una coscienza. E per chi ritiene che anche la coscienza dell' uomo sia riducibile a descrizioni fedeli, è allora necessario parlare di spirito: per introdurre alla musica l' elemento centrale è lo spirito dell' ascoltatore.

Al cosiddetto "approccio produttivista" si contrappone quindi il cosiddetto "approccio spiritualista".

Riepilogo: noi capiamo cosa sia un suono, non attraverso una descrizione rigorosa dello stesso, ma mettendo al centro chi è in grado di capirlo. Solo mettendo al centro CHI capisce la COSA riusciamo a capirla noi stessi. 

In altri termini, il suono è quel fenomeno prodotto da certe reazioni ben descritte dalla scienza acustica che puo’ essere compreso fino in fondo solo da una persona che ne fa un' esperienza diretta e solipsista, ovvero non comunicabile.

E allora diventa chiaro che perché il mondo dei suoni ha un senso necessariamente amputato per i bambini sordi che non potranno mai farne un' esperienza solipsista, pur potendo accedere a tutte le descrizioni più accurate in merito.

Ora diventa chiaro anche perché la via dettata dal senso comune, la via più rigorosa, chiara e priva di paradossi sia minoritaria: perché implica concetti quali quello di “introspezione”, "coscienza", “spirito” che sono come fumo negli occhi per molti uomini del nostro tempo in grado di tollerare a malapena il concetto di "orecchio".  

D’ altro canto, spero, comincia a diventare meno improbabile la mia affermazione iniziale: “… un’ autentica esperienza musicale… contribuisce all’ edificazione spirituale dell’ uomo…”.

Se i suoni, e quindi la musica, sono così intimamente connessi con la mente umana, e quindi con lo spirito dell’ ascoltatore, diventa più plausibile che agendo opportunamente sui suoni si possa agire in modo edificante e consolante anche sullo spirito di chi ascolta.

***
Dopo aver chiarito come intendere il "suono" possiamo ora dedicarci alla musica e al suo significato.

Così come il suono è cio' che sente chi ascolta un suono, il significato della musica è cio' che comprende chi capisce una musica. Ma cosa significa capire la musica?

La musica ordina i suoni come il linguaggio naturale ordina le parole e i concetti ma l' analogia non puo' protrarsi molto oltre. 

Una persona dimostra di comprendere una parola del linguaggio naturale utilizzandola correttamente ma per la musica vale qualcosa del genere?

Il "produttivista" risponde affermativamente ma lo "spiritualista" è molto più prudente: suonare correttamente un brano musicale - cosa alla portata di sordi e computer, tanto per dire - non è garanzia di comprensione dello stesso così come, d' altro canto, una musica puo' essere compresa da chi l' ascolta senza essere in grado di riprodurla. Anzi, questo è il caso più comune.

Chi parla in modo goffo, meccanico e autistico puo' tuttavia comprendere benissimo il significato di cio' che dice mentre chi esegue volontariamente l' Adagio di Barber in modo goffo, meccanico e autistico, pur potendo fare altrimenti, non ha capito niente della musica che interpreta.

C' è chi pensa allora che comprendere la musica sia piuttosto assimilabile alla comprensione della mimica facciale dei nostri interlocutori. Non c' è dubbio infatti che è soprattutto attraverso questo espediente che noi diamo una coloritura espressiva alle frasi che pronunciamo. 

In questo caso il parallelo regge senz' altro meglio. In effetti, per comprendere la mimica facciale del nostro interlocutore non è importante saperla riprodurre autonomamente. Perché mai un abile ritrattisti dovrebbe essere particolarmente abile nel dominare la sua mimica facciale?

Tuttavia anche questo parallelo rischia di essere incompleto, tanto è vero che non si vede perché un "produttivista" non possa farlo suo. Cosa impedisce, infatti, che attraverso una descrizione accurata della mimica facciale si possa poi redigere un dizionario analitico delle emozioni? Molta psicologia si dedica proprio a questo compito, e con successo! Ma se la sua descrizione analitica esaurisce la comprensione dell' emozione, allora siamo in pieno approccio "produttivista". 

Noi comprendiamo la mimica facciale del nostro interlocutore solo se riusciamo a metterci nei suoi panni, solo se in noi esiste un' esperienza in qualche modo simile a quella che lui intende comunicarci. Per comprendere la sua mimica facciale dobbiamo necessariamente fare appello alla nostra vita interiore, in particolare isolando in modo non arbitrario quelle esperienze vissute in cui abbiamo potuto vivere a fondo delle emozioni quanto più simili a quelle che ora lui tenta di esprimere. Solo in questo caso c' è autentica comprensione della mimica facciale.

E per la musica è un po' lo stesso, in essa l' artista rappresenta alcune emozioni ed esiste un solo modo per comprenderle:  fare appello alla nostra vita interiore isolando in modo non arbitrario l' esperienza personale che ci ha regalato emozioni in qualche modo assimilabili. E' solo con un riferimento all' esperienza personale, quindi, che si comprende la musica; attenzione però, non dico che l' esperienza concreta debba apparire in modo chiaro alla nostra immaginazione di ascoltatori, la musica non deve necessariamente rinviare a fatti concreti della nostra vita, il centro di tutto è l' emozione e solo quella, ma noi, per quanto detto prima, sappiamo che non possiamo conoscere cosa sia quell' emozione se non l' abbiamo esperita direttamente e in modo solipsistico.

