Perotti sulla riforma fiscale:
Non ci sono scappatoie: per una riforma fiscale seria bisogna ridurre la spesa. Questo non accadrà nel prossimo futuro.
Perotti sulla riforma fiscale:
Non ci sono scappatoie: per una riforma fiscale seria bisogna ridurre la spesa. Questo non accadrà nel prossimo futuro.
La fissazione di un salario minimo ha l’ obiettivo di garantire dignità al lavoratori non specializzati.
Ma spesso il salario minimo si trasforma in un salario pari a zero (disoccupazione) colpendo proprio coloro che vorrebbe aiutare, i benefici saranno raccolti da altri.
Spesso i posti a salario minimo sono accaparrati dai teenager figli di papà alle loro prime esperienze anziché ai capifamiglia low skill poco abbienti.
In generale, però, nei paesi ricchi il mercato garantisce salari superiori a quello fissato per legge, cosicché il tutto si trasforma in mere politiche populiste, ovvero in medaglie che il politico sfoggia tronfio davanti al suo elettorato.
Justin, let me first note that in your book, which I very much enjoyed, you make many gracious acknowledgements to the efficient markets hypothesis (EMH), such as the basic implication that it is very, very difficult to outperform the market. To outperform the market is incredibly hard, as evidenced by data not merely on retail investors who trade too much and tend to get into the market at exactly the wrong time, but professionals too, as mutual fund managers underperform their passive investment alternatives like night follows day. This is not a minor acknowledgment, but basically is the EMH theory.
Yet you call efficient markets a “myth” and say the theory “deluded” investors. “Efficient markets” appears to be a loaded phrase, with lots of baggage unrelated to the original definition presented by Eugene Fama back in 1965, which is that current market price is the best predictor of future price.
I think this distaste for efficient markets comes from two sources. First, many people distrust the “invisible hand.” They do not think markets are fair games that reward virtue and promote social welfare. Secondly, there are critics (stockbrokers, talking heads on CNBC, financial journalists) whose livelihood depends on markets being wrong; otherwise their special insight as to why one should be in telecoms, or bonds, would have no value.
Government fails more often than markets do
By definition, an efficient outcome is one that cannot be improved upon. I am no anarcho-capitalist. I think a collective must have rules, even government. Yet I think government power should be minimized, because government failure is far more common than market failure, as the I.Q. of a group is diminished by centralized interaction. Not only do government bureaucrats suffer from the same cognitive and emotional limitations as consumers and investors, they are politically motivated rather than merely self-interested.
Justin, you mention in your post that Robert Shiller noted that housing was on an unprecedented tear in 2004. But Shiller did not predict an aggregate housing decline; instead, he merely stated the recent increase in home prices was unlikely to continue. In the 2005 edition of Irrational Exuberance, he wrote that in some cities “the price increases may start to slow down, and then to fall. At the same time, it is likely the boom will continue for quite a while in other cities.”
Now, compare this modest warning by a lone economist to the forces promoting home lending from all directions. It was not just a Wall Street phenomenon, but one pushed by our government, legislators, regulators, and even academics (for evidence, see Stan Liebowitz’s “Anatomy of a Train Wreck“).
In 2002, President Bush bragged in a speech about how Freddie Mac had began a program to “help deserving families who have bad credit histories to qualify for homeownership loans.” Bank acquisitions were evaluated in part by their Community Reinvestment Act record, which necessitated lowering underwriting criteria on homes. Furthermore, the Federal Housing Administration was, and is, offering loans with only three percent down, and during the boom, the Department of Housing and Urban Development promoted a program where even this minor investment could be paid for by the homebuilder, allowing a homebuyer to purchase an overpriced house with no money down. As the Republicans discovered in 2004 when they tried to add more oversight to Fannie Mae, there was little legislative appetite for anything close to more stringent lending standards during the boom.
The market diagnosed the bubble
In light of this governmental housing exuberance, I doubt that a more powerful government would have mitigated the boom — rather, it would have made this crisis worse. Indeed, it was only the collapse of the subprime market at the beginning of 2007 as reflected by the ABX-HE subprime housing index that alerted people to the severity of this problem, and shut off financing by mid-2007, six months later. Market prices, not legislators, instigated the end of the insanity. How quickly are failed governmental initiatives usually stopped, once identified?
