sabato 15 aprile 2017

Facebook e la qualità della vita

Perché su Facebook ci si insulta tanto?
C’è quello che insulta perché semplicemente “pensa a voce alta” sentendosi protetto da isolamento e anonimato, un fenomeno già noto dopo l’avvento dell’automobile.
C’è poi l’insultatore narciso che si inserisce in una catena di improperi credendo di possedere l’insulto più brillante, più creativo. Quello definitivo che metterà fine ad una spirale incivile che nessuno ormai sa più da dove sia partita.
C’è poi l’insultatore vitalistico, quello che insulta perché vuole “esserci”, perché vuol far parte di qualcosa, vuole dare il suo contributo, vuole iscriversi ad una fazione e vivere la sua vita.
C’è poi il meta-insultatore che, sapendo di essere bigotto, non vede l’ora di dare del “bigotto” a chi non è d’accordo con lui; chi sa di essere cervellotico griderà a chi lo contraddice che è un sofista; il dogmatico correrà a denunciare per primo il dogmatismo altrui. Per il meta-insultatore Facebook serve ad esorcizzare le sue paure.
Ma qui vorrei parlare di una quinta tipologia, si tratta dell’insultatore più sottile e forse più umano. Anche i suoi insulti sono più sottili e più umani, forse non potremmo neanche definirli “insulti”.
Qui non si parla di cavernicoli, qui si parla di insultatori con grande apertura mentale.
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Partiamo da una realtà che dobbiamo accettare: quando esprimiamo una nostra idea sentiamo quasi un dolore fisico nell’essere contraddetti. Anche se l’operazione è fatta con tutte le cautele del caso.
Magari su quell’idea abbiamo investito molto ed essere contradetti per noi ha un costo emotivo non indifferente.
Il dolore è esacerbato dalla dimensione  pubblica, e di solito Facebook dà l’illusione di agire in pubblico (anche se di fatto è quasi sempre un luogo privato, anzi, intimo).
L’insultatore “con grande apertura mentale” invoca la necessità di uno scambio di opinioni ma presto anche lui si accorge di quanto sia innaturale accogliere nel proprio seno il “diverso”.
Ebbene, come reagisce la persona dotata di grande “apertura mentale” di fronte ad un “dolore” che gli viene procurato senza che ci siano veri colpevoli? Come puo’ farlo cessare?
Di solito con una replica costellata di allusioni ambigue che lascino trapelare un’offesa. Ma si tratta di offese che devono apparire “en passant”, quasi delle sviste, dei lapsus, roba “dal sen sfuggita”. Non si tratta di insulti ma di segnali che introducano l’incertezza che un insulto è stato pensato e non detto. Un elaborato retorico talmente sofisticato da giustificare le dimensioni del nostro cervello di homo sapiens.
Di fatto questa replica è uno stop intimato al critico. Un invito criptato all’altro a non proseguire nella sua critica perché troppo dolorosa per noi.
Ci sono due canali attraverso cui l’insulto latente appesantisce il compito del critico.
Innanzitutto, chi ci insulta mostra di non considerarci, il che frustra e appesantisce gli sforzi del critico, i quali verranno intrapresi con la zavorra cognitiva del retropensiero di non essere considerati a dovere.
Poi, essendo umani, sentiamo a nostra volta l’esigenza di abbellire la  contro-replica con un contro-insulto, ma che sia altrettanto creativo e velato in modo che la discussione a cui teniamo possa essere salvata e continuare. Un’operazione, questa, che sottrae ulteriori energie cognitive altrimenti destinate al merito della critica, e che rischia di assottigliarlo al punto da vanificare l’intera operazione, da farla deragliare.
Ecco, questa doppia zavorra viene aggiunta al già gravoso compito di chi ha “osato” criticare. Il “criticato” lo sa e ce la mette volentieri affinché il critico desista e non tormenti la sua piaga.
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Secondo Derek Powazek Facebook ci rende più cattivi, ma si puo’  evitarlo.
Qualche dritta la elargisce nel suo saggio  “How Can Communication Technology Encourage Civility?”.
Molti internauti incontrano buone letture sulla rete ma lo fanno ripetendo a se stessi un mantra protettivo
… Don’t Read The Comments…
Entrare nei commenti potrebbe precipitarti in una bolgia infernale.