Ora dovrebbe essere ancora più chiaro quanto sostenevo all' inizio: “… un’ autentica esperienza musicale… contribuisce all’ edificazione spirituale dell’ uomo…”: se la musica rinvia alle emozioni personalmente vissute, è chiaro che una grande musica evocherà in modo appropriato i frutti interiori più preziosi della vita vissuta riproponendoli in modo vivido alla nostra meditazione. La bellezza stessa non è tanto un attributo dell' opera quanto qualcosa che emerge da questa esperienza interiore che l' opera suscita. Ma queste sono anche le condizioni ideali per edificare il proprio Spirito e rafforzare le proprie convinzioni morali più autentiche.

***
Il "produttivista" si oppone risoluto a conclusioni simili e cerca vie alternative. Quella "formalista", per esempio, gli sembra di gran lunga preferibile. Vediamo di che si tratta.

Per il formalista anche solo l' espressione "comprendere la musica" è quantomeno problematica. La musica ha davvero un senso da comprendere?

Probabilmente no, pensa il formalista. Non siamo affatto autorizzati a trattarla come la metafora di qualcosa, e soprattutto non dobbiamo coinvolgere la vita interiore di chi ha a che fare con i suoni: quando l' interiorità ha il sopravvento tutto si fa oscuro e incomprensibile.

La musica non puo' essere una metafora di qualcos' altro poiché si riferisce solo a se stessa.

Ma cosa significa un' affermazione del genere? Cosa significa affermare che la musica si riferisce solo a se stessa? Cosa significa affermare in modo perentorio l' autonomia della musica?

Eduard Hanslick, il padre nobile del formalismo, sosteneva che la musica è mera forma resa attraverso i suoni. L' architettura musicale e le varie dinamiche strumentali sono le uniche cose che siamo autorizzati a comprendere quando ascoltiamo della musica. 

Coerente con questa impostazione EH ci parla delle musiche utilizzando proprio la metafora architettonica e dinamica. Ma qui cade in contraddizione poiché egli stesso fa un uso insistito di metafore, ovvero di uno strumento appena condannato. Anche per descrivere una mera forma musicale, infatti, si fa uso di metafore! Dire che la musica  sale, scende o accelera, è solo una metafora, in realtà i suoni non fanno niente di tutto cio'.

Il formalista ci chiede di attenerci strettamente al dettato musicale, alla materia dello spartito senza rendersi conto che anche il gergo musicale più stretto è solo una comprensione metaforica di quanto accade. Se proprio vogliamo ridurre la mediazione metaforica non è tanto al musicista che dovremmo rivolgerci quanto al fisico, ma questo è palesemente assurdo.

Nemmeno il formalista, quindi, riesce a fare a meno delle metafore quando comprende la musica. Ma se il formalismo è un utopia, se la metafora è necessariamente sdoganata, tanto vale evitare quelle più sterili, ricorriamo piuttosto a quelle più pregnanti e più in grado di descrivere con pertinenza cio' che vive l' ascoltatore cosciente, anche a costo di rischiare di più in termini di arbitrio.

I formalisti moderni si sono accorti delle contraddizioni dei padri nobili e hanno dovuto giocoforza radicalizzare il loro approccio per poter tenerlo in piedi. 

Per loro, oggi, fare musica equivale a giocare. Del resto in inglese "suonare" e "giocare2 sono la stessa cosa.

Per i formalisti ludici la musica non ci comunica nulla di significativo, la musica è completamente svuotata da ogni metafora, è solo una mera "sintassi sonora" dotata di regole con cui gioca chi ascolta e chi suona. 

Ti annoi? Puoi riempire un cruciverba. Ti annoi ancora? Puoi compilare un sudoko. Il tedio ti assale? Puoi risolvere un rebus... Oppure, in alternativa, puoi pur sempre ascoltare/suonare della musica. In fondo si tratta di attività succedanee le une alle altre, tutte a disposizione del nostro piacere.

Allo "spiritualista" questa visione sembra davvero miserella. 

Come dicevamo, lo "spiritualista" ritiene che la musica possa essere anche compresa. Che la comprensione sia una facoltà autonoma e indipendente. Contro il "produttivista2 ritiene che sia una facoltà scollegata dall' abilità nel riprodurre correttamente i suoni. Contro il formalista ludico ritiene che sia una facoltà scollegata dalla capacità di trarre un mero piacere dai suoni a cui si è esposti.

La visione del formalista ludico però è particolarmente insidiosa poiché il gioco è la specialità dei bambini e l' introduzione alla musica riguarda per lo più proprio loro.

La visione del formalista ludico attrae il formatore poiché grazie al mero gioco riesce ad interagire più facilmente con il discente. 

In un certo senso giocare con la musica costituisce una tappa obbligata per chiunque voglia iniziare il bambino al mondo dei suoni. Il fatto preoccupante è che per la maggioranza dei formatori non esistono tappe ulteriori. 

Per i formatori "ludico/produttivisti" l' evoluzione del discente è molto semplice: costui passa dall' essere un giocatore approssimativo all' essere un giocatore particolarmente abile. Fine. 


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Appunto: parlando di formazione riprendi le 5 fasi del gioco abbinando a ciascuna un aspetto su cui insistere per una corretta formazione all' ascolto musicale...

giochi di ripetizione
giochi di ruolo
giochi di regole
giochi di scoperta (di regole)
giochi di metafora (sulle regole scoperte)
...



