mercoledì 26 ottobre 2011

Chi fa per sè…

… forse non fa proprio per tre, ma…

Il lavoro di gruppo spesso è controproducente: consultarsi frequentemente con altri porta fuori strada:

A neat experiment at Nottingham University shows how consultation can be counter-productive.
They got subjects to say whether a couple of paintings were by Paul Klee or Wassily Kandinsky. The subjects were split into two groups. One group comprised individuals making their own decisions. The other comprised individuals who were assigned to teams of six and allowed to consult team members.
And members of the teams did worse. Whereas only 29% of individuals got both paintings wrong, a whopping 51% of team members did so - twice as many as you‘d expect by chance.
There was, however, no significant difference in the proportions getting both questions right: 38% of individuals versus 36% of team members.
Consultation, then, increases the chances of a bad decision, without improving the chances of a good one. What’s more, people don’t realize this; most said that they found the consultation process helpful.

Lisa Evanss

Il “lavoro di squadra” tende a essere sovrastimato, su questo punto la retorica ci ha lavorato ai fianchi per benino. Eppure ci sono parecchie patologie legate al pensiero di gruppodistorsioni ben note agli psicologi ma che nel fervore di molti proclami torna utile sottostimare.

Non voglio con questo attentare alle vacca sacra della cooperazione. Per carità.

Ce n’ è comunque abbastanza per farsi bastare la “cooperazione volontaria” respingendo strane idee comunitarie dal sapore utopico.

martedì 25 ottobre 2011

Le Università sono fatte per imparare? No. Prova n. 13

Tempo fa ci chiedevamo: ma perché l’ on line e l’ information technology non rivoluzionano il mondo delle università?

Sembra incredibile ma mia nipote frequenta l’ ateneo esattamente come facevo io: avanti e indietro sui treni, magari con un’ ora di lezione fissata al mattino e una al pomeriggio (le quattro in mezzo girovagando in cerca di un angolino per studiare che sia il meno scomodo e freddo possibile).

Eppure, standosene a casa, potrebbe assistere comoda (molto di più che in presenza) alle lezioni dei professori più prestigiosi del mondo. Riascoltarsele e studiare al calduccio nella sua cameretta cominciando da subito senza perdere tempo. Magari interagendo con una compagnia scelta. Magari ordinando, ripetendo e personalizzando gli ascolti come si crede.

A costi bassissimi, la crema intellettuale potrebbe far lezione a moltissimi studenti sparsi in tutto il mondo. Eppure una rivoluzione del genere non sembra essere affatto all’ orizzonte.

Nelle nostre Università, tutto scorre placido, esattamente come se niente fosse successo.

Si potrebbe fare a meno di gran parte della classe docente e di gran parte dell’ “hardware” universitario (immensi e prestigiosi palazzoni stipati di libri e dalla manutenzione costosissima).

Wary Meyers

Questa affermazione potrebbe far drizzare le orecchie, ma io non penso che il blocco innovativo sia da imputare esclusivamente a resistenze di “casta”.

La risposta all’ enigma, per quanto sgradevole, mi sembra invece piuttosto facile: evidentemente le Università hanno poco a che fare con l’ istruzione di chi le frequenta. Il loro obiettivo è un altro.

Ma d’ altronde, basta fare un minimo di introspezione per accorgersene.

Gran parte delle abilità richieste vengono acquisite sul posto di lavoro. Dài, guardiamoci negli occhi, per chi non è così? Il sapere acquisito all’ università, se mai c’ è stato, è da subito remoto e perduto per sempre.

Non voglio con questo insinuare che le Università siano inutili: operano pur sempre una costosissima cernita molto apprezzata dalle aziende.

Per esempio, il sistema universitario indica quali sono i ragazzi più docili, coscienziosi e conformisti. Almeno le università più dure.

Chi non lo sottoscriverebbe?: bisogna avere un’ indole del genere per sopportare anni e anni di duro studio.

Questa informazione, lungi dall’ essere secondaria, è molto valorizzata da chi assume (provate a portarvi in casa un semi-teppista lunatico, magari anche intelligentissimo).

Certo, il costo per ottenere la cernita di cui sopra è decisamente sproporzionato, ma è anche “nazionalizzato” e quindi questo genere di sprechi non interessa il datori di lavoro.

Le aziende, dunque, sono molto sensibili alle informazioni che ricevono dalle università, conviene sempre assumere (e pagare di più) un laureato piuttosto che un diplomato. Cio’ fa sì che la laurea divenga “obbligatoria”, specie quando non si pagano i servizi ricevuti. E per lo più questo genere di servizi non si paga o si paga in misura ridotta!

Chi non vede in tutto cio’ un colossale spreco? L’ unica soluzione sarebbe quella di impedire a gran parte degli utenti di fruire del servizio (test severi all’ ingresso o innalzamento dei contributi), in modo che avere certi titoli o assumere gente con certi titoli non sia più sentito come “obbligatorio” visto che certi titoli sono riservati a un’ élite.

Quando il pc sostituirà la scuola e la domanda da cui siamo partiti non avrà più senso, forse, sarà un bel giorno.

p.s. che all’ Università non si vada né per imparare, né per insegnare è una delle tesi su cui lavora indefesso il “department of isn’t”.

lunedì 24 ottobre 2011

Il fardello dell’ Uomo Bianco

… il colonialismo ha portato al razzismo, il razzismo alla discriminazione, alla xenofobia e all’ intolleranza… gli africani, i popoli di discendenza africana e asiatica e i popoli indigeni sono stati vittime del colonialismo e sono tuttora vittime delle sue conseguenze…
Dichiarazione di Durban della Conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione e l’ intolleranza (2001)
C’ è da fidarsi di una “conferenza mondiale contro il razzismo” popolata da burocrati carrieristi in preda a mille bias che puntano in ogni direzione tranne che verso i fatti? Non siamo di fronte al solito caravanserraglio su cui incombe la presenza falsificante dell’ ONU e della storia messa ai voti?
Via dalle “puzze della politica” e verso il “profumo della storia”, mi volgo a uno dei maggiori storici contemporanei
… l’ Impero Britannico ha modellato il mondo moderno in modo così profondo che noi a volte tendiamo a darlo per scontato… senza la diffusione del dominio inglese è difficile pensare che le strutture del capitalismo liberale sarebbero entrate a far parte con tale successo in tante diverse realtà economiche… gli imperi che adottarono modelli alternativi – il russo e il cinese – imposero ai popoli assoggettati sofferenze incalcolabili… senza l’ influenza del dominio coloniale britannico, è difficile credere che le istituzioni della democrazia parlamentare sarebbero fiorite nella maggioranza degli stati del mondo… nel diciannovesimo secolo l’ Impero è stato un pioniere del libero commercio, della libera circolazione dei capitali e, con l’ abolizione della schiavitù, del lavoro libero… l’ Impero ha investito somme immense nello sviluppo di una rete globale di comunicazioni… ha diffuso e imposto a forza la legge in vaste zone dove regnava il caos… pur combattendo molti conflitti isolati, ha garantito un periodo di pace globale ineguagliato prima e dopo… è incredibile pensare come l’ Inghilterra potesse regnare sul mondo con una spesa per la difesa relativamente contenuta (3% del PIL)… l’ impero favorì l’ emigrazione da e verso la madre patria, l’ emigrazione, a sua volta, concorse a migliorare le condizioni di chi stava peggio… anche nel ventesimo secolo, le alternative al modello inglese rappresentate dalle potenze tedesca e giapponese erano chiaramente peggiori… senza impero non ci sarebbe certamente stato tanto libero commercio tra gli anni quaranta del XIX secolo e gli anni trenta del XX… privarsi dell’ impero nell’ Ottocento avrebbe voluto dire tariffe doganali molto più alte ovunque… e basterebbe vedere il resto del mondo per capacitarsene… nonché le conseguenze catastrofiche del protezionismo allorché l’ impero svanì… il vantaggio economico fu dunque elevato sia per la madre patria che per il resto del mondo… lo testimonia anche la grande convergenza dei redditi prima del 1914… consideriamo anche il ruolo dell’ impero britannico nell’ esportazione di capitale verso i paesi più poveri… l’ imposizione della common law fu senz’ altro più proficua e flessibile rispetto alla legge del codice civile francese… ma la Gran Bretagna fu avvantaggiata anche dal fatto di arrivare buona ultima e occupare paesi con una debole cultura… laddove la cultura e lo sviluppo erano forti, le tentazioni del saccheggio presero il sopravvento… in breve, l’ Impero Britannico ha dimostrato che quella imperiale è una forma di governo internazionale in grado di funzionare bene con reciproci vantaggi…
Niall Ferguson – Impero
Insomma, i serenissimi monarchi forgiati nel mito erano fiaba per i poveri di spirito, cio' non toglie che quelli reali fossero così disprezzabili come l' inerzia passiva di una pigra abitudine ci induce a credere…
Super Realistic Disney Princesses
Un libro provocatorio che lascia il libertario pacifista appiedato e senza bussola: da un lato aborre ogni interferenza nella vita (politica) altrui, dall’ altra non puo’ negare che se i valori a lui più cari hanno trovato una qualche diffusione nel mondo, questo lo si deve anche all’ azione di un Impero relativamente illuminato come quello britannico.
Come riconciliare allora il suo innato desiderio di “vivi e lascia vivere” con i buoni risultati ottenuti grazie all’ “esportazione con le armi della civiltà vittoriana”?
Esiste o non esiste il" “fardello” (= dovere di civilizzare chi è rimasto indietro) di cui parla - in modo oggi inaccettabile nella forma ma ancora attuale nella sostanza - il bardo imperiale Rudyard Kipling?:
Caricatevi del fardello dell’ Uomo Bianco
Inviate i vostri uomini migliori
Costringete i vostri figli all’ esilio
Al servizio dei vostri prigionieri
Al servizio, sotto il peso del giogo
Di gente irresoluta e selvaggia
Dei vostri torvi sudditi appena catturati
In parte diavoli, in parte bambini
Caricatevi il fardello dell’ Uomo Bianco
E con esso della ricompensa antica:
Il biasimo di quanti rendete migliori
L’ odio di quanti proteggete…
Sembra quasi che alla domanda di cui sopra si debba rispondere un risoluto “no” per poi agire come se avessimo risposto “si”.
Sempre la solita (e inaccettabile) storia.
Niall Ferguson - Impero