Tesi:
… My central argument is that good people can behave poorly in online situations, but civil behavior can be encouraged by design…
Una legge ben nota agli psicologi dice: “è il male che resta”. In internet sembra trovare parecchi riscontri…
… It’s a fact that bad experiences resonate louder and longer than good ones. That’s why you can read an inbox full of pleasant emails, but two hours later you’ll still be thinking about the single insulting one…
Un libro per approfondire la questione: “Bad Is Stronger Than Good”, di Beaumeister a altri.
Inoltre, nell’ ambiguità noi siamo più inclini a vedere il male.
… the human propensity for paying attention to negative input at the expense of positive input shows what a tall order increasing civility online really is…
Il male è anche contagioso e le mele marce difficilmente isolabili…
… In his 2009 study published in Research in Organizational Behavior, Will Felps found that one bad participant can have a negative effect on an entire group. His research was about real-life, in-person meetings, but it’s entirely relevant to online community…
Su internet esistono tre tipi di “mele marce”: il cattivo (insulta),  il pigro (liquida) e il pessimista (scoraggia).
… The Jerk insults others, the Slacker displays disinterest, and the Depressive Pessimist complains and says it’s all pointless…
Il contagio è sempre in agguato:
… The conventional wisdom said that groups are more powerful than any one individual, so one bad apple should not have much of an impact. Felps found the opposite. Groups with the bad actor performed 30 to 40 percent worse than groups without. In addition, the bad actors caused team members to emulate their behavior. When the actor was a slacker, others would slack. In short, our behavior is like a virus…
Nelle discussioni tra internauti un moderatore è essenziale:
… What this means online is that moderators should be in place to guard against negative participation, especially early in the conversation… I’ve found that the first comment effectively sets the tone for all that come after, so I recommend holding all comments in a queue until there’s a good standout comment, and then ensuring that comment appears first…
Più che castigare i cattivi paga premiare i buoni e stimolare la valutazione tra pari…
… rewarding good behavior is just as important as punishing bad behavior, and may be a more productive community management technique in the long run. These rewards can take many forms. Positive behavior can be rewarded with special attention… I encourage companies to create a featured area, where the best contributions are highlighted…  The seminal example of a peer-reputation system is eBay, where buyers can rate their sellers (and, originally, vice versa), but explicit ratings systems are easily manipulated…
Su internet siamo più cattivi anche perché manca lo sguardo umano
… internet discussions… many can participate but each is relatively unseen. We can be together virtually and alone in reality. Online conversation lacks the human gaze… I believe the lack of it is one of the contributors to the lack of civility online. In a study published in Biology Letters in 2006, Melissa Bateson et al showed that the cues of being watched can enhance cooperation…
Lo sguardo umano ci rende più cooperativi…
… Imagine a refrigerator in a common room in a workplace. Inside are unsecured beverages and an “honesty box,” where people who take drinks are supposed to put in money. Contributions are anonymous and voluntary, but expected. Now imagine an experiment where the honesty box had one of two photographs on it. One group saw a photo of flowers, the other saw a photo of a pair of human eyes. After 10 weeks, the results were calculated. The people who saw a pair of human eyes paid 2.76 times more on average…
In questo senso meglio che gli avatar riproducano il volto dell’utente…
Anche la grafica che ospita la discussione condiziona l’umore: gli angoli arrotondati o il colore dello sfondo incide non poco…
… The visual design of conversational spaces online can have a huge impact on the tone of the conversation… Using rounded corners in online design can go a long way toward making technology feel more approachable… My favorite study in this area is Ravi Mehta’s investigation published in the journal Science in 2009. In the experiment, participants were given the same tasks to complete on a computer. The only difference was that one group had a red background and the other had a blue background. The study showed that the red group did better at tasks that required attention to detail, while the blue group did better at tasks that required creativity and emotion…
C’è poi un fenomeno estremamente importante: internet ci espone a pareri avversi, ci bombarda di informazioni disorientandoci, ci fa perdere il controllo ci toglie sicurezze. Noi cerchiamo di reagire il più velocemente possibile per riprendercele, cerchiamo cioè di ricostruire i nostri schemi senza un’adeguata base informativa cercando di compensare le carenze di questo rimedio improvvisato con l’urlo.