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John Sloboda – La mente musicale

Se la musica fosse un linguaggio, allora, per penetrare il suo mistero, si potrebbero far valere gli strumenti della psicologia cognitiva. Sono strumenti potenti, messi a punto sperimentando cio’ che le persone fanno con la musica, e non quello che dicono di fare. L’ intenzione è quella di comprendere cosa succede nella nostra testa mentre l’ ascoltiamo dicendo “che bello!”.

Ci sono buoni motivi per ritenere che la musica possa essere trattata alla stregua di un linguaggio verbale: come il linguaggio è universale, non esiste cultura che ne faccia a meno; come il linguaggio naturale anche la musica si apprende; come per il linguaggio, i significati non sembrano determinati dai contesti anche se i contesti influiscono sui significati; come il linguaggio, è in grado di produrre serie illimitate di sequenza; come per il linguaggio, i bambini sembrano avere una predisposizione naturale; come nel caso del linguaggio, il mezzo naturale è uditivo-verbale; come il linguaggio, spesso utilizza sistemi di notazione; come il linguaggio, puo’ essere compresa anche da chi non è in grado di riprodurla; come il linguaggio, differisce da cultura a cultura pur conservando una struttura profonda unitaria.

Ma soprattutto la musica, proprio come i linguaggi verbali, presenta tre componenti: fonologia, sintassi e semantica.
Finché Sloboda si lancia nell’ analisi della fonologia e della sintassi tutto fila liscio procedendo al meglio, puo’ persino permettersi continui paralleli con la grammatica generativa di Chomsky facendo un figurone.

Ma quando si arriva alla “semantica” (teorie del significato) i nodi sembrano venire al pettine.

Alcuni, pur di liberarsi dei “nodi” di cui sopra, hanno deciso di rasarsi a zero affermando che “la musica non ha una semantica” essendo un sottosistema chiuso che esaurisce in se stesso la sua funzione. Una specie di grande cruciverbone.
E’ vero che molti capolavori sono stati concepiti come “esercizi”, eppure sono pochi coloro che si limitano a reputarli tali. L’ elemento didattico, così come l’ elemento giocoso, non chiudono il discorso sui significati.

Sloboda, per esempio, si dissocia constatando (è il suo lavoro) come l’ esperienza musicale sia tradotta di continuo e senza arbitri palesi in altre modalità rappresentative.

Dal lato opposto, c’ è persino chi ha tentato pedanti “traduzioni” che abbinavano sequenze musicali ben individuate a stati mentali ben definiti; l’ accusa in genere è stata quella di scegliere esempi ad hoc, magari, nel caso della musica vocale, con l’ “aiutino” del testo. Ad ogni modo la sperimentazione sul campo si è incaricata di fiaccare se non di tagliare le gambe a questa visione.
Passate in rassegna le varie posizioni, Il minimo che si puo’ dire è che i significati della musica siano vaghi.

Se la musica è un linguaggio, sembra essere un linguaggio ben “rozzo”. D’ altronde Darwin la poneva all’ origine come vocalizzazione delle scimmie antropoidi. La parte “linguistica” è andata raffinandosi evolvendo nel linguaggio naturale; difficile però immaginare la componente “musicale” come un sottoprodotto di scarto seguito al raffinamento.

Qualcuno, in cerca di alternative sulle “origini”, ha puntato su una funzione primaria ben precisa della musica: creare coesione sociale. Trasposto all’ oggi ci vengono in mente le adunate oceaniche dei concerti rock, ma noi abbiamo una concezione ben diversa, direi “romantica”, di arte: l’ ascoltatore solitario sprofondato in intima meditazione che viene elevato nell’ animo per aver colto con il cuore e l’ intelligenza un nobile messaggio.

Bisogna rassegnarsi, un linguaggio con significati vaghi è un linguaggio primitivo, ma noi siamo ben lungi dal considerare la musica come qualcosa di barbaro che appartiene intrinsecamente al nostro passato di uomini-scimmia.
Poiché vale esattamente il contrario, il sodalizio tra linguaggio e musica sembra deteriorarsi.
In realtà anche il linguaggio verbale usa spesso espressioni “vaghe”, sarebbe interessante vedere con quale funzione. Forse è proprio qui che dobbiamo fare leva.

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E’ difficile capire a cosa “serva” la “vaghezza”, a prima vista non ha ragione d’ essere, e l’ affermazione perentoria è persino dimostrata con rigore dagli studiosi.

Potrei chiamare “alta” una una persona d’ altezza superiore a circa 1.80 e bassa una persona di altezza inferiore a circa 1.60, e tutti coloro che si collocano nell’ intervallo designarli con espressioni ancor più vaghe. Oppure potremmo decidere di chiamare “alto” chi supera il metro e settantacinque e “basso” tutti gli altri.

Ebbene, l’ economia (dell’ informazione) dimostra che il secondo metodo è più efficiente mentre la pratica opta decisamente sul primo. La precisione “conviene” ma noi scegliamo la vaghezza, perché?

1. C’ è chi dice che la “vaghezza” consente di imbrogliare. Ma la vaghezza è usata anche nei discorsi tra persone con interessi allineati.

2. Qualcuno sostiene che la vaghezza favorisce la sintesi. Ma spesso l’ espressione vaga è anche più prolissa e lavorata di quella precisa.

3. Altri sostengono che espressioni all’ apparenza vaghe sono in realtà precise. Chi dice “vale per vecchi e giovani” vuole dire che “vale per tutti”, espressione dalla precisione analitica. la considerazione ci toglie una castagna dal fuoco, ce ne rimane solo un’ intera padella.