sabato 22 ottobre 2011

Contro-non-informazione

Al Corriere della Sera c’ è solo una persona che lavora in modo più approssimativo di Luigi Offeddu: il titolista degli articoli di Luigi Offeddu.
Recentemente, l’ ineffabile coppia di “creativi” ci ha reso edotti che in Ungheria la schiavitù degli zingari è diventata ormai legge di stato:

I ROM AI LAVORI FORZATI INIZIATIVA CHOC IN UNGHERIA

Probabilmente il giornalista non avrebbe voluto farlo, ma purtroppo, dopo un titolo tanto bello e accattivante, è stato costretto anche a scrivere l’ articolo e in esso qualche notizia in più ha dovuto pur fornirla. Si viene così a sapere che l’ espressione “lavori forzati” ha un significato innovativo; vuol dire, tradotto, che il disoccupato perde il sussidio statale se rifiuta le offerte di lavoro ricevute. E in genere non gli offrono di dirigere una banca. Procedura alquanto comune anche nei paesi più evoluti (non da noi, ma per il semplice fatto che spesso un sussidio del genere nemmeno è previsto).
Un significato simile, più che “innovativo” è… “inventato”, ne convengo.
Ma che dire dell’ odioso taglio razzista di una legge del genere?
Sbollite pure il vostro odio. Sempre nel corpo dell’ articolo, ben occultata in una dipendente relativa di terzo grado, c’ è l’ affermazione che potrebbe tranquillizzarvi: la norma riguarda i disoccupati sussidiati nel loro complesso, e gli zingari c’ entrano solo perché costituiscono una fetta importante della categoria.
Intanto, mentre noi poveri scemi cerchiamo faticosamente di mettere insieme le tessere della “vicenda choc”, quelle volpi di Offeddu e del suo titolista ci hanno indotto ancora una volta a leggere l’ ennesimo articolo-trappola. Accidenti a loro e a me che non imparo mai la lezione.
Stamane, poi, ho avuto quasi paura che l’ ineffabile Offeddu avesse trovato un concorrente intestino nella Mangiarotti, altra cronista del Corrierone. Quest’ ultima ha raccontato con phatos una storia simile alla precedente, accaduta però nei confini patri: a Settimo Torinese. Il Comune offre lavoro ai disoccupati, ma chi rifiuta… zac… perde il sussidio.
In lontananza, si sente anche nella Mangiarotti la voglia del buon giornalista di evocare scene in cui, messi ai ferri, alcuni omoni in pigiama a strisce picconano le rocce trascinandosi dietro palle di ferro da una tonnellata. Fortunatamente, la giornalista si riprende fino al punto di accennare alla fonte d’ ispirazione: il “modello tedesco di welfare”. No, un errore del genere Offeddu non l’ avrebbe mai commesso, dovendo proprio citare il rigore teutonico, come minimo una strizzatina d’ occhio e un piccolo riferimento ad Auschwitz l’ avrebbe buttato lì in qualche modo.
***
In ospedale e nel corso della mia convalescenza ho letto spesso il giornale uscendone spossato, frustrato e impoverito da lunghissime e infruttuose rassegne. In qualche modo è stato comunque istruttivo, perché l’ avvilente esperienza mi ha elargito una consapevolezza per me nuova: se nelle dispersive società di inizio millennio esiste una vera e propria perdita di tempo, questa riguarda la lettura dei giornali. Non avevo mai notato quanto poco siano in grado di darti i giornali, forse ancora meno della televisione. E parlo dei più blasonati (Corriere, Stampa, Repubblica…), mica dei rotocalchi spazzatura. Se solo ne stampassero una copia a settimana di pari mole (ma forse anche, oso dire, una all’ anno) il nostro “aggiornamento” non ne risentirebbe granché, anzi, forse migliorerebbe. Ricordo una ricerca da cui risultava che i broker di borsa più informati e efficienti erano quelli che contingentavano rigorosamente la lettura dei giornali di settore.
Una società civile e laboriosa dovrebbe limitarne la circolazione. Invece li finanzia!
La cosa vi suona strana? Anche a me. Ma vi assicuro che non sono l’ unico a pensarla così.
dscn0392
p.s. con queste considerazioni, si badi bene, non voglio negare la funzione di cagnolini di compagnia che rivestono i giornali; a tutt’ oggi, mentre trangugio cappuccino & brioche, non riuscirei a privarmi del giornale e del modo seducente in cui fa ronzare i titoli nel mio cervello semicosciente (specie quando intacco la crema).

venerdì 21 ottobre 2011

La Vergine delle pernici ci benedice con gli occhi

Andrej Sokurov – Arca russa

Come visitare un museo in epoche come la nostra in cui tutto scarseggia (tempo, calma, concentrazione…) tranne la materia prima?: nessuno puo’ accusarci di aver trascurato la questione, ma ora urge appendice.

L’ Hermitage, autentico cratere che erutta bellezza e ribolle genio, puo’ essere visitato, per esempio, imbarcandosi sul caparbio piano sequenza del regista russo Andrej Sokurov. Sarà una crociera indimenticabile.

Primo consiglio: convertirsi prima di obliterare l biglietto.

Com’ è mai possibile camminare con profitto in un museo europeo senza farsi cattolici almeno per il tempo della visita?

Secondo consiglio: assumere un tono elitario.

Dovete fare dello sfarzo un bisogno primario e del lusso un elemento di sostentamento. Inorridite all’ eguaglianza e tenete sempre il naso arricciato e all’ insù ostentando trascuratezza per la formicolante e maleodorante plebe che si agita epilettica ai vostri piedi. A ogni europeo la cosa dovrebbe risultare facile, non si tratta in fondo di democratici che di notte rimpiangono la monarchia? Non si tratta di umanità che sogna un mondo rallentato da riposanti rituali tonificatori dell’ animo, un mondo dove ci si sapeva prendere il tempo per salutare, pranzare, chiedere scusa (nel video sotto le scuse dello scià di Persia allo Zar), lodare, morire…

Senonché, percorrendo i saloni del museo di Pietroburgo, il passato ci frana addosso da ogni lato rischiando di polverizzare le chimere, anche se ci siamo immunizzati iniettando fede e sangue blu nelle vene. Soccorre a questo punto l’ amico Sokurov. Sotto la preziosa egida del Maestro, l’ inevitabile elemento dispersivo di queste rassegne eteroclite (fonte di tanto malessere per un visitatore che - ancora contaminato dallo scrupolo pedante di secoli lunghi e lenti – pensa più a cio’ che perde che a cio’ che degusta) si trasforma in levità che rigenera lo spirito.

Con lui abbiamo l’ impressione di non perderci più niente, nemmeno i famosi gatti dell’ Hermitage. Siamo api laboriose che svolazzano da un fiore all’ altro cariche di nettare.

Non male il cambio di registro per un autore segnalatosi in precedenza come esperto nell’ imbalsamazione.

Evidentemente la sua tavolozza è estesa e consente di attingere colori molto differenti tra loro.