No one thinks markets are perfect, and EMH never says this. The proof that markets are efficient is that it is so improbable one can generate alpha — something you, like most EMH critics, concede. But the implications do not seem obvious. That you were able to find one person in 2004 and turn his measured warning into something that would have drastically reversed the regulatory emphasis on weakening underwriting standards is classic hindsight wisdom.
The nice thing is that markets rely on decentralized self-interest to keep prices in line, which is surely more dependable than legislators building patronage systems and pandering to their base with other people’s money. Letting markets, as opposed to bureaucrats, signal people how to get paid and how to invest, is simply better than the undefined alternative.
Se avessimo conquistato il potere
avremmo fatto impallidire anche Pol Pot
Alberto Franceschini
La storia del comunismo italiano è anche la storia delle Brigate Rosse e la storia delle Brigate Rosse è la storia di un movimento politico-religioso di stampo puritano.
Come nella profezia di Chesterton, dopo aver soppresso il Dio trascendente, l’ uomo si è trasformato da “credente” in ateo “credulone”.
Ripensando al terrorismo oggi ci vengono in mente strani personaggi un po’ comici e fuori dal tempo. Ma allora i “comici” sparavano.
Il militante brigatista, come ogni discepolo, veniva sottoposto ad un processo politico-psicologico che spogliava le sue vittime di ogni umanità. Prima di essere ucciso il “nemico” era degradato ad una specie inferiore in grado di suscitare solo sdegno e ribrezzo. Si trasformava nel “porco” (rivendicazione Labate) o nel “lurido porco” (rivendicazione Taliercio).
Il mondo è un “pantano” (Gramsci) immerso nelle “tenebre della schiavitù” (Lenin) e alcuni uomini (i democristiani) ne sono responsabili, ucciderli è un atto di giustizia.
I brigatisti hanno bene o male una storia comune, sono tutti figli dello “gnosticismo rivoluzionario” e della “pedagogia dell’ intolleranza”. Una micidiale pozione messa a punto nei sofisticati laboratori del partito Comunista Italiano.
L’ interpretazione del marxismo come fenomeno religioso è oggi condivisa anche da autorevoli studiosi marxisti (Hobsbawn), in esso palingenetica speranza millenarista e preteso scientismo andavano di pari passo. Fu proprio Frederich Engels a richiamare di continuo le analogie tra prassi religiosa e prassi rivoluzionaria.
La mentalità gnostica presenta alcuni temi ricorrenti: l’ attesa della fine, il catastrofismo, l’ ossessione della purezza. L’ adepto adempie alla sua funzione azionato dal “motore dell’ odio”, un motore che deve essere continuamente lubrificato. Nei testi sacri sventolati nelle piazze sessantottine l’ odio di classe veniva teorizzato come “principio di ogni saggezza”.
Il messianesimo politico deve aleggiare di continuo affinché i doveri siano chiari: radere al suolo tutti gli aspetti della vita presente per edificare la “società degli onesti”. Il brigatista “si sente più pulito” (Minervino) e grida al mondo intero di essere animato da una “purezza assassina e dispotica finalizzata a reprimere gli impuri in nome di una fede incrollable” (Morucci).
La logica brigatista prevedeva la purificazione del mondo mediante lo sterminio del nemico. “Chiedevamo alla politica di essere pura così come Savonarola lo chiedeva alla sua Chiesa” (Morucci).
Il grande ispiratore del comunismo italiano e quindi anche dei brigatisti fu Antonio Gramsci, il suo discorso era intriso fin nelle fondamenta da una concezione gnostica della Storia. Considerandosi depositario di una “conoscenza superiore” si sentiva in dovere di “imporla con ogni mezzo”.
Il catastrofismo è una sua prerogativa, si sentiva vittima di “un mondo malato” dominato da “una terribile e asfissiante realtà borghese” che spinge tutti verso un “marasma omicida”. Solo la rivoluzione comunista farà tabula rasa.
Ma le masse non vedono, hanno bisogno di essere guidate. Una “minoranza illuminata” deve condurre il popolo verso la “redenzione”.