4. C’ è chi sostiene che la vaghezza è comoda per coprire un’ ignoranza. Ma la cosa ha senso qualora non dovesse rientrare nel caso 1, e anche in questo caso un linguaggio probabilistico preserva le incertezze senza pregiudicare il rigore.

L’ ipotesi più corretta sembra allora un’ altra: la vaghezza è un invito alla ricerca comune. Un atto prudente che è anche richiesta d’ aiuto.

Noi spesso siamo vaghi al fine di innescare la comunicazione in modo produttivo, nonché la “ricerca comune” con l’ altro. La nostra ignoranza non riguarda solo l’ oggetto delle nostre affermazioni, quanto il soggetto a cui ci rivolgiamo.

Un esempio triviale puo’ aiutare.

Giovanni deve chiedere a Giacomo di passargli, tra le molte allineate sullo scaffale, le scarpe blu: per il vestito che indossiamo ci vogliono proprio quelle; ma non sa esattamente come Giacomo percepisce il colore “blu”. Se Giovanni fosse preciso comunicherebbe fornendo una definizione analitica di blu secondo i suoi standard. Ma Giacomo, che forse ha ha standard differenti, tradurrebbe analiticamente senza riscontrare corrispondenze, vedendosi a quel punto costretto a una scelta casuale nella speranza di azzeccarla (risultato inefficiente). Con un linguaggio vago (che senza indirizzare con precisione limita vagamente l’ insieme tra cui scegliere), per contro, noi otterremo un risultato migliore, e magari sfrutteremo pure le eventuali competenze di Giacomo circa la miglior tonalità di blu da abbinare al nostro vestito.

La vaghezza serve dunque a facilitare l’ incontro, la presa di contatto e la ricerca comune con un “altro” a cui riconosciamo comunque delle abilità cognitive.

Se la musica è chiamata a esaltare questa funzione linguistica, le conseguenze estetiche non sono da poco, e ognuno tragga le sue.
L’ incontro con l’ “altro” e la frequentazione di territori “poco esplorati” sfrutta al massimo questa predisposizione: l’ elemento della “novità” (originalità) diventa cruciale nella valutazione estetica. Quando il codice musicale si fossilizza, quando la materia e gli interlocutori diventano presenze stantie, allora cessa ogni funzione specifica della vaghezza, che invece è strumento imprescindibile allorché ci spingiamo in avanscoperta per procurarci sempre nuovi incontri, sempre nuove “prese di contatto”.

A costo di cadere nel fanboysm, azzardo la congettura per cui la musica più carica di promesse sia quella non-omologabile, ovvero la musica restia alle classificazioni. Se un musicista è “etichettabile” (pop, rock, classica, jazz…), diffidate, c’ è il rischio che faccia un “uso improprio” della sua (pseudo) arte. E’ un po’ come se si rinchiudesse nelle sue quattro rassicuranti mura anziché uscire, esplorare, fare incontri, ibridarsi. E le cose non cambiano per il passato: i musicisti di valore cono quelli che hanno creato la casella dove ora li vedete sistemati. 

Ma il linguaggio “vago” ha anche un’ altra funzione, ovvero coniugare bugie pietose e autorevolezza a tutto vantaggio del bene sociale. E’ noto infatti che il buon governo richiede di mentire con un genere di menzogna che non esautori, altrimenti, ben presto, la comunità resterebbe senza i suoi migliori amministratori. In merito i tabù sono talmente radicati che il solo utilizzo della parola “menzogna” per descrivere certe pratiche è provocatorio e disturba l’ orecchio, meglio forse allora dire “reticenza”. Il “pifferaio magico” per noi è una figura truffaldina ma si sappia che tutti i politici sono chiamati a suonare il piffero, alcuni lo sanno fare bene altri meno.

Dominare le vaghezze del linguaggio consente la trasfigurazione del “pifferaio magico” in "statista", ovvero in colui che fonde mirabilmente finzione e pragma grazie al sapiente gioco delle sfumature. Ogni sua affermazione deve essere al contempo motivante e “indecidibile”, ogni suo proclama commovente e “inclassificabile”. Proprio come una buona musica.


martedì 22 novembre 2011

Ritorno a casa

Nazi Animal Protection

As soon as the Nazi Party came to power in 1933, they began to enact scores of animal protection laws, some of which are still operative in Germany. (See here for the 1933 legislation.) For example, in Nazi Germany, people who mistreated their pets could be sentenced to two years in jail. The Nazis banned the production of foie gras and docking the ears and tails of dogs without anesthesia, and they severely restricted invasive animal research. The Nazi Party established the first laws insuring that animal used in films were not mistreated and also mandated humane slaughter procedures for food animals and for the euthanasia of terminally ill pets…

In 1933, Hermann Göring announced he would "commit toconcentration camps those who still think they can treat animals as property." The feared Heinrich Himmler once asked his doctor, who was a hunter, "How can you find pleasure, Herr Kerstein, in shooting from behind at poor creatures browsing on the edge of a wood...It is really murder." Hitler…abhorred hunting and horse-racing and referred to them as "the last remnants of a dead feudal world." Sax chronicles many other examples in his fascinating book Animals In the Third Reich: Pets, Scapegoats, And The Holocaust… Perhaps the most chilling episode in the bizarre annals of Nazi animal protectionism was a 1942 law banning pet-keeping by Jews…

The Fuhrer is a convinced vegetarian, on principle. His arguments cannot be refuted on any series basis. They are totally unanswerable… The extent of Hitler's vegetarianism, however, is a matter of dispute… I suspect that… was an inconsistent vegetarian. But so are most modern American "vegetarians", 70% of whom sometimes eat meat… leggi tutto.

zoe williams boing allevamento

Morale:

human-animal interactions are fraught with paradox and inconsistency… the Nazi animal protectionists represent examples of fundamentally bad people doing good things for animals. I suspect this pattern of behavior is rare. However, the converse -- fundamentally good people who treat animals badly -- is common.