L’ indolenza slava, poi, è un toccasana per surfare sulla bellezza (quando è troppa), per schivare la pesantezza dei capolavori che incombono da ogni parte. Dovete pensare che un odore d’ olio e di cornici - fonte di nobili emicranie - ammorba chilometrici corridoi privi di piazzole e valvole di sfogo: mai una banalità, una pausa pubblicitaria, un mikebongiorno… sempre in vetta, sempre in vetta con il respiratore artificiale.

Fortunatamente, il nostro duce è maestro nel “compensare”: alla bellezza stagnante del museo si contrappone il petulante brio dei dialoghi ondivaghi che si intersecano su più piani, una vera polifonia del pettegolezzo punteggiata da splendide allucinazioni sonore quanto mai pertinenti: pianoforti, orchestre, cembali… sempre con la madre Russia sullo sfondo.

E’ un trionfo del flusso e del deflusso (vedi scena finale: l’ uscita dal ballo), un apoteosi dell’ amalgama, siamo tutti coinvolti in un avvolgente abbraccio rubensiano, e a una grassa pennellata rubensiana assomiglia anche il piano sequenza su cui stiamo in arcione dall’ inizio alla fine (battuti tutti i record!).

Come se da dietro le quinte una Vergine delle pernici mettesse in comunione tutto cio’ che addocchia.

madonna

Spente le luci della ribalta, rientriamo poi mesti nei nostri alloggi seriali, Un dubbio ci assale: siamo stati esposti alla bellezza o alla rappresentazione della bellezza? Lasciamo al filosofo perdigiorno, protagonista del film, il compito di dipanare la matassa; ora meglio appisolarsi alla svelta, il telefonino vibrerà alle 6.38 e - in questo mondo di scarsità da cui la Vergine troppo spesso distoglie lo sguardo - ho i minuti contati per raggiungere il diretto delle 7.22 al terzo binario. Ci sarà il solito sciopero del Venerdì?

giovedì 20 ottobre 2011

Rock tributario

I ciapp-ter 11 in “amore indeducibile”:

Department of Isn’t

David Stove – Darwinian fairytales
Ricordate David Stove?… Qualcuno ha detto che leggerlo è come veder danzare Fred Astaire. Ebbene, ho voluto concedermi un giro di walzer in sua compagnia.
In questo libro lo sfavillante filosofo non nasconde la sentita disistima che nutre per certo darwinismo e in genere per quelle teorie che hanno sempre una risposta a tutto; il che, ci viene detto, è un pessimo segnale per chi ambisce allo status di “scienza”.
Sono le cosiddette puppet-theory: voi siete pupi manovrati da un invisibile puparo. Che poi il puparo sia l’ “inconscio”, la “classe” o i “geni”, poco importa.
Non di rado, si osserva, quando il paradigma darwiniano incontra difficoltà nel rendicontare i crudi fatti, l’ adepto finisce per prendersela con i fatti stessi e passa repentinamente quanto tacitamente dal registro relativo all’ “essere” a quello relativo al “dover essere”.
Purtroppo di fatti che “creano problemi” ce n’ è una caterva. In questo voluminoso tomo ci si limita a prendere in considerazione quelli che iniziano con la “a” (aborto, alcolismo, altruismo, ascetismo, adozione…).
Precisiamo solo una cosa per non ingenerare equivoci: il libro non parla di biologia, non s’ indaga sull’ origine della specie. Ci si limita a far notare come i caposaldi della teoria di Darwin non spieghino affatto la storia conosciuta dell’ uomo (e dici poco!), limitandosi ad alternare verità ovvie a scioccanti falsità, roba a cui nessuna persona istruita potrebbe mai prestare fede in modo serio. A meno che non faccia finta, il che capita spesso, specie tra i più preparati.
L’ interesse è dunque sull’ “uomo” e sulle “società umane”. Ovvero, in termini darwiniani, su sociobiologia e psicologia evolutiva.
Risiede in questi saperi un dilemma genuinamente darwiniano, provate a pensarci: da un lato l’ evoluzionismo è maledettamente plausibile, dall’ altro la vita dell’ uomo come la constatiamo non è affatto quella sfrenata competizione per sopravvivere che dovrebbe essere.
Ryan McIlhinney neo luce dei fumetti
Come riconciliare tessere che non vogliono sapere in alcun modo di incastrarsi?
C’ è chi si limita a convivere con il dilemma: si tratta di coloro che hanno frequentato un buon college e non se la sentono di rinnegare la prima affermazione (gliel’ hanno instillata con dovizia di particolari persone tanto distinte e a modino, e ora ne vanno molto fieri). Cio’ non toglie che, per quanto miopi, abbiano ancora occhi sulla testa per vedere confermata anche la seconda.
Sto parlando dei “soft man”.
L’ “hard man”, invece, ingaggia la sua battaglia personale con i fatti: l’ uomo “dovrebbe” competere di più per la sua sopravvivenza, altro che balle! Al diavolo ospedali, preti, soldati, filantropia!… se mandiamo “al diavolo tutto”, i conti quadreranno.
Nello stesso Darwin covava probabilmente un “Hard man”. La nipotina Gwen Ravatar, nel suo libro di memorie, ritraeva un nonno completamente privo della capacità di relazionarsi con persone dall’ umile condizione, dalla salute precaria o dallo spirito religioso. Come escludere che fosse all’ opera una sorta di rimozione tesa a “far quadrare i conti”?
Infine c’ è il “cave man”: secondo lui una volta l’ uomo “lottava” egoisticamente per la propria sopravvivenza. “Una volta”, oggi il giro del fumo è ben diverso: ci siamo civilizzati e certi e cose non si fanno più.
Quando parla il “cave man”, l’ “hard man”, per quanto suo correligionario, si sente mancare e mette una mano sul volto in modo da mascherare lo scoramento, poi scalpita e diventa viola dal livore. Come dargli torto: tirare una riga e dire che “la teoria vale fino a qua” getta tutto nel ridicolo e sortisce un effetto controproducente.
Tutto, in fondo, puo’ essere ricondotto al problema dell’ altruismo. Purtroppo circolano tra noi uomini che hanno tutta l’ aria di essere altruisti… e questo non è ammissibile!
Il fatto che esista qualcosa del genere è piuttosto imbarazzante e come dice solennemente Wilson (suscitando i frizzi di Stove): “la cosa richiede ulteriori approfondimenti”.
Il dott. Dawkins non riesce per esempio a rassegnarsi al fatto che mamma gibbone s’ intristisca allorché un’ altra femmina del branco gli rapisce la prole per adottarla. Ma come? La pratica è diffusa da sempre, il “rapito” sopravviverà altrove concedendole la libertà di accoppiarsi nuovamente riproducendosi prima del previsto. Meglio di così?! Eppure la mamma “liberata” si aggira melanconica e non trova pace. E non trova pace neanche il dott. Dawkins che si rigira a sua volta nel letto sudato in cerca di riannodare fili che ormai vanno per conto loro. Pensa al suo giocattolino tanto bello che quella stupida scimmia ha disfato inopinatamente. Per parafrasare Wilson: “la cosa richiede ulteriori approfondimenti”.
Ammettiamo di stare uno di fronte all’ altro carichi del nostro egoismo darwiniano e ammettiamo che la mia azione dipenda dalla tua e viceversa… e viceversa, e viceversa, e viceversa… In questo gioco di specchi la conoscenza è limitata e in una condizione del genere, non si sa affatto come sia meglio agire, cosicché qualsiasi strategia egoistica conserva una sua plausibilità, anche la strategia di “comportarsi come un altruista”. Puo’ essere strategica persino la capacità di resettare la propria coscienza per depurarla dalle volizioni egoistiche dimenticando così chi si è realmente in origine.
Seguendo una traccia del genere è facile spiegare in termini egoistici l’ altruismo, anche quello più sentito e sincero! In altri termini: noi siamo sinceri ed esprimiamo desideri autentici solo quando siamo egoisti, il resto (quello che non rientra nello schemino) è pura illusione creata ad arte. Roba che noi crediamo di fare e di vedere ma che non esiste (in quanto non contemplata).
Detto questo, non abbiamo risolto però un bel niente.
Abbiamo solo dimostrato che, in termini darwiniani,… possiamo spiegare tutto!
Se siamo a corto di spiegazioni e - forse perché siamo un po’ cinici amiamo l’ allure darwiniana - possiamo pescare questa “spiegazione” tra le molte disponibili sul mercato. Se abbiamo invece altri gusti, ci serviremo presso un’ altra bottega. Ma cio’ non ci evita di tornare alla considerazione inziale: avere una teoria che spiega tutto a priori non è certo un buon segno per chi ambisce fare della scienza.
Anche il Santo in fondo sa benissimo che rischia sempre l’ esibizionismo (banale verità). Tutti lo sanno, ma pochi honest truth seeking negherebbero che esista anche solo in piccola parte qualcosa come la santità! Negarlo equivarrebbe ad affermare una scioccante falsità. E basta una parte davvero piccola per mettere in crisi i bulldog di Darwin.
Ricordo che Tyler Cowen prendeva amabilmente in giro il suo collega evoluzionista Hanson dicendo che lo avrebbe nominato a capo del Department of Isn’t”.
Infatti, quando l’ evoluzionista integrale non riesce a darsi ragione di una certa azione umana che si prefigge X, dice che in realtà si prefigge Y: si fa una certa cosa ma in realtà si vuole camuffare l' intenzione di farne un’ altra. Ed è proprio cio’ a cui si dedica giorno e notte il vecchio buon Robin:
Food isn’t about NutritionClothes aren’t about ComfortBedrooms aren’t about SleepMarriage isn’t about RomanceTalk isn’t about InfoLaughter isn’t about JokesCharity isn’t about HelpingChurch isn’t about GodArt isn’t about InsightMedicine isn’t about HealthConsulting isn’t about AdviceSchool isn’t about LearningResearch isn’t about ProgressPolitics isn’t about Policy… no sex?  Can that somehow be signaling to get more sex?…
Il che in parte è senz’ altro vero, non bisogna essere ingenui. Ma solo in parte!
La parte che manca, ci dice Stove, è un bello sbrego proprio nel bel mezzo di una teoria per il resto tanto carina come quella darwiniana.