“Redimere” e “purificare”: siamo in presenza di un linguaggio religioso che Gramsci rivendicava con orgoglio. Nel suo periodare fiorisce il lessico misticheggiante e i militanti del partito diventano i “costruttori della Citta dell’ Uomo” che s’ ispira alla “Città di Dio”. La sete di santità e martirio è ovunque.
Gramsci indossa di continuo i panni del moralizzatore che denuncia lusso, ricchezza e profitto. Come ogni sacerdote che si rispetti si rivolge agli “uomini di buona volontà”. Li esorta ad uscire dalle “tenebre borghesi che incombono” facendosi carico delle sorti del mondo.
Gramsci, come i brigatisti, odiava i tiepidi prima ancora che i suoi nemici diretti (guardare alle vittime dei brigatisti è illuminante).
Per la sua concezione integralista della politica era intollerabile non “schierarsi in modo rigorosamente partigiano”.
La mentalità dal codice binario, nonché il sentimento prezzemolino dell’ “odio”, produsse uno slogan politico di grande successo: “odio gli indifferenti”.
“Odio gli indifferenti… e sento di poter essere inesorabile, sento di non dover sprecare la mia pietà… verso chi non parteggia…” (per capire quanto in Italia il passato sia stato elaborato a dovere basterebbe aggiungere che tra la commozione generale queste parole sono state appena riproposte come esempio di virtù civica nientemeno che in quel di San Remo).
Per Gramsci questo mondo è un “pantano lurido e nauseabondo”. Soluzione: distruggere e purificare.
Togliatti, Longo, Berlinguer raccolsero il testimone e, sebbene dovettero frenare il loro impeto causa un contesto internazionale poco favorevole, non esclusero mai una “trasformazione socialista anche violenta in Italia” (Togliatti).
A questo punto la domanda è scomoda ma ineludibile: quali furono le responsabilità del PCI nella genesi delle BR?
La risposta sembra altrettanto ineludibile: il gruppo che fondò le BR pagò il prezzo della coerenza con l’ educazione rivoluzionaria ricevuta nelle sezioni del partito. La responsabilità ci fu e fu una responsabilità pedagogica.
Rossana Rossanda riconobbe per prima il forte legame tra l’ indottrinamento ricevuto nel PCI e l’ ideologia brigatista. Leggendo i documenti prodotti dall’ organizzazione terrorista sembrava di “sfogliare l’ album di famiglia”. Quanti bei ricordi!
Il PCI del dopoguerra si caratterizzò per l’ esaltazione della violenza eversiva.
La violenza era ritenuto uno strumento del tutto legittimo per instaurare il socialismo, anche se ormai il fascismo era stato abbattuto. Nel 48, poco prima delle elezioni, Togliatti chiese lumi a Kostylev (ambasciatore URSS a Roma) circa l’ eventuale insurrezione in caso di sconfitta alle urne. Kostylev chiese a Molotov che chiese a Stalin: “per quanto riguarda l’ insurrezione armata del partito comunista italiano riteniamo che il contesto internazionale non la renda ancora attuabile”. Salvati dal baffone, ma si puo’? E poi ci chiediamo perché il sentimento patriottico è tanto flebile.
Ci si limitò così a delegittimare i vincitori delle elezioni. La vulgata ufficiale era chiara: ricatti e brogli consentirono a De Gasperi il colpo di stato grazie al quale governava un governo “più illegittimo di quello fascista”. In queste condizioni esisteva chiarissimo un “diritto alla resistenza” (Longo).
Ma il PCI era un partito democratico, penserà l’ ingenuo. Ma ceeeeerto! Cio’ non toglie che “è del tutto superfluo domandarsi se sia lecito o meno ricorrere alla violenza per conquistare il potere perché democratica per definizione è la rivoluzione socialista, qualunque sia il modo in cui la si ottiene” (Togliatti).
C’ è da stupirsi se i migliori allievi di questa scuola (noti anche come “la meglio gioventù”) descrivessero Moro come il “gerarca più autorevole della DC” (primo comunicato dopo il rapimento) e la DC come “immondo partito”.
Nel “pacchetto educativo” del PCI, oltre alla delegittimazione dell’ avversario, ricorrevano le tecniche di “demonizzazione” e l’ esaltazione della violenza. Gli eroi erano Lumumba e Che Guevara (“la loro lotta è inseparabile dalla nostra”).