Perché Carlo Petrini e Steve Jobs “sì” mentre la pubblicità “no”?

These two views seem to go together often:

  1. People are consuming too much
  2. The advertising industry makes people want things they wouldn’t otherwise want, worsening the problem

The reasoning behind 1) is usually that consumption requires natural resources, and those resources will run out. It follows from this that less natural-resource intensive consumption is better* i.e. the environmentalist prefers you to spend your money attending a dance or a psychologist than buying new clothes or jet skis, assuming the psychologist and dance organisers don’t spend all their income on clothes and jet skis and such.

How does the advertising industry get people to buy things they wouldn’t otherwise buy? One practice they are commonly accused of is selling dreams, ideals, identities and attitudes along with products. They convince you (at some level) that if you had that champagne your whole life would be that much more classy. So you buy into the dream though you would have walked right past the yellow bubbly liquid.

But doesn’t this just mean they are selling you a less natural-resource-intensive product? The advertisers have packaged the natural-resource intensive drink with a very non-natural-resource intensive thing – classiness – and sold you the two together.

Yes, maybe you have bought a drink you wouldn’t otherwise have bought. But overall this deal seems likely to be a good thing from the environmentalist perspective…

My guess is that in general, buying intangible ideas along with more resource intensive products is better for the environment than the average alternative purchase a given person would make…

Another thing advertisers do is tell you about things you wouldn’t have thought of wanting otherwise, or remind you of things you had forgotten about. When innovators… do this we celebrate it. Is there any difference when advertisers do it?… leggi tutto.

Satoshi Itasaka’s Balloon Bench

sabato 19 novembre 2011

Ugole cablate

Sa essere un’ emaciata dama bianca, regina delle nevi dalla voce vetrificata in un ghiaccio ornato dalle sue stesse schegge. Nella primavera fatidica che smuove la nivea pietra sepolcrale, assisteremo al problematico scongelamento crionico di un’ anima. Il recupero della bellezza perduta impegna frese, presse, torchi e altri macchinari che alternano – sembra invano - precisione e potenza. Ci accorgiamo presto che “precisione & potenza” di quelle macchine sono l’ unico simulacro di bellezza che ci resta tra le mani.

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Sa essere una terrea dama nera - amazzone dell’ apocalisse – per parlarci dell’ attesa, dell’ allarme, dell’ annuncio, dell’ incombere e del soccombere. Ascolta bene perché quel giorno chi non riconoscerà i segnali potrebbe attardarsi fatalmente.

Genealogia: Diamanda Galas, Iannis Xenakis.

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Maja S. K. Ratkje – River mouth echoes

Identikit dell’ evasore

Ha redditi medio bassi, vive a sud ed è un lavoratore dipendente.

Fa un certo effetto leggere sul Corriere della Sera della Guardia di Finanza che ha pizzicato migliaia di statali che hanno truffato l'Inps con il doppio lavoro. Tremilatrecento casi di evasione fiscale perchè si arrotondava lo stipendio con un secondo lavoro in nero. La notizia è stata inquadrata subito come i soliti travet che mangiano a sbafo alle spalle dello Stato. E sarà anche così

E invece la Finanza così ha sollevato il velo inconfessabile su gran parte dell'evasione fiscale italiana. Perchè anche nel settore privato tanti arrotondano il magro stipendio con qualche lavoretto in nero. C'è per altro qualcuno che immagina di vedere nelle dichiarazioni dei redditi di migliaia di professori l'incasso delle ore di ripetizione pomeridiane a 25 euro l'ora? C'è qualche studente universitario che le fa e poi si autodenuncia al fisco? E ancora: quante aziende pagano superminimi attraverso note spese non reali (ad esempio rimborsi km)? Quanti straordinari o premi produzione sono pagati in nero?.

Se Mario Monti, Vittorio Grilli e Vieri Ceriani vorranno davvero affrontare seriamente il capitolo della lotta all'evasione, è meglio che guardino con attenzione quelle cifre. Come i numeri delle ricerche che confrontano incassi Iva e dichiarazioni Irpef, ponendo Calabria e Campania in vetta alle Regioni con più evasori fiscali (lì i cittadini acquistano ben più di quello che ricevono in busta paga, e qualcosa evidentemente non funziona). Questo significa che gran parte dell'evasione fiscale non sia quella dei ricchi (che ci sono ed evadono), ma quella del ceto medio e perfino quella dei poveri. Per campare hanno bisogno di uno stipendio extra da non dichiarare… leggi tutto.

venerdì 18 novembre 2011

Ho visto degli atei felici

Jonathan Haidt: Felicità. Un’ ipotesi.

Ieri dalla Cri ci siamo incontrati per tenere il “gruppetto” dei ciellini, eravamo una quindicina e quasi non entravamo in salotto. Ma in questi casi si sta bene anche stretti. Non cambierei mai una sede del genere, soprattutto perché è sul mio pianerottolo e 1. ci possiamo andare in pantofole 2. possiamo rimpiazzare la baby sitter con il baby call.