mercoledì 19 ottobre 2011

La si spara sempre molto meno grossa di quanto si vorrebbe

C’ è chi odia le generalizzazioni e te ne fa una colpa quando le introduci nella discussione; spesso si tratta di interlocutori che, forse perché molto concentrati su se stessi, cadono facilmente vittime della cosiddetta “subjective validation”.
In altri termini, devono personalizzare tutto, anche quando il discorso ha senso solo se fatto “in generale”.
Non c’ è pensiero rigoroso che non ricorra a generalizzazioni e approssimazioni, e con questo non voglio dire che saper “leggere” una generalizzazione sia facile.
Sì, perché chi rifiuta d’ istinto le “generalizzazioni”, spesso, non sapendo bene cosa siano e come debbano essere trattate, si sente indebitamente offeso quando se le trova di fronte in tutta la loro apparente sgradevolezza.
Sui blog un po’ frettolosi come questo (ovvero compilati a tempo perso nella pausa caffé), capita spesso di fare affermazioni generali dal carattere molto forte.
Le DONNE sono meglio degli UOMINI nel fare X.
I BIANCHI sono meglio dei NERI nel fare Y.
I RICCHI svolgono meglio dei POVERI il compito Z.
E via dicendo.
Ma attenzione nel valutare come scioccanti queste uscite, si tratta pur sempre di classificazioni dalla valenza “statistica”, bisogna intendersi e saperle leggere.
Se dico che i “viola” adempiono al compito X meglio dei “verdi”, ho in mente quasi sempre una relazione del genere:
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[sull’ ascisse misuro la prestazione e sulle ordinate le frequenze]
Ammettiamo adesso che “viola” corrisponda a “uomini” e “verde” a “donne”.
Ammettiamo poi che si misuri l’ attitudine a evitare errori da subjective validation.
Ebbene, in questo caso dire che “gli uomini (statisticamente) eludono meglio delle donne l’ errore da subjective validation” è perfettamente compatibile con l’ affermare che“esistono molte donne che eludono molto meglio di molti uomini l’ errore da subjective validation”.
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P.S. Spero che i chiarimenti forniti siano utili anche ad apprezzare in rilassatezza la fulminante quanto famosa barzelletta: Lui: “voi donne personalizzate sempre tutto!”. Lei: “io no”.

DISCLAIMER RDP: Ragiona in termini di Distribuzione Probabilistica

martedì 18 ottobre 2011

Apprendistato nelle tenebre

Stephen Crane – Il segno rosso del coraggio

… apparve subito chiaro che ben presto un dio gonfio di sangue si sarebbe satollato…

… considerò le minacce in agguato nel futuro, e non gli riuscì di vedersi dritto e impavido al centro di esse… si ricordò delle immagini di gloria a spada sguainata, ma nell’ ombra dell’ imminente tumulto sospettò che si trattasse soltanto di quadri inverosimili…

Una delle esperienze più forti la vivi quando constati con lucidità e nel breve volgere di un attimo – magari dopo anni di riflessione anche esagerata su di te stesso – che non sai bene chi sei, che non sai bene con chi hai a che fare e se puoi veramente contare su di te.

Capita di solito alla vigilia di un evento traumatico. E’ una sensazione che ho sperimentato prima della mia recente operazione chirurgica e che, nel libro letto in ospedale, prova anche il “soldatino blu” Henry Fleming. Lui non attende l’ accensione dei faretti in sala operatoria ma, tra conati di vomito e sorsate di rum, il segnale della carica che lo proietterà verso verso un trattamento privo di anestesie e forse nelle braccia della morte.

Chi sarò? Sarò un pavido? Un coraggioso? Un temerario?

Come per incanto diventi una variabile ignota a te stesso. Di fronte la “disastro” imminente le tue consuete leggi di vita non valgono più, quel che sapevi di te cessa di essere importante. Sei assalito da timori di stupidità e incompetenza. Come nella prima gioventù, devi rifarti un’ esperienza partendo da zero.

Ti isoli, cerchi di cavare dal cilindro risposte formidabili o massime che ti possano trarre d’ impaccio con un colpo da maestro. Ma non le trovi, il momento si avvicina e annaspi.

Capita spesso, non si creda. Specie in certi temperamenti che hanno fantasticato molto in passato e ora sono costretti al contatto incandescente con la realtà.

Henry apparteneva di diritto alla razza dei sognatori a occhi aperti, leggeva libroni come l’ Iliade agognando - e disperando - di assistere e partecipare attivamente a combattimenti simili a quelli dei Greci. Ma gli toccava con rammarico di vivere in un mondo in cui gli uomini erano – purtroppo - “migliori”, o comunque più timidi. Tutti. Tutti dei gentili timidoni tranne (forse) lui, il taciturno Henry.

Nel corso della sua “vita in utero” trascorsa al paesello, affrontava spesso i discorsi sulla guerra, anzi, li cercava e li provocava, specie con chi era di opinioni opposte alle sue. Una volta scatenato il dissenso, era davvero piacevole crogiolarsi in una discussione burrascosa certi che il proprio movente etico fosse inattaccabile. Viveva lavorando ogni giorno alla frase che avrebbe detto alla mamma al momento del distacco per l’ arruolamento volontario.

Ma poi, una volta al fronte, rintronato dal rombo del cannone, percorrendo i bordi più prossimi al mostruoso alterco guerresco, lambito dai primi proiettili che cominciano a fischiare mordendo i rami come se fossero mille minuscole accette, fu preso di mira da pensieri molesti e vigliacchi che allontanò a fatica e con vergogna.

Purtroppo tornarono. Cadde preda di un logorante tormento e cominciò per lui la battaglia più impegnativa, quella sul “fronte interno”. Sono battaglie che si svolgono nella mente ma che non si vincono mettendosi seduti e rintracciando in un pensiero la chiave risolutrice dell’ enigma.

In questi casi la propria vicinanza diventa scomoda… dopo tutti i ricami della gioventù, eccoti in compagnia di un probabile fifone. Si prova di tutto per verificare e disconfermare , ci si misura sul metro dei compagni ma senza cavare un ragno dal buco. Si sta allora in disparte occupati in un dibattito estenuante quanto inane con se stessi.

Dopodiché, l’ evidenza dei fatti: Henry è un coniglio, Henry scappa non visto a gambe levate. Corre nei boschi senza minimamente sapere da che parte sia la salvezza, gira intorno, qualcosa di simile all’ istinto delle falene lo tiene vicino alla battaglia. Una strana fortuna fa in modo che gli ostacoli davanti a lui cadano per trasformarsi in aiuto.

DeviantArt user Santani

Nel corso della fuga senza meta, il dibattito esistenziale è rimpiazzato ora da una preoccupazione non meno impellente: come sopportare le occhiate scrutatrici dei compagni mentre si cerca di mettere in piedi qualche storiella giustificatrice della propria condotta? Ma in questi casi non esistono storie a cui si possa credere; le si imbastisce con lena accorgendosi che la propria mente è confusa e debole per qualsiasi operazione tranne che per scovare implacabilmente i punti deboli di quei patetici raccontini.

La sanzione sociale è una cappa terribile che incombe nelle società puritane. In altre storie una lettera scarlatta condannava, in questa una ferita incidentale al capo (il segno rosso del coraggio) salva.