Nel corso del 68 – si preparavano nuove elezioni - il PCI, lungi dal prendere le distanze dalle frange più radicali ambisce ad organizzarle. Anche gli studenti più facinorosi sono descritti come “vittime dell’ irresponsabilità di governo”. “La loro è la violenza buona, creatrice di ordine e libertà”. Nessuna presa di distanza, dunque: bisogna convincere i terroristi in erba che il PCI è realmente rivoluzionario e non integrato al sistema: “… siamo il partito di Ho Ci Min e di Giap, siamo il partito della rivoluzione” (Occhetto).
Giocando con le parole, una volta evocate le forze dell’ eversione, il PCI non seppe più contenerle e la frittata si abbatté sull’ Italia. Nel 1972, quando ormai le BR erano pienamente operative, Amendola invitò il partito ad un “fermo atteggiamento critico”. Ma ormai si era civettato troppo a lungo e i figli avevano imparato fin troppo bene la lezione dei padri.
***
Il libro di questo storico “giovane promessa” è documentatissimo e mi interessa perché non si tratta solo di “storia”. Molti di quei protagonisti sono in campo ancora oggi, ma soprattutto è in campo una certa eredità culturale mai adeguatamente espulsa.
Non sono tanto ingenuo da credere al “Partito dell’ Odio” vs. il “Partito dell’ Amore” ma credo fermamente in un’ asimmetria dell’ odio e cerco di spiegarmela.
Dopo questa lettura un paio di buone spiegazione le ho:
1. Chi non mette la politica al primo posto – quasi fosse una religione - difficilmente potrà mai provare un “odio politico” sincero. Fa molto meglio chi già in partenza teorizza la “centralità della politica”.
2. Un conto è chi “odia” improvvisando in seguito ad una stizza estemporanea o sospinto dalla spirale degli insulti reciproci, un altro conto è chi odia coltivando e mettendo a punto con cura il suo sentimento forte dall’ avere alle spalle la migliore tradizione politica in materia.
Alessandro Orsini – Anatomia delle Brigate Rosse.
Anche in politica molti ritengono che la “comunicazione” conti.
Dato questo per assodato, come reagisce l’ intellettuale?
Ce ne sono di due tipi.
1. C’ è chi si adopera perché conti meno.
2. C’ è chi si adopera perché conti in favore della propria parte.
Per i primi sarebbe meglio valorizzare la “ragione”. La centralità della comunicazione dovrebbe essere rimpiazzata dalla centralità degli interessi: quando sono in ballo i nostri interessi le “trappole comunicative” s’ inceppano. Parola d’ ordine: più scommesse, meno retorica.
Per i secondi la cornice coincide con il quadro e l’ abbellimento con l’ abito. In poche parole: la “comunicazione è già sostanza”.
Voi con chi state?
In una serie di vecchi post me la prendevo con il neo-femminismo puritano. Il capo d’ imputazione era forte: “moralismo”.
Dico “forte” perché so che da quelle parti un’ etichetta del genere, che altrove sarebbe un vanto, è mal digerita.
In effetti, essere considerati dei “moralisti” non è molto “cool” al giorno d’ oggi, eppure non voglio dar l’ impressione che sia sempre un atteggiamento condannabile.
Vediamo allora di distinguere il “moralismo cattivo”, imho quello delle neo-femministe, da uno più accettabile se non auspicabile.
[“Moralista” = è colui che non si limita ad osservare una certa regola etica di comportamento ma fa di tutto, o comunque s’ impegna, affinché anche gli altri si uniformino alle sue preferenze]
***
Se la morale non esistesse, esisterebbero solo individui egoisti che perseguono razionalmente il loro bene personale.
Ma attenzione, anche l’ egoista razionale, grazie al miracolo laico dell scambio, puo’ fare del bene: Tizio, infatti, si arricchisce e soddisfa i suoi obiettivi quanto più soddisfa prontamente i bisogni di Caio.
Questo è tanto vero che per alcuni autori è tutto: la morale si produce in modo endogeno, fine del discorso.
Per questi autori non serve un “uomo morale”, figuriamoci se serve un “moralista”.