Si commentava l’ insegnamento di Julian Carron alla Scuola di Comunità di qualche giorno prima.

Carron aveva detto che “la realtà è sempre positiva”.

Affermazione perentoria e in qualche modo scandalosa perché fatta reagendo al caso di una mamma che aveva perso il figlio. La tragedia era stata riferita da un prete intervenuto per l’ occasione; in questo genere d’ incontri si privilegia la riflessione su fatti reali, chi si abbandona a congetture è malvisto, quasi volesse sviare il discorso.

Eravamo ora chiamati a discutere per comprendere il senso profondo di quella lezione contro-intuitiva.

Ebbene, dapprima qualcuno ha avanzato l’ ipotesi che da eventi negativi ne possano pur sempre generare di positivi con l’ effetto di ottenere un saldo generale in attivo. Spesso è proprio così: ci siamo scatenati in una ridda di esempi, a ciascuno veniva in mente qualcosa: un fatto, un episodio, un’ esperienza personale. E se il “positivo” non si produce contestualmente al “negativo”, in fondo basta spostarsi un po’ più in là nel tempo e prima o poi il giochetto riesce.

Ma è la stessa ipotesi, a guardar bene, a essere irrilevante visto che non si oppone al fatto che esistano pur sempre “realtà negative” e “realtà positive”. Noi dobbiamo invece indagare sul perché “la realtà è sempre positiva”.

Poi Emanuela ha fatto riferimento ai drammi vissuti in famiglia (sia suo padre che suo fratello sono mancati in circostanze tragiche).

Ebbene, nel racconto di questa esperienza ha voluto enfatizzare come quella triste realtà l’ abbia colpita duro ma al contempo abbia impreziosito legami stretti in precedenza con persone intorno a lei; tutto cio’ le ha consentito di uscire rafforzata e “risvegliata”. Il dato esperienziale è stato decisivo per ritonificare il suo spirito.

Qui ci avviciniamo al nocciolo della questione: l’ incontro con l’ asperità ci rende più forti. E’ un po’ come se ci mettesse o rimettesse in moto scuotendoci dal torpore che ci avvolge quando le cose filano lisce per troppo tempo. E’ come un tornare al mondo, in un mondo dove possiamo fare incontri che riattivano la nostra umanità.

L’ intervento dell’ Ema ha raccolto un certo consenso.

Ma anche qui non mancano i problemi: quel che ha detto l’ Ema, avrebbe potuto dirlo anche un ateo. Parola per parola. E perché no?

Calma, non mi sono dimenticato del libro, ci arrivo; ho solo fatto questo preambolo perché Jonathan Haidt, nello svelarci il “senso della vita”, ripete paro paro quello che, a quanto pare, per molti intervenuti al “gruppetto” sembra bastare.

Solo che Haidt è un ateo doc e parla unicamente quel linguaggio positivista che i ciellini reputano insufficiente a descrivere l’ umano.

Il libro di cui parliamo è appassionante perché oltre a costituire un resoconto scientifico, ci riferisce le vicissitudini esistenziali dell’ autore. Veniamo a sapere di come il giovane Haidt considerasse sterile la filosofia contemporanea inaugurata di Wittgenstein, disinteressata com’ era a una comprensione profonda della natura umana. Sono inconvenienti che capitano quando si trascura la psicologia in favore della logica.

Fortunatamente, da qualche tempo, le cose sono cambiate e l’ indagine sul “senso della vita” ha riguadagnato la scena.

La nostra vita, dice Haidt, è come un film che cominciamo a vedere da metà. Accadono molte cose che non riusciamo a spiegarci ma che sentiamo come dotate di senso. Perché lei ammiccava a lui? Perché il protagonista si trovava lì proprio in quel momento? Eccetera.

Esiste per caso uno spettatore che ha visto il film per intero e che possa illuminarci?

Per Haidt, attraverso il metodo scientifico, possiamo venire a sapere chi era in sala quando si sono spente le luci ed è iniziata la proiezione, dobbiamo rintracciarlo e chiedere a lui.

Purtroppo, per la scienza e per i testimoni che riesce a riesumare, la nostra vita non ha alcun senso. Ma forse si puo’ affrontare una sotto-questione non da poco: “come dobbiamo vivere?”. Come posso avere cioè una vita piena, appagante e… “significativa”?

Non è detto che la domanda di senso (questione principale) sia legata a doppio filo alla sotto-questione. In fondo la seconda ha natura empirica, ed essa, a volte, è risolta brillantemente anche da chi non dà alcun contributo per sbrogliare la prima.

Volendo sintetizzare la monumentale letteratura positivista in merito, direi che per essere felici occorre un “impegno vitale”, preferibilmente nel campo del lavoro o dell’ amore. Per approfondimenti faccio un solo nome: Mihalyi Csikszentmihalyi.

Un “impegno vitale” implica a sua volta relazioni umane forti e ideali alti. Richiede poi che vi sia armonia tra il corpo, la mente e l’ ambiente sociale in cui si vive.  Quando tutto cio’ è presente, le persone percepiscono un “senso” in quello che fanno.

Anche senza alzarsi troppo da terra si puo’ godere di una vista meravigliosa sul mondo.

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In più ora sappiamo anche che il dono di sé ha un suo senso dal punto di vista biologico. Il nostro “corpo” non si oppone necessariamente a queste pratiche. Voglio dire, forse non siamo necessariamente dei gretti “egoisti naturali” temperati dall’ ipocrisia come ci dipinge qualcuno.