Il finale è bellissimo; anzi, di più, è larochefoucauldiano: Henry viene accolto con onore e curato nelle file del suo reggimento, la vigliaccheria di Henry non potrà mai essere ricostruita da nessuno e lentamente svanisce anche nella mente del protagonista, è come non ci fosse mai stata.

Aveva commesso i suoi errori nelle tenebre… e quindi era ancora un uomo…

Ma non è tutto, la condizione periclitante si trasforma d’ incanto in una condizione privilegiata: Henry era stato in completa balia della sorte, e solo nelle mani della sorte un uomo diventa “un uomo esperto”. Quello che fino a un attimo prima veniva ritenuto da Henry un infamante curriculum, ora gli consente di darsi arie e atteggiarsi spontaneamente a veterano.

La lezione ricevuta è chiara e ti proietta dritto dritto nell’ età adulta: molti obblighi della vita si possono facilmente eludere, la legge dei compensi è indolente e cieca. Era stato nel bel mezzo di qualcosa di “mostruoso”, ma i “mostri” non colpiscono con precisione.

La vita è bella! Ma soprattutto è molto più facile del previsto. Forte di questa nuova autostima, Henry combatterà le battaglie a venire da vero eroe, e consacrato come eroe tornerà al paesello.

Recessi della coscienza di henry a parte, restiamo noi gli unici testimoni di qualcosa che non riusciamo nemmeno a considerare una vigliaccheria. Forse era solo una coscienza in cammino verso il suo destino eroico.

Bella storia, ma soprattutto raccontata con stile. I lampi di Crane sono da grande scrittore.

Qui di seguito alcuni esempi.

La guerra non è una passeggiata.

… una volta un soldato alto raccolse tutto il suo coraggio e andò risolutamente a lavare una camicia…

Gira una voce tra le truppe.

… c’ è chi giudicava quanto si bisbigliava come un affronto personale… c’ è chi si sente in obbligo di difendere la veridicità della notizia di cui era ambasciatore aggirandosi qua e là per il campo con aria di grande importanza e un caratteristico disprezzo a fornire prove …

Vite interiori troppo intense:

… desiderava stare solo con certi nuovi pensieri che gli erano proprio allora venuti in mente…

Guerra sognata e guerra reale:

… aveva creduto che la guerra fosse un susseguirsi di combattimenti mortali con intervalli appena sufficienti per il sonno… ora sapeva che in questo genere di esperienze l’ attività preponderante consiste nello scaldarsi durante le lunghe pause che sospendono le lunghe e incomprensibili marce…

Il bullo:

… era un uomo un poco cencioso che gli sputava con grande abilità fra le scarpe… possedeva un gran fondo di sicumera infantile e inoffensiva…

Anche un puntino blu ha i suoi sogni nel cassetto:

… desiderò senza riserve tutto quanto aveva fuggito… essere nella sua fattoria… fare i suoi interminabili giri dalla casa al granaio, dal granaio ai campi, dai campi alla casa…

In trincea ci si addormenta un po’ come in ospedale:

… esausti… e oppressi dalla monotonia della propria sofferenza…

Come si riconosce un reggimento di sbarbatelli:

… i berretti si assomigliano tutti ancora troppo…

Ritirata!:

… la borraccia gli batteva ritmicamente contro la coscia e il tascapane gli oscillava mollemente. A ogni passo il moschetto gli si muoveva un poco sulla spalla… avvertiva l’ impressione di non avere il berretto ben saldo in testa… Hey, Henry… corri come una mucca!…

Squarci di bellezza intorno al mattatoio:

… nella luce da cattedrale di una foresta…

Cosa succede durante una battaglia?

… un ufficiale impreca con empietà convenzionale… come se si fosse dato il martello sulle dita, a casa…

… un altro ufficiale a cavallo mostra la collera furibonda di un bambino viziato dimenando testa, braccia e gambe…

… un altro ufficiale si rivolge ai suoi uomini, per persuaderli, con il tono di una maestrina che parla a un gruppo di ragazzi della prima elementare… risparmiate il fuoco, ragazzi… non sparate fino a quando non ve lo dico io… aspettate che siano vicini… non fate gli sciocchi…

… un ufficiale impreca e gesticola in direzione dei suoi uomini come un pastore scontento che lotta con il gregge…

… c’ è una singolare mancanza di pose eroiche…

… c’ è un intrecciarsi di grida che ingiungono agli uomini della truppa di fare cose contrastanti e impossibili…

… i sensi, intorbiditi dal fragore, vogliono che tu svenga…

… guarda come il Colonnello trascina la gamba… ha avuto tutto la guerra che voleva…

… prima di sparare pensi sempre che il tuo fucile sia scarico e cerchi di concentrare la mente turbata ricordando il momento in cui l’ avevi ricaricato, ma non ci riesci… al primo colpo succede sempre così… a tutti…

… il tenente incrociò un soldato che, alla prima scarica dei suoi compagni era fuggito strillando… dietro le linee, quei due stavano recitando una scena a parte laggiù in fondo…

Come combattono le persone d’ indole pacifica?

… con la violenza esasperata degli animali domestici molestati… come pacifiche mucche tormentate dai cani…

Si parla in battaglia? Eccome!

… dalle sue labbra uscì una nera processione di bizzarre imprecazioni… un altro cominciò a parlare in tono querulo, come chi abbia perduto il suo cappello… perché non mandano rinforzi?… perché non ci vengono a salvare?…

Che facce hanno i feriti?

… hanno un espressione attonita e triste… come se un vecchio amico abbia giocato loro un brutto tiro…  altri sono pieni di rancore per le loro ferite e pronti a imputare a chiunque la causa di esse… dopo la battaglia agonizzano al fianco dei codardi tornati silenziosamente sul posto… sono per loro dei rimproveri viventi… i morti stanno invece a terra in atteggiamenti fantastici, quasi si fossero schiantati dall’ alto… i cadaveri sono anche i più invidiati…

Come termina una battaglia?

… il fuoco diminuì d’ intensità fino a ridursi alle ultime fucilate vendicative… dopodiché comincia a correre di bocca in bocca sempre la stessa frase con diverse varianti: “bene, li abbiamo respinti…”…

Il temerario:

… un bimbo chiassoso, pieno di un’ audacia tutta inesperienza… sconsiderato, ostinato, geloso e ricco di un coraggio superficiale…

La coda di paglia:

… gli sembrò che tutte le teste, come mosse da un solo muscolo, si girassero verso di lui…

Rissa sfumata:

… ci fu una discussione molto ingarbugliata… ma durante quel chiarimento che non chiariva niente, il desiderio di dar pugni sembrò sfumare…

Non esageriamo la centralità delle nostre guerre!:

… quell’ angolo di mondo conduceva una strana esistenza battagliera…

Presso la truppa trapela la notizia di un possibile attacco:

… poi tornarono a sedere in atteggiamento di aver accettato la cosa… e vi meditarono sopra con cento varietà di espressioni… era un argomento grave, che dava da pensare…

Introduzione:

… tossì d’ un tratto a guisa di premessa e poi parlò…

Avanti… maaaarsh…

… la linea mosse lenta in avanti, come un muro che crolla… e con un ansito convulso che voleva essere un grido di esultanza il reggimento intraprese il suo viaggio…

Il riposo del soldato:

… il soldato si rigirava e tornava ad appoggiare il corpo dopo che l’ esperienza del sonno gli aveva insegnato le ineguaglianze e le asperità del terreno su cui giaceva…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

lunedì 17 ottobre 2011

Handel remix

Nella strapazzata versione di dell’ Hallelujah di Phil Kline, il riconoscimento del cadavere di Handel non emerge grazie ai profili ma al sapiente sovrapporsi dei campi.

Tono su tono, grigio su grigio, ecco spuntare all’ orizzonte un nuovo strano assemblaggio del capolavoro. E’ lui!

Dal big bang ai buchi neri, dal fiat lux all’ apocalisse, dall’ alta fedeltà al grado zero del suono andata e ritorno. Avanti e indreé. Un bel viaggetto senza rete tra accelerazioni e sospensioni.

Il buio, l’ opacità, l’ indistinto, la lontananza, lo smog, le presenze ectoplasmatiche… tutta roba difficile da sgombrare in questo disco. Unica oasi in cui l’ opprimente cortina sembra alzarsi per incanto, la pastorale di Paul Lansky. Le generose inserzioni (nastri, elettronica, percussioni) riescono miracolosamente a preservare equilibri e trasparenza.

tirando le somme:: si salvano 2 pezzi su 11. Un po’ pochino per rimettere di nuovo nel lettore questo cd arrivato in casa mia da molto lontano. Se ne riparla (forse) tra qualche anno. Per ora lo consegno alla polvere del salotto.

Genealogia: Matthew Herbert.