Ma questa logica incontra ostacoli non da poco che si manifestano nel cosiddetto dilemma del prigioniero:
Provate a leggere che che si tratta, vi accorgerete che in quei casi se mi comporto da egoista non costruirò mai “un mondo migliore”.
Ci sono molti dilemmi che derivano da quello originario. Sono tutti casi in cui la tentazione opportunistica (free riding) compromette il bene comune.
Questa critica non è tanto rivolta agli “egoisti”, in fondo costoro non hanno come obiettivo quello di migliorare il mondo in cui vivono, quanto a chi sostiene che un “mondo egoista” possa essere anche un “mondo migliore” per tutti.
Spesso la politica è chiamata in causa per raddrizzare queste storture, senonché quasi sempre la toppa che mette è peggio del buco.
La cosa migliore sarebbe allora l’ entrata in scena del cosiddetto “Uomo Etico” (UE).
UE segue dei principi etici e a quei principi uniforma con zelo i suoi comportamenti nella speranza di creare il fatidico mondo migliore.
Ebbene, possiamo dire fin da subito che non riuscirà mai a dar corpo alla speranza perché quei suoi principi, qualsiasi essi siano, libereranno interazioni in stile “dilemma del prigioniero”. Situazioni in cui per perseguire gli obiettivi di UE sarebbe meglio non adottare i principi di UE.
Ogni etica del “buon senso” (ama i tuoi figli, la tua famiglia, la tua patria…) è soggetta al “dilemma”, esattamente come la razionalità egoista.
Solo chi si pone per obiettivo diretto “la costruzione di un mondo migliore” (conseguenzialismo), evita il “dilemma”. Vivendo in un mondo dove il battito d’ ali di una farfalla scatena gli uragani, giusto uno “gnostico” cova progetti tanto ambiziosi. E i danni dello gnosticismo sono noti.
Oltre a essere proco verosimile, un’ etica conseguenziale ha altri difetti: conduce spesso a conclusioni ripugnanti ed è auto-rimuovente.
Scartata la politica e scartato il “conseguenzialismo”, per fortuna ci sono altri rimedi. Ma per sfortuna dobbiamo constatare che sono tutti rimedi-monchi.
Si può chiedere all’ uomo di coltivare un certo altruismo, ma l’ altruismo crea altro opportunismo. Si possono chiedere “test kantiani” (faccio solo cio’ che sarebbe un bene se facessero tutti), ma il test kantiano spesso è assurdo. Si puo’ invocare la fiducia nel prossimo, ma la fiducia nel prossimo non garantisce una buona uscita dal dilemma.
Alla fin fine il miglior modo per uscire da dilemma è quello di appellarsi ad una sincerità introspettiva.
Da quanto detto comprendiamo quale sia l’ ossatura di un’ etica ben costruita: sani prinicipi + riluttanza all’ opportunismo nei casi evidenti di free riding.
Ma un’ etica aprioristica (fondata sui principi) revisionata in questo modo non puo’ più nemmeno dirsi aprioristica visto che per evitare i comportamenti opportunistici ci tocca calcolare esattamente le conseguenze dei nostri atti.
E’ un ibrido!
Per costruirla gli aprioristi e i conseguenzialisti devono allearsi e rendersi conto che stanno scalando la stessa montagna da versanti diversi.
L’ ossatura della mia etica laica preferita per costruire un “mondo migliore” è all’ incirca questa: rispetto della proprietà + sincerità.
Trasparenza e Proprietà. E’ un’ etica piuttosto borghese, lo ammetto.
Oltretutto la “sincerità” e il culto della “proprietà”, spesso creano danni. Ma non esiste al momento una formula per delimitare la parte benefica!
In genere mi attengo alla mia “etica da un rigo”, a meno che qualcuno mi dimostri in modo evidente che ci sono inconvenienti. Esempio: la bugia pietosa porta benefici evidenti, e io rinuncio al mio “principio di sincerità”. I problemi di "common knowledge" impediscono alla "sincerità" di essere un principio assoluto. Un ubriaco alla guida costituisce un pericolo evidente, e io rinuncio al mio principio di proprietà.