La ricetta di Haidt e la ricetta dell’ Ema convergono in modo preoccupante. Dico “preoccupante” perché l’ ateo e il ciellino non possono  permettersi abbracci tanto affettuosi.

Cosa c’ è allora che non va?

Forse bisogna concentrarsi sull’ espressione “alti ideali”, uno degli ingredienti imprescindibili nella ricetta scientifica della “felicità”.

L’ ateo li puo’ sentirli ma non puo’ permettersi di pensarli, altrimenti gli svaniscono tra le mani poiché li troverebbe insensati. In altri termini, non puo’ permettersi di “alzare la testa” e ampliare i suoi orizzonti: la scienza, ovvero il suo riferimento, in fondo non assegna nessuno scopo alla sua vita.

L’ Ema, invece, puo’ anche alzare la testa, farebbe male a concentrarsi unicamente sull’ elemento “esperienziale” visto che puo’ permettersi di pensare l’ esperienza per riempirla ulteriormente di senso senza fermarsi a una epidermica sensazione, per quanto appagante.

C’ è la “vita” e la “vita pensata”, ad alcuni basta la prima, altri devono averle entrambe. Le persone non sono tutte uguali, alcune si appagano col piacere che traggono dalle loro esperienze, altre non possono fare a meno di meditarle in modo ragionato. A questi ultimi è difficile impedire di “alzare la testa”. Ecco, Dio e la religione si offrono soprattutto a costoro.

La parabola esistenziale dell’ ateo Jonathan Haidt si conclude con un cambiamento interiore non da poco: oggi, pur rimanendo un incrollabile ateo, ha abbandonato il compiaciuto disprezzo per la religione che aveva a 20 anni. Lo studio della psicologia evolutiva gli ha fatto concludere che la mente umana, molto semplicemente, “percepisce” la divinità, al di là dell’ esistenza o meno di un Dio.

Detto in altri termini, la religione è tremendamente “fitting”, tanto è vero che è uno dei pochi universali accertati.

Come potremmo mancarle di rispetto? 

giovedì 17 novembre 2011

Un pop vincente

L’ opulenta orchestrazione “cubista” sfocia in una fantasmagoria caleidoscopica dai colori fin troppo carichi. Anche le spruzzatine di elettronica dosate ingenuamente finiscono per imbrattare anziché decorare.

Eppure… avercene di gente che osa.

Adorabile voglia di strafare.

Belle le voci: quei cori senza coristi, imperniati su voci soliste eteroclite, a cominciare da quella dell’ efebo Stevens in persona; ne esce una ricca sonorità, un po’ soul nero, un po’ narcosi bianca; ognuno andrà anche per conto suo ma una volta ritoccati con sapienza i livelli in studio ne escono pennellate spesse e spensierate quanto involontarie polifonie microtonali. L’ ideale per passeggiare nei campi di fragole. Belle anche le tarantelle partenopee incrociate con la ballata scozzese; una menzione al breve solo pastorale del sinth, riesce a essere caldo quanto suo nonno: l’ oboe. Qua e là si celebrano matrimoni davvero buffi.

robert crumb

Il pop sinfonico dimostra a ancora una volta la sua schiacciante superiorità intellettuale sul rock sinfonico. Se mai ce ne fosse bisogno.

Genealogia: XTC, Berlioz, Incredible String Band.

Sevens Sufjan – The Age of Adz

mercoledì 16 novembre 2011

Instaurare Omnia in Christo

Luigi Sturzo – appello ai liberi e forti

A Diana che è sempre alla (scettica) ricerca di pretini libertari, potrei proporre il nome di Antonio Rosmini. Ma, mi rendo conto, dobbiamo volare nell’ Ottocento; forse è impresa ardua per ali corte come le nostre.

Allora rilancio con il nome di don Luigi Sturzo.

Come vedi, per trovarne non c’ è bisogno di finire a Salt Lake City da Don Sirico, anche il Bel Paese ne sforna a raffica. Nascono come funghi dopo il temporale. Dai monti al mare, da Stresa a Caltagirone, neii paesini della provincia italica si producono spiriti di prim’ ordine.

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E non sto parlando di figure marginali nemmeno all’ atto pratico.

Sturzo fu colui che nel XX secolo forgiò le regole per un dibattito corretto tra fede e politica. Fu colui che s’ incaricò di traghettare i cattolici italiani nella “modernità” chiedendo loro di occuparsi del “vivere civile” dopo l’ emarginazione del “non expedit” di Pio IX e spronandoli a non chiudersi nel circolo dell’ autoreferenzialità offrendo invece al mondo un’ alternativa valida all’ influenza marxista e socialista.

Ironia della sorte si oppose ai “cattolici liberali” e alla loro pretesa di separare senza residui la sfera politica e quella religiosa:

… sarebbe illogico cadere nell’ errore del cattolicesimo liberale, che reputa la religione un semplice affare di coscienza, e cerca quindi nello Stato laico un principio etico informatore della morale pubblica… anzi, è questo che noi combattiamo quando cerchiamo nella religione lo spirito vivificatore di tutta la vita individuale e collettiva; ma non possiamo con questo trasformarci nei paladini della Chiesa e parlare a nome della stessa…

L’ ossimoro incarnato nel “partito cattolico” era comunque colto con estrema lucidità: il cattolicesimo è religione,  universalità; il partito è politica, divisione.

Che i cattolici si riuniscano allora in quanto spinti da una sensibilità affine e non in quanto congregazione religiosa, né come turba di fedeli.