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AAVV – Messiah remix

Nonno, ma la pensione te la sei pagata?

Chi si oppone al taglio delle pensioni dice sempre che “alcune gestioni” non sono in deficit, sembra quasi vogliano dire che in molti casi le pensioni erogate sono state regolarmente “pagate” dai beneficiari e costituiscono solo uno “stipendio differito”.

Ma ne siamo poi così sicuri?

Un lavoratore che l’anno scorso è andato in pensione con 2031 euro al mese (media delle liquidazioni Inps per i trattamenti di anzianità) avrebbe dovuto prendere non più di 1050 euro netti (calcolando i contributi versati e rivalutati al generoso tasso del 9,5 per cento l’anno). La differenza… è come se fosse pagata con le entrate dei parasubordinati, degli immigrati, dai contributi di coloro che non arriveranno ad avere la pensione previdenziale anche se hanno pagato i contributi, e con i trasferimenti dello Stato. I 2031 euro sarebbero equi e corrispondenti ai contributi pagati andando in pensione a 75 anni…

Lungi da me l' intenzione di turbare il sonno dei venerandi nonnini con sensi di colpa. Qualcuno ha dato, e loro hanno preso. Chi do noi avrebbe tirato indietro la mano scagli la prima pietra.

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sabato 15 ottobre 2011

Missione impossibile: prendere le misure al prof.

Non so fino a che punto i test possano essere utili nel valutare l’ opera di un insegnante della scuola statale. Di sicuro, se devo pensare alla scuola peggiore possibile, penso a una scuola statale dove i test valutativi hanno assunto un ruolo decisivo. Sottoscriverei quindi queste parole:

A government-run system of teacher compensation, based on test scores, would in some ways be the worst of all worlds. It would create incentives for teachers to "game" the system. It would give too much weight to a noisy indicator of performance. As a result, it would do little or nothing to improve accountability or to reward better teachers.

Altre parole di saggezza:

If you watch the documentary “Waiting for Superman” or read Steven Brill’s “Class Warfare: Inside the Fight to Fix America’s Schools,” you will learn that many advocates of school reform think they know how to increase teacher productivity: Rate teachers according to their students’ performance on standardized tests and fire those who don’t make the grade.

But economic theory suggests several reasons why this approach will probably backfire.

Scores on standardized tests are not an accurate measure of success in later life, because they don’t capture important aspects of emotional intelligence, such as self-control and ability to collaborate with others. The Nobel laureate James Heckman describes noncognitive traits as a crucial component of human capital.

Indeed, research by the economists Eric Hanushek and Steven Rifkin — both advocates of school reform — indicates that neither teachers’ own test scores when they were students nor their educational credentials explain much of the variation in their students’ outcomes. Why judge teachers narrowly on a set of outcomes that are not even predictive of their own success? leggi tutto

Vogliamo tirare le somme? Valutare un prof. in modo oggettivo ha tutta l’ aria di essere una missione impossibile. Si potrebbe dire che… in assenza della macchinetta valuta-insegnanti , non ci resta che…

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… come portare a termine una missione impossibile…

ADD: e anche valutare la ricerca è quantomeno problematico: http://timharford.com/2011/09/new-ways-with-old-numbers/?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+TimHarford+%28Tim+Harford%29&utm_content=FeedBurner

venerdì 14 ottobre 2011

Poiché abbiamo gli occhi, siamo ciechi

David Stove è un filosofo australiano ateo amante del “buon senso”, ma gli piace anche divertirsi e, quando c’ è trippa per gatti, non si astiene certo dalla polemica. Leggerlo mentre crocifigge i suoi avversari intellettuali è divertente, persino se si dissente. Femminismo, post-modernismo, darwinismo… tutto prima o poi passa attraverso il suo torchio. Nel 1985 ha messo in palio un premio da consegnare a colui che scovasse “il peggior argomento di tutti i tempi”.

Senza molti imbarazzi consegnò il premio a se stesso. Non c’ era partita. L’ argomento, da allora noto come “”the Gem”, suona all’ incirca così:

Se la mente umana ha una sua natura, allora noi non possiamo conoscere la realtà per quella che è.

Si noti bene che sul canovaccio di base mille variazioni sono possibili.

Poiché possiamo conoscere solo le cose per come le vediamo, non possiamo conoscerle per quello che sono…

Non pensiate che un’ affermazione del genere sia poi così strana, viviamo in mezzo a gente che non fa che ripeterla, ma solo dopo averla imbellettata, cosicché puo’ darsi che ci sfugga.

Con questo argomento si riesce a rendere tutto leggero e impalpabile. In epoca postmoderna è stato molto apprezzato, ma si capisce, i lotofagi apprezzano tutto quanto abbia un vago sapore deresponsabilizzante.

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Ecco nella prosa di Stove un paio di travestimenti sotto cui si maschera il “peggior argomento del mondo”:

… teir intellectual temper is (as everyone remarks) the reverse of dogmatic, in fact pleasingly modest. They are quick to acknowledge that their own opinion, on any matter whatsoever, is only their opinion; and they will candidly tell you, too, the reason why it is only their opinion. This reason is, that it is their opinion.

O ancora:

The cultural-relativist, for example, inveighs bitterly against our science-based, white-male cultural perspective. She says that it is not only injurious but cognitively limiting. Injurious it may be; or again it may not. But why does she believe that it is cognitively limiting? Why, for no other reason in the world, except this one: that it is ours. Everyone really understands, too, that this is the only reason. But since this reason is also generally accepted as a sufficient one, no other is felt to be needed

giovedì 13 ottobre 2011

Contro il razzismo: reprimende o strette di mano?

Come combattere la mentalità razzista?

Ci si divide: alcuni scelgono la “via della concorrenza”, altri prediligono la “via del politically correct”.

Una mentalità di destra vede meglio la prima. Ma perché?

Qui possono venire utili molti argomenti che ci fornisce la psicologia.

Questa scienza ci dice che è molto più facile cambiare le nostre opinioni sulla base di un’ esperienza diretta piuttosto che sulla base di una confutazione astratta. Difficile che evidenze “lontane”, per quanto chiare e irrefutabili, ci facciano cambiare idea, così come non sarà mai un teorema matematico all’ origine della nostra conversione.

Ora, consideriamo che il razzismo è riconducibile a un pensiero astratto. Ma forse anche qui sarebbe meglio chiedere aiuto alla psicologia e parlare di “pensiero lontano”.

La distinzione tra “pensiero lontano” e “pensiero vicino” è qui molto importante.

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Molti esprimono la “lontananza” del razzista dicendo che è “ignorante”. Parlano così per desiderio di offendere, in realtà fanno riferimento al fatto che il razzista rifugge dal mescolarsi e dall’ avere esperienze dirette con il discriminato in quanto soggetto. Chiamano “ignoranza” questa “lontananza”, io la chiamerei invece “desiderio di astrazione”.

Difficilmente sarà razzista chi coabita alla pari con un nero ed è costretto ogni gorno a fare compromessi con lui. Magari coltiverà degli stereotipi razionali, ma qui poniamo che il “razzismo” non sia affatto uno stereotipo razionale.

Eccoci allora al punto: la teoria del “politically correct” è una teoria astratta, è un pensiero “lontano”. Resta quindi sul terreno favorito del razzista, ovvero sul terreno tipico del “pensiero lontano”, un pensiero estraneo al “contatto”. Una dimensione in cui la gente difficilmente rettifica le sue idee.

La “via concorrenziale” è ben diversa. In questo caso, il razzista sarà costretto per sua stessa convenienza a stringere rapporti con il discriminato (che nella realtà è sia un buon cliente che un buon fornitore) venendo così giocoforza a contatto con lui in quanto soggetto. L’ esperienza diretta favorirà un “pensiero vicino” e quindi il passaggio dal razzismo allo stereotipo razionale.

La via del pc ha un’ ulteriore falla: spazza via quel patrimonio di conoscenze incorporato negli stereotipi razionali. Basterebbe questa considerazione per rispondere a chi propone: “e perché non fare entrambe le cose?”.

La battaglia delle ruote

Il pavone maschio sgrana la fantasmagorica ruota e la pavoncella resa cieca cade sopraffatta ai su suoi piedi alle sue zampette. E’ fatta! la famiglia si eterna, e per molti tutto finisce qui.

Chiedete a un etologo, vi spiegherà come i rituali della seduzione siano centrali nel mondo animale: niente seduzione, niente riproduzione; niente riproduzione… insomma, non c’ è bisogno di essere Richard Dawkins per capire che in questo caso le cose non si mettono bene per i “geni egoisti” coinvolti.

Anche l’ uomo ha i suoi rituali e comprenderli serve a capire molte cose… per esempio… la genesi del consumismo capitalista.