L’ uso dell’ economia mi consente di ridurre al minimo le mie “rinunce” poichè l’ economia rende difficoltoso enucleare “evidenze” contrarie ai miei principi. E quando il calcolo delle “evidenze” si fa confuso ed incerto, l’ appello ai principi diventa decisivo.
Ed ora veniamo ad una conclusione possibile.
Penso che l’ atteggiamento moralistico abbia un qualche senso nel momento in cui crea ostacoli al free rider.
Ecco allora la risposta che cercavamo: il “moralismo buono” consiste nel sanzionare moralmente chi è aggressivo con la proprietà altrui, nonché l’ ipocrisia (insincerità) di chi sfrutta le situazioni stilizzate nel “dilemma del prigioniero”.
Tutto il resto è moralismo cattivo, il moralismo di chi al mercato compra le carote facendo la “predica” a chi preferisce le zucchine.
Derek Parfit – Reasons and Persons
Ombra mai fu
di vegetabile,
cara ed amabile,
soave più
Sì lo so, un bambino dovrebbe cantare come lui, un vero piccolo lord inglese.
Voce d' angelo, uditorio compunto, location prestigiosa, spartito alla mano, assistenza professionale, pronuncia curata, formazione impeccabile…
Ma a me oggi piace lei!
Americanina dal sangue impuro… tutta pepe e tutta sogni… arrivata fresca fresca da qualche reality dove ha combattuto all’ arma bianca… con le sue mosse da divetta dietro alle quali non riesce a sopprimere un sorriso da bimba e una felicità che sprizza…
Anche se siamo solo nell’ ufficio del babbo.
Per molti, almeno in via teorica, vige una sacra alleanza tra merito e mercato, per altri il divorzio è inevitabile.
In realtà i secondi confondono il concetto di “merito” con quello di “giustizia”.
Errore imperdonabile in un mondo dove l’ esistenza di molte risorse non è associabile ad alcun merito.
Se in una lotteria metto in palio un milione di euro, so già che finiranno nelle tasche di chi non vanta alcun merito nella produzione di quella ricchezza.
Detto questo, chi si occupa di merito è autorizzato a disinteressarsi della faccenda, una tasca vale l’ altra.
Ma chi dorme solo se “giustizia è fatta”, potrebbe pensare che sia auspicabile una distribuzione a pioggia del montepremi, in modo da neutralizzare i capricci della fortuna.
Negli affari umani, neutralizzare l’ influsso della fortuna è esercizio complicato, oserei dire temerario.
Faccio un esempio anche se mi sembra quasi inutile.
Alla fine della stagione calcistica il vincitore del campionato di calcio raccoglierà il frutto sia dei meriti che della fortuna. Per quanto le speculazioni si sprecheranno, non esiste bilancia in grado di discernere con esattezza le due componenti. Se esistesse, isoleremmo i meriti per riassegnare i titoli.
Circa quest’ opera di discernimento, esiste in proposito una legge ben precisa: chi vi si astiene non intaccherà mai i meriti in campo. In caso contrario i rischi di distorcerli irrompono.
Chi si limita al merito, così come chi identifica la giustizia con il merito, ha una scelta obbligata: non ostacolare mai la fortuna.
Il CONI e la Lega Calcio non sono istituzioni che ispirano grande fiducia, ma perlomeno una lezione elementare di buon senso l’ hanno appresa: non ritoccare mai la classifica finale in base a speculazioni elucubrate a tavolino.
E’ una lezione che la politica stenta ad apprendere, forse perché i politici ricavano la loro commissione d’ agenzia proprio sul “ritocco” di cui sopra.
A un certo punto, dopo pranzo, per ragioni a lui stesso poco chiare, il passeggiatore si alza come fanno i sonnambuli e comincia il suo giro per i marciapiedi della città.
Nel corridoio prende d’ infilata una fuga di stanze, poi una tromba di scale ed è fuori nell’ aria aperta, pronto ad inabissarsi nella sua Anversa, l’ ombrello aperto contro l’ eventuale turbinio dei fiocchi, la lente affumicata a scudarlo contro l’ eventuale l’ impudicizia del raggio meridiano.
Via, via, libero.
Libero dal risucchio della Casa, libero dalla gravità dell’ Ufficio.