Nel nome di Sturzo i cattolici si sono uniti in un partito, nel nome di Sturzo hanno intrapreso la loro diaspora nei vari partiti. La grandezza del suo messaggio autorizzava entrambe le soluzioni.

Si staccò da ogni forma di clericalismo e neoguelfismo per costituire il campione del credente che propugna la libertà come metodo.

Libertà religiosa, innanzitutto.

Libertà d’ insegnamento. Fondamentale per chi vede nelle idee e nella cultura il germe di tutti i cambiamenti sociali.

Libertà dalle burocrazie (l’ esilio in Inghilterra e i viaggi negli usa gli regalarono certezze adamantine in merito).

Libertà dal centralismo. Nulla fa maturare un popolo quanto l’ auto-governo.

Libertà dai partiti. Sentirlo denunciare la “partitocrazia” ce lo fa sembrare un uomo avanti di mezzo secolo.

Per molti cattolici la “centralità della famiglia” è un modo come un altro per chiedere sovvenzioni. Per Sturzo sembra quasi un concetto che faccia le veci dell’ “individualismo”: lasciate che la famiglia esprima tutte le sue potenzialità, non intralciatela, non imbrigliatela, non esautoratela.

La questione meridionale gli permise di denunciare la “cultura del piagnisteo” fatta di arroganti braccia tese e sonorizzata da un querulo quanto incessante “domandare”.

Rideva, poi, sulla tesi che riduceva queste emergenze a una questione di “lavori pubblici”. Sentiva piuttosto la mancanza di una classe borghese fattiva e autonoma, di un club intellettuale al passo con i tempi. Preoccupante e sintomatica, poi, la prevalenza in quelle terre degli studi a indirizzo giuridico, segno inequivocabile di decadenza per un popolo; almeno quanto la latitanza dello studio dell’ economia politica. Arrivò persino a indicare come fonte di guai la penuria di ebrei nella storia del nostro Mezzogiorno: la loro laboriosità amorale è proprio cio’ di cui si sente la mancanza.

L’ analisi del Mezzogiorno si salda con la denuncia del “parlamentarismo”, ovvero la degenerazione dei costumi elettorali che gravitano su masse mai emancipate dall’ influenza paternalistica del campanile. Un sentimentalismo mercanteggiante particolarmente pernicioso in politica.

Non poté mai sopportare l’ aria greve dello statalismo, la nuova religione laica che sostituisce il popolo a Dio.

Lo Stato soffre di elefantiasi, te lo ritrovi ovunque, persino nel cinema! Persino… nell’ Accademia di Santa Cecilia! Assurdo, tutto questo preme sulla carotide di don Luigi e lo soffoca.

Le colpe del fascismo sono grandi, ma quelle dell’ anti-fascismo non sono da meno: con loro lo statalismo, non solo non è stato rinnegato, ma ha fatto passi da gigante.

Secondo il prof. Rossi, don Luigi è un liberista manchesteriano di cento anni prima. E questo solo perché non smetteva mai di denunciare il noto vizietto:

… l’ economia italiana è solo apparentemente di mercato… l’ imprenditore gira le perdite appena puo’ avvalendosi dei metodi più fantasiosi… lo Stato, da par suo, sembra sobbarcarsi l’ onere più che volentieri visto che cio’ gli consentirà di espletare in modo meno goffo quella che sente come la sua missione dirigista…

Il guaio è psicologico: abbiamo perduto il “senso del rischio”. Perdita grave:

… al verificarsi di eventi spiacevoli, i licenziati inscenano subito manifestazioni, scioperi, occupazioni che costringono quasi sempre a un ritiro dei provvedimenti… e non certo per una benevolenza padronale… anzi, il padrone entra velocemente in questo ordine di idee e usa l’ arma dei sindacati operai, nonché le deputazioni politiche a cui ha accesso, per costringere ministeri e governo a intervenire…

Pensierini da “nemico del popolo” sulla Fiat:

… la Fiat non puo’ fallire?… fatta l’ ipotesi si crea di botto una psicologia per cui lo Stato è tenuto a intervenire e garantire tutte le intraprese che andranno male… presto non ne resterà una in piedi… Se la Fiat, nonostante tutti gli aiuti e protezioni, andasse male… e io fossi qualcosa nel Governo italiano… sequestrerei tutti i beni degli azionisti della Fiat per fare fronte al disastro… manderei in galera gli amministratori responsabili affidandomi a abili liquidatori… la nuova Fiat verrebbe su sana e senza debiti… Gli operai licenziati sarebbero messi alla pari degli altri disoccupati, per i quali lo Stato provvede nei limiti delle sue possibilità… curando che nessuno muoia di fame ma chiarendo che nessuno puo’ rivendicare particolari diritti… e che Dio disperda questa profezia…

Al disastro Nuovo Pignone di Firenze il santissimo sindaco La Pira reagì e invocò soluzioni ben diverse incorrendo negli strali infuocati del poco mistico don Luigi. Lo scambio epistolare tra i due edifica gli spiriti e fa comprendere come “ragione religiosa” e “ragione politica” abbiano un bem labile collegamento.

Con questo non si puo’ nemmeno dire che don Luigi fosse un “liberista manchesteriano” di cento anni prima, era solo un pretino a cui piaceva alternare “sogni” e “piedi in terra” e che in politica, negli affari e nelle pratiche comuni della vita di tutti i giorni si atteneva a quello che, specie dopo i suoi esili anglosassoni, considerava il principio più adatto a governare quei casi: un sano relativismo.