Molti non sembrano bisognosi di capire alcunché a riguardo, sanno già tutto in merito e ripetono un po’ a pappagallo la lezione di Francoforte: le multinazionali inducono bisogni artificiosi che poi soddisfano. Loro si arricchiscono e noi ci impoveriamo, questo perché ci costringono a comportarci contro le nostre autentiche intenzioni. Da questa ipnosi nascono i due gemellini diabolici: capitalismo & consumismo.

Io mi domando e dico: avete davvero intenzione di comprare una narrazione tanto piena di buchi?

Non sentite che scorre male? Che qualcosa fa diga?

Il buon senso innanzitutto, che non sembra rassegnarsi: certo, esistono dei condizionamenti, ma non mi sembra di vivere tra gli zombi!

Non si capisce poi dove corra la linea che separa ipnotizzati e illuminati. Alcuni, non si sa bene perché, sono immersi nella “falsa coscienza”, altri no. Ma oltre alla discrezionalità nel porla c’ è anche il potente conflitto d’ interesse di chi la pone! Tutto diventa presto così viscido e poco affidabile.

Manca poi nella ricostruzione la parte biologica, quella più gradita dai duri e puri: come si spiega in termini evolutivi una dinamica del genere? Le personalità più fascinose appartengono spesso al partito anti-sistema, una considerazione che è pietra d’ inciampo, anzi, macigno.

Se questi primi tre motivi già vi bastano per buttare tutto a mare, vi propongo una storia alternativa. Comincio con una distinzione semplice semplice: c’ era una volta l’ era della sussistenza, poi è arrivata l’ era dell’ abbondanza, la nostra.

Nell’ era della sussistenza si “seduceva”… sussistendo: so procurarmi le risorse, magari mi approprio anche delle tue, così crepi e mi riproduco con successo. Mors tua viata mea.

Nell’ era dell’ abbondanza le cose vanno un po’ diversamente: con il “miracolo laico” dello scambio e la speculazione abbiamo imparato a non sopprimere il “perdente”, anzi, c’ inchiniamo deferenti alle sue “incazzature piazzaiole”. Nel piagnisteo generalizzato della società contemporanea si fa un tale baccano che sembra esistano solo “perdenti & sfruttati”, gli altri si nascondono vergognosi. Dove si è spostata allora la lotta decisiva?

Prima di rispondere si noti che, certo, nella corsa all’ accaparramento delle risorse qualcuno ha la meglio, ma, biologicamente parlando, che ruolo gioca un conto corrente a nove zeri? E’ come una ruota di pavone ripiegata, corposa ma occulta, occorre sgranarla. Per esibire il nostro status non possiamo girare con l’ estratto titoli tatuato sul corpo facendoci belli.

Ecco allora il nuovo terreno dove condurre la battaglia delle ruote: il consumo.

Consumare equivale a sgranare la ruota. Il consumo è un’ esibizione di forza e arguzia con la quale mandiamo in circolo feromoni. Il consumo segnala il nostro status attirando come mosche rispetto e partner.

E qui si scopre che le ruote del consumista sono molto particolari, a volte un bouquet di scelte “originali” ha più successo di consumi costosi ma pacchiani. L’ originalità e la sapienza nello scegliere possono compensare di gran lunga le disponibilità iniziali. Le strategie di consumo soccorrono chi è soccombuto nella fase produttiva.

Il capitalismo consumista è alla sua radice una competizione tra consumatori, i quali riconducono alla sfera consumistica lo scontro millenario per la seduzione e la riproduzione. Le grandi compagnie sono delle comprimarie, giocano il ruolo di solerti cavalier serventi che elaborano e forniscono sempre nuove armi ai contendenti.

Vi è piaciuta la storiella? Forse non fa strike ma abbatte molti più birilli della sua concorrente.

Una teoria del genere ha il pregio innanzitutto di essere in linea con la nostra biologia [… corollario: essendoci di mezzo la biologia, inutile perder tempo in crociate anti-consumistiche…].

Spiega anche il perché dietro ogni battaglia anti-consumistica covi una battaglia anti-capitalistica. Finché c’ è abbondanza, ovvero capitalismo, ci sarà consumismo.

E’ anche coerente anche con il fatto che molta merce ha un valore intrinseco irrisorio rispetto al valore di mercato. Non c’ è da scandalizzarsi: la merce, prima ancora che uno strumento, è un contrassegno, e quindi va valutata anche questa funzione.

E’ poi coerente con il linguaggio pubblicitario, che sempre più tenta di far entrare l’ acquirente in un “club” piuttosto che limitarsi a vendere il prodotto.

Purtroppo non è molto coerente con il concetto di “conformismo”.

Ma questo, lungi dall’ essere un inconveniente, è piuttosto la parte più interessante della faccenda.

“Conformismo” e “consumismo” non sono poi così amici come si vorrebbe, fateci caso.

La parolina magica di ogni buon marketing è “autenticità”, un concetto che non ha certo la faccia del conformista!

Lo pseudo stregone del consumismo non ama il conformista, puzza di “stagnazione”, alla lunga la sua presenza è sabbia negli ingranaggi della macchina; ben altra prospettiva offrono i “ribelli”, loro sì che sono limoni carichi da spremere e vanno quindi tenuti cari; una volta torchiata la spremuta del ribelle addomesticato e rimasti con le bucce in mano, si spera ardentemente che nasca al più presto il successivo e lo si idealizza sempre più aggressivo e provocatorio, ce lo si augura che gridi la sua rabbia “contro il sistema” in modo stentoreo. Senza gente del genere la macchina, la moda e i “trends” grippano e s’ ingolfano nella triste parabola discendente del conformismo a oltranza.

Mi vengono in mente molti esempi in ambito musicale, ma penso sia inutile perdere tempo, se non lo vedete anche voi abitiamo pianeti diversi e non mi resta che rinviarvi alle ultime cose scritte su Jobs e sulle sue stilose creazioni..

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Non si vuole solo dire che con la contro-cultura si son sempre fatti dei gran soldi, questo doveva essere già chiaro da principio, si vuole dire di più: e cioè che le contro-culture sono il vero motore del consumismo capitalista perché con le loro proposte originali mettono a disposizione un arsenale (di idee e di gusti) grazie al quale i consumatori di domani, affiancati al meglio da una servile e non disinteressata industria, combatteranno nell’ era dell’ abbondanza una battaglia che più naturale non si puo’, una battaglia antica quanto il mondo e che per il secolarizzato uomo moderno è l’ unico fine che possiede questo universo senza scopo.

Fine.

Bene, se vi è piaciuto e la cosa vi convince (ma anche se non vi convince) potete continuare a farvi raccontare questa storia da: Joseph Heath e Andrew Potter (sinceri democratici). Ma potete esercitarvi anche con alcuni link:

Audio of a presentation given by Potter and Heath

Stuff White People Like

Great Interview with Christian Lander

White Whines

Look at this F**king Hipster

mercoledì 12 ottobre 2011

R & D

L’ innovazione sussidiata non aumenta gli “innovatori” ma solo il loro stipendio.

 

http://marginalrevolution.com/marginalrevolution/2011/12/college-subsidies-fuel-salaries.html

Musiche da suonare di corsa

Non è facile suonare col fiatone mentre si va su e giù per le scale. Eppure questa versatile fanfara metropolitana riesce a farlo coniugando potenza bersagliera e qualità accademica. Non solo, ha saputo ricreare mondi disparati e originali.

L’ inflazione creativa di Zappa.

La stupidera di Bregovic.

Il lirismo alcolico di Mingus.

I gusci vuoti di Meshugga

La piacioneria pimpante dei Rodewald

Le iper-ballate di Bjork

Le fantasmagorie a cristalli liquidi di Braxton (non Anthony ma Tyondai).

Genealogia: Ordinaires, Lester Bowie brass band, Polkadot.

Qui fanno Frank Zappa…

… e qui Goran Bregovic.

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Asphalt Orchestra – Asphalt Orchestra

martedì 11 ottobre 2011

1955-2011: una stoccata e un omaggio

Nell’ ormai strafamoso discorso a Stanford, SJ insiste sul concetto di “never settles”: insegui il tuo sogno (e non scendere mai a compromessi). E’ una buona strategia? C’ è chi ritiene che serva più che altro a segnalare (magari bleffando) il proprio talento.

Now try to imagine a world where eri averyone actually tried to follow this advice. And notice that we have an awful lot of things that need doing which are unlikely to be anyone’s dream job. So a few folks would be really happy, but most everyone else wouldn’t stay long on any job, and most stuff would get done pretty badly. Not a pretty scenario. 

Now notice: doing what you love, and never settling until you find it, is a costly signal of your career prospects. Since following this advice tends to go better for really capable people, they pay a smaller price for following it. So endorsing this strategy in a way that makes you more likely to follow it is a way to signal your status.