Libero di sgabbiare dalla feriale riflessione logica come dal groviglio festivo dei sentimenti domestici. Libero dalle tirannidi in grande stile come dal dispotismo spicciolo.
Il mondo più banale gli viene incontro senza filtri e senza preliminari, le mute stranezze costruite dagli uomini si avvicendano davanti a lui; dominato da un’ insopprimibile coazione all’ordine, comincia ad abbozzare appunti nella testa cercando di domare quell’ anonimo ginepraio attraverso la scrittura mentale.
Riuscirà solo a trasformarlo in un cumulo di dettagli senza sbocco.
Procede frettoloso e leggermente curvo in avanti, i pensieri vengono armoniosi e svagati con la stessa facilità dei passi, fioccano false idee a cui è bello restar fedeli per un attimo, almeno fino alla svolta del semaforo laggiù in fondo.
Se il pensiero è troppo vivo, la bocca biascica qualcosa di simile ad uno scongiuro. Messi in salvo da una sorta di rapimento, la fuggevole e velenosa attenzione altrui non riesce a ferirci.
Sono commenti estemporanei sempre provvisori e sempre più estesi, ogni correzione apporta migliorie anche se non si capisce bene la perfezione quanto disti.
Sale l’ ansia.
Intanto, man mano che procede, la passeggiata scivola nel ricordo, come quelle vite che si pietrificano nella memoria trasformandosi in qualcosa di simile a mischie irrigidite nell’ attimo.
Un Fernet sorbito al bancone suddivide i due grandi silenzi di quel pomeriggio peripatetico.
Al vero passeggiatore le mete si rivelano solo una volta raggiunte: la Stazione, il Palazzo di Giustizia, e infine, fiutando tracce di sofferenza, lo zoo.
Lo zoo: è sempre bello, dopo una giornata trascorsa in perfetta solitudine, farsi sondare dallo sguardo prostrato delle belve che scrutano dalla penombra della loro cattività. Specie da quell’ orsetto lavatore che ci dedica la sua seria espressione mentre non smette di lavare sempre lo stesso pezzo di mela con una dedizione che, superando ogni ragionevole scrupolo, sembra quasi cercare col gesto una formula magica per evadere dalla gabbia.
E’ tempo di rientrare, la piccola parentesi subacquea volge al termine, il congedo a quei marciapiedi è uno strazio giornaliero che si ripete inveterato da anni.
Si rientra nel chiuso accolti dallo sfarfallio azzurrino dei televisori, si rientra sognando uditori immaginari a cui elargire l’ effimero frutto di una fantasia fiorita nei silenzi prima che la fatica della camminata ottundesse tutto.
Ancora poco e incontreremo un’ anima, stando sotto un tetto è più difficile evitarsi. Qualcuno con occhi troppo spalancati, qualcuno più rigido di un cadavere in abiti domenicali ci rivolgerà la parola, e qualunque cosa dirà avremo l’ impressione di dover fronteggiare una violenza verbale sconvolgente.
Cercheremo di sostituire la protezione assicurata in città dall’ anonimia con una nuova barriera costituita da un fare confuso, inaffidabile, da risposte laconiche e monosillabi smozzicati. Speriamo funzioni, speriamo di poter riguadagnare al più presto quella solitudine in cui abbiamo investito tutto.
…
Sebald è autore che più di altri ci ha spiegato quanto sia impossibile “scrivere” una passeggiata, ma, nel farlo, più di qualsiasi altro autore c’ è andato vicino.
Nessuno è stato tanto eloquente parlando di balbuzie, nessuno ha saputo decorare tanto bene un’ amputazione.
Una passeggiata, dunque. Compiendola, la creatività scatenata di una mente sensibile ci illude sui nostri talenti di “osservatore”. Una volta al desco i limiti affiorano e il crampo che blocca ogni predestinato non-scrittore (praticamente tutti noi) ci attanaglia fatalmente.