Avere degli schemi è fondamentale nel gioco evolutivo…
… Evolution favors the ones that don’t get eaten, so seeing the grass move and assuming it’s a lion is a good thing…
Avere schemi ci consentano di fiutare il pericolo in assenza di informazioni ci guadagna la sopravvivenza. Forse viene da lì un certo istinto complottista: ipotizzare complotti e lobby consente di ripristinare schemi contraddetti all’apparenza dai fatti…
… Online, where we have much less social information (no physical gestures, no direct gaze), our brains work much harder to intuit meaning, and as a result, we see patterns where there are none. And we tend to see danger even when there isn’t any… we’re predisposed to make assumptions based on limited information, and respond in a “fight or flight” manner….
Chi perde il controllo (perché posto di fronte a fatti o notizie che fanno traballare i suoi schemi) è più avventato e più incivile nei giudizi…
… Jennifer Whitson did a fascinating set of experiments, published in Science in 2008, on patternicity and feelings of control. One experiment involved showing volunteers pictures of random static and asking them if they saw an image in it. Some of the volunteers were put into a “out of control” state. They were quizzed about subjects they couldn’t have known anything about or asked to recall a time in their lives when they felt out of control. The other volunteers were put into an “in control” state. Their knowledge was rewarded or they were asked to recall a moment where they were in control. The people in the “out of control” state were more likely to engage in patternicity– to see patterns where there were none… we frequently feel out of control when we’re online– applications freeze, networks lag, computers crash. Is it any wonder, then, that we perceive personal slights where there are none?…
Soluzione? Contare fino a 10. Avete un commento pepato o liquidatorio da postare? Fatelo decantare per un giorno. In questo non aiutano di certo i ritmi congestionati dei social che tendono ad escludere chi non coglie l’attimo.
Un altro rimedio è parlare dell’argomento parlando di sé: quando parliamo di noi abbiamo sempre il controllo, ci sentiamo più sicuri e quindi anche più calmi e civili.
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Ma la lezione non è facile da assimilate, tantoché più usiamo Facebook, peggio ci sentiamo.
Sembra ormai un fatto assodato.
Forse lo studio più completo in materia è quello condotto di recente da Holly Shakya e Nicholas Christakis
Cose che sappiamo già:
  • L'utente medio sta un'ora al giorno su Facebook.
  • Controllare l'utenza Facebook è la prima cosa che fanno al mattino.
  • Usare Facebook diminuisce i rapporti reali con le altre persone (anche se li aumenta in senso assoluto).
  • Usare Facebook riduce il tempo investito in attività reali che consideriamo “significative”.
  • Usare Facebook aumenta l'attività sedentaria.
  • Usare Facebook diminuisce la nostra autostima (poiché la gente mostra il meglio di sé, noi ne usciamo distrutti).
  • Migliaia di studi ci dicono che l'uomo prospera grazie alle sue relazioni sociali.
Dubbio: forse non è Facebook che ci rende infelici ma sono le persone infelici che utilizzano Facebook più spesso.
Alcuni sostengono che Facebook ci rende più felici quando rafforza le relazioni reali.
L’uomo prospera grazie alle relazioni sociali, lo sappiamo. Ma si tratta di studi condotti nel mondo reale, con relazioni faccia a faccia. Cosa pensare delle relazioni intermediate da uno schermo elettronico? Sono succedanee delle relazioni reali?
La risposta è no. L'uso di Facebook tende a peggiorare la nostra salute mentale e il benessere in generale della persona. Non solo, l’effetto negativo è legato alla quantità. Un effetto che la qualità non riesce a correggere.
Trenta giorni senza Facebook e la vita è più bella:
1) meno confronti e l’autostima cresce,
2) meno distrazioni e migliora il focus sui temi di reale interesse,
3) meno stimoli: meno esausti a fine giornata,
4) meno esausti: più energia per impegni imprevisti (che ci sono sempre), soprattutto nelle relazioni reali,
5) meno controlli occhiuti, ovvero più vita senza giudizio incorporato,
6) meno preoccupazioni di “aver fatto abbastanza”.
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