Dopo la stoccata, l’ omaggio:

I once thought his success was mostly a matter of luck. Anyone can be at the right place at the right time.
But then he did it again.
And again.
And again.
And again.
He was my only hero.

Hirotoshi Ito

Diseguaglianze eretiche

Lo storico Deaton indaga sulle diseguaglianze nell’ aspettativa di vita.

Ci sono e ci sono sempre state, ma non riguardano tanto il divario tra poveri e ricchi…

It is sometimes supposed … that rich people have always lived healthier and longer lives than poor people. That this supposition is generally false is vividly shown by Harris who compares the life expectancies at birth of the general population in England with that of [rich] ducal families. From the middle of the 16th to the middle of the 19th century, there was little obvious trend in general life expectancy. For the ducal families up to 1750, life expectancy was no higher than, and sometimes lower than, the life expectancy of the general population. However, during the century after 1750, the life prospects of the aristocrats pulled away from those of the general population, and by 1850–74, they had an advantage of about 20 years. After 1850, the modern increase in life expectancy became established in the general population. Johansson tells a similar story for the British royals compared to the general population, though the royals began with an even lower life expectancy at birth. …

… quanto tra uomo e donna:

Men die at higher rates than women at all ages after conception. Although women around the world report higher morbidity [= sickness] than men, their mortality [= death] rates are usually around half of those of men. … Women get sick and men get dead. … Biology cannot be the whole explanation. The female advantage in life expectancy in the US is now smaller than for many years, 5.3 years in 2008 compared with 7.8 years in 1979, and it has been argued that there was little or no differential in the preindustrial world. The contemporary decline in female advantage is largely driven by cigarette smoking; women were slower to start smoking than men, and have been slower to quit.

Come intende intervenire l’ egalitarista?

Etienne Gros

lunedì 10 ottobre 2011

Armen Alchian: una teoria dell’ accademia

De relato:

I heard Armen Alchian say in class that it was very hard to ascertain how the enormous tuitions at Ivy League-type schools were justifed by education, alone. He stated that he thought most of the value was from helping talented and motivated students find other talented and motivated people to marry.

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martedì 4 ottobre 2011

Libertarianism A-Z voucher

Il sistema dei vouchers è il migliore per finanziare l’ educazione. Innovazione e efficienza saranno spinte al massimo.

Sebbene la qualità dell’ “outcome” ottenuto nelle scuole private sia mediamente migliore, meglio non imbarcarsi in una crociata su questo punto visto che i dati sono ancora troppo altalenanti. E’ però abbastanza evidente che dall’ introduzione della “scelta” ci guadagna l’ intero sistema.

C’ è l’ aspetto legato all’ efficienza: nessuno mette in dubbio che il privato li governa molto meglio.

Non ci sono paragoni poi nell’ ambito della consumer satisfaction, forse l’ unica cosa che alla fine conta veramente.

La desindacalizzazione delle scuole è un altro obiettivo più alla portata di tutti grazie ai vouchers.

C’ è chi teme forme di segregazione. Assurdo, molte scuole private già oggi implementano rigorose , fffirmative action.

In ogni caso, sebbene la cosa migliore consista nel far piazza pulita delle scuole statali attraverso un’ immissione massiccia di vouchers, si potrebbe iniziare con l’ assegnazione riservata ai soggetti più poveri.

lunedì 3 ottobre 2011

Che depressione!

http://econlog.econlib.org/archives/2006/09/an_evolutionary.html#

Tassare gli invidiosi

Tyler, Greg and Brad all forget the Coase theorem – all externalities are dual.  The solution to envy is not to tax the rich but to tax the envious.  To be envied is unpleasant.  People want to be admired but not envied.  To be envied is one step from being hated.  (Consider how much crime is motivated by envy.)  It’s envy which imposes an externality on the rich.  Make the envious pay for their ugly preferences.
Surprising analysis?  Not really – should gays be taxed because they make some people uncomfortable?  Hell no.  Tax the bigots for making gays feel unwelcome.

Riflessioni libertarie sul Vangelo del 20.8.2011

13 Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». 14 Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». 15 Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». 16 Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». 17 E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. 18 E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. 19 A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». 20 Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo

Jeffrey Catherine Jones

Cedo la parola a un incazzatissimo Pietro De Marco, il quale non commenterà il Vangelo, bensì una, a suo dire, stomacante predica a quel vangelo, una di quelle non rare prediche che si rischia di ascoltare laddove il prevosto è un po’ “troppo preparato”.

La garbata omelia, di fronte a un pubblico di fedeli numeroso – è falso che le chiese siano “sempre più vuote” – è dedicata al “dialogo”, all’attraente “dialogare” tra Maestro e discepoli, che sembra rendere la pagina evangelica alla portata della nostra vita.

Così ci viene detto che, in Mt 16, Gesù rivelerebbe un umanissimo bisogno di riconoscimento e Pietro affermerebbe con calore, con personale veracità (cose che il testo non dice), la fede nel Figlio del Dio vivente, che ha dinanzi. Gesù riconosce e premia Pietro non tanto per l’esattezza, la verità, della professione di fede quanto per la sua vitalità esistenziale, affettiva. Con l’immancabile evocazione del filosofo Lévinas, il predicatore elogia di Pietro non la conoscenza, che “imprigiona l’Altro” (insopportabile novecentismo, creduto ormai solo da letterati e teologi), ma la scoperta.

Il dialogo di Mt 16, di enorme portata nella storia e fede cristiana, viene così piegato all’incontro tra due psicologie, nel migliore dei casi tra due persone particolari, dando sfogo ai predicabili conseguenti: la nostra fragilità e la sincerità reciproca, il giudizio di una vita (”cosa sono per te”). Solo poi, dalla lettura della preghiera dei fedeli, i presenti scoprono che la liturgia della domenica è infine dedicata a Pietro (”Tu es Petrus”, “non prævalebunt”, il potere delle chiavi sono in Mt 16), e che la “lex orandi” di questa domenica guarda al vescovo di Roma. Ma, anche tollerando la sottovalutazione dei contenuti cattolici delle parole di Gesù, restano drammaticamente in ombra i significati della confessione dell’apostolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”; un sapere decisivo per noi, e non certo perché Mt 16 sarebbe un buon esempio di dichiarazione d’amore e di scoperta dell’Altro. E perché ignorare ciò che Gesù dice a Pietro: “Né carne né sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio”? Il cuore di Mt 16 è teocentrico, anzi trinitario; perché farne una fiaba relazionale per l’esistenza cristiana, che è molto di più ed è anche intelletto?

Dietro la perdonabile retorica che fa dire dal pulpito: “È più importante in Pietro l’accento che il contenuto del ‘Tu sei il Cristo’, più la risposta del cuore che la verità della mente” – per cui a rigore qualsiasi cosa detta da Pietro con la stessa intensità soggettiva sarebbe “vera” –, si riconosce la rottura postconciliare dell’unità necessaria tra “fides quae” e “fides qua”

E questo sarebbe fede vivente!  Ma tra la fede che è creduta, cioè il canone di fede, la “analogia fidei”, e la fede con cui si crede, ovvero tra la verità e l’atto di assenso ad essa, il rapporto è inscindibile. Non è il tono dell’assenso che fa la verità. Non esiste assenso senza il suo oggetto, non “fides qua creditur” senza “fides quae creditur” che la precede; la fede non è generata, né autenticata, dall’atto o dal sentimento individuale.

Non lo si creda chiarimento superfluo. Su questo vi è un penoso disordine nelle Chiese cristiane. Ma se le verità del “Tu es Christus” come del “Tu es Petrus” si riducessero davvero a figure o parabole per vivere meglio piccole vite, piccole biografie, sarebbe coerente smettere di confessare Cristo, Figlio del Dio vivente.

sabato 1 ottobre 2011

Inno dello stupratore

1. L’ inno ufficiale:

… non è pietoso come dicono gli umani, Amore,

ma sordo e crudele quando desidera la preda.

Come un uccello che in pugno serriamo

si dibatte e le ali agita,

così ella s’ oppose tremante;

la lotta (come quella che creò il mondo) generò un mondo altro di gioia ignota.

Inganni ovunque nella sua mente, e a concedersi con astuzia intese.

Non sembrando vinta, vinta ella fu alla fine.

Cristopher Marlowe

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2. Lo stupro come buona notizia:

Using state-level variation in the timing of political reforms, we find that an increase in female representation in local government induces a large and significant rise in documented crimes against women in India.
Our evidence suggests that this increase is good news, driven primarily by greater reporting rather than greater incidence of such crimes.

3. Spiegare lo stupro. C’ è chi ci prova con le analogie:

analogia

Eppure non capisco: o c' è la pistola o c' è l' analogia.