… di quell’ esperienza mi rimanevano nella testa solo abbozzi ormai inutilizzabili e mal fatti… li considerai ugualmente nel tentativo di dare loro indirizzi nuovi affinché prendessero ancora vita davanti ai miei occhi… nulla… la scrittura ora mi atterriva… eppure leggere era sempre stata la mia preoccupazione preferita… amavo starmene in compagnia di un libro fino a sera inoltrata, fino a che non riuscivo a decifrare più una sola parola e i pensieri iniziavano a girare in cerchio… la scrittura, sogno segreto, mi risultava invece di un peso tale che una sola frase era capace di assorbire la giornata prosciugandola di ogni gioia… avevo appena finito di buttar giù una di queste frasi imbastite con tanta fatica che subito si manifestava la penosa erroneità delle mie costruzioni e l’ inadeguatezza delle parole da me impiegate… se nondimeno, per una sorta di autoinganno, riuscivo talvolta a ritenere adempiuto il mio peso giornaliero, la mattina dopo, al primo sguardo gettato sul foglio, vedevo immancabilmente venirmi incontro errori, incongruenze e abbagli della peggior specie… poco o molto che avessi scritto, quando lo leggevo mi pareva sbagliato da cima a fondo… dovevo assolutamente riprendere tutto dall’ inizio… presto mi risultò impossibile azzardare il primo passo… simile ad un funambolo incapace di mettere un piede davanti all’ altro… avvertivo solo ondeggiare la piccola piattaforma sotto di me… i lumini che segnavano l’ inizio e la fine della corda da percorrere erano stati a lungo preziosi riferimenti, ora mi parevano esche maligne messe lì da una mente sofisticata per sviarmi… di quando in quando capitava ancora che un ragionamento si delineasse con perfetta chiarezza nella mia testa, ma, mentre cio’ accadeva, sapevo già che non sarei stato in grado di trattenerlo perché, appena afferravo la matita, le infinite possibilità della lingua, alla quale un tempo potevo abbandonarmi fiducioso, lo riducevano ora ad un’ accozzaglia di frasi insulse… non c’ era locuzione nel testo che non finisse per rivelarsi una penosa stampella, non c’ era parola che non suonasse svuotata e mendace… era come se in me scoppiasse una malattia latente da un pezzo… come se avesse preso piede qualcosa di ottuso e caparbio che, a poco a poco, avrebbe paralizzato tutto… dietro la fronte avvertivo già quell’ infame torpore che prelude al declino della personalità, sentivo di non possedere realmente né memoria né raziocinio… qualcuno me li aveva prestati per un attimo e ora tornava a riprenderseli…
W. G. Sebald - Austerlitz
L’ infelicità perfetta?… la battaglia di ogni giorno contro bambini cresciutelli…
La felicità perfetta? Nelle braccia della mamma!
Conservatori o progressisti? Americani o europei.
La risposta ovvia è qui documentata.
http://www.american.com/archive/2008/march-april-magazine-contents/a-nation-of-givers
E’ possibile che nel mondo reale esista una catena infinita di eventi?
La domanda non è peregrina perché il concetto di “catena infinita di eventi” è utilizzato per esempio come alternativa al concetto di Dio nell’ argomento cosmologico.
Dobbiamo a George Cantor quanto sappiamo sugli infiniti.
William Lane Craig ha notato che applicando alcuni teoremi cantoriani alla realtà naturale otteniamo risultati paradossali. Per esempio, procedendo all’ infinito indietro nel tempo costateremmo che gli anni sono più numerosi dei giorni:
Suppose we imagine the column of past years stretching away from our left eye infinitely far into the distance, and parallel to it, stretching away from our right eye, the column of past days, also receding infinitely far. The two columns should be aligned at the near end, starting at the present, and the members of the two columns should be matched against each other one to one. I can now explain the sense in which the column of past days is not larger than the column of past years: it will not stick out beyond the far end of the other column, since neither column has a far end
Siamo nel cuore del Kalam Cosmological Argument
aa
La crisi capita a fagiolo per ripetere che:
that last decade was a decade of unprecedented peace and prosperity across the globe
Complimenti a chi è vissuto accorgendosi della realtà.
Si dice che la pena di morte garantisca deterrenza, ma l’ evidenza è debole.
Si dice anche che assicuri un risparmio di costi. Vero, ma non nella misura che si crede considerando la serie infinita di appelli a cui accede il condannato.
Quanto alle questioi morali (“se lo merita”), ognuno ha i suoi principi.
Senza contare che non uccidere il condannato consente di riparare ai propri errori.