A Santo Stefano Belbo c' ero stato a mangiar lumache con il mio "amico disperso" Morra (dove sei? da quelle parti si chiamano tutti Morra e non riesco a rintracciarti!).
Avevo già percepito molto in quell' occasione. Avevo visto all'opera l' obeso calabrone, annusato il miasma della capelvenere, sentito il baccano dei grilli che andava a manetta. Si era annidato nel cervello anche quell' odore rasposo di collina e di vigna. Avevo notato i sentierini che strapiombano e/o scantonano dal ciglio. Mi era sembrato persino di udire quelle bande chiassose tutte addossate in cerca di salvezza sul primo clarino che le porta (l' unico con un' infarinatura) ma vittime dell' inesorabile ottusità di bombardeni e genis.
Così avevo pensato a tempo debito (20 anni fa) che qualora mai avessi letto un suo libro, sarebbe stato quello che raccontava di quel paesino fuorimano. Così classico, così rustico.
Lui.
Lui è una persona piena di acciacchi, con una vita brutta e provvisoria, si sente decrepito come solo una donna o un caprone puo' esserlo; poverino, così afflitto da "reducismo", troppo "civile" per sapersi difendere, con la "rinuncia" facile, l' attitudine pronunciata a consegnarsi, la noia di "prevedere" e correre, la voglia di "lasciarsi vincere" che monta e quella di reagire che muore tra le mani: respinto da mille donne e da mille mestieri, morto suicida come una rockstar. Un' icona adolescenziale da banco di scuola con le cicche sotto come solo Leopardi puo' esserlo.
Ma i veri acciacchi dell' età sono i rimorsi, i rimorsi lo attanagliano mentre passeggia per il paese natio rimuginando il passato, quando le Colonne d' Ercole non stavano a Gibilterra ma a Canelli, quando il mondo era venuto a stanarlo da lì con la fame.
Gli idiotismi linguistici con cui si rende l' universo abitato da gente che comanda con gli occhi la famiglia e dice solo dei "sì" e dei "no" al forestiero, mal si accordano con l' inclinazione meditabonda del protagonista.
Lui, lo scampato, ora che beve il caffè scostando il mignolo, puo' raccontarci l' aspetto sinistro e angoscioso del vivere contadino, le donne che muoiono senza cure, o sfinite e dissanguate dai parti; i vecchi che i figli fan mendicare per le vie e che finiscono abbandonati quando non son più buoni neanche a chiedere; le manie sadiche che montano nei cascinali sul co' della motta, scheletri di muro freddo presidiati da cani col cimurro che impazziscono se ti sporgi.
E' solo il freddo che fa sembrare allegri gli occhi umidicci del contadino. In realtà abita un paese dove le mosche stanno meglio dei cristiani. Lavora e spartisce, lavora e spartisce. Ma non basta mai.
Difficilmente le sue donne scamperanno la "battuta", specie la domenica, quando sui suoi zoccoletti della festa torna alticcio dal paese dopo il vermut e la partita di carte che sigilla una settimana in cui ha posato la zappa solo per impugnare la rincola, e ha posato la roncolasolo per dare il solfato o portare i cavagni. Il colpo ha lo schianto pesante ma le mamme, si sa, piangono adagio, anche se non hanno le ossa buone minimizzano, mugolano, fanno dei piccoli strani versi nel tentativo estremo di credere e far credere che sia già tutto finito - ma è una guerra impari contro le vibrisse sensibili dei bambini - invece non è finita perchè piomba su di loro la stupidità di un altro colpo, gemono come passeri con l' ala rotta: il loro volto si deforma e si ricompone di continuo. Poi, finita la buriana, tirano fuori un fazzoletto e si mettono nel loro angolo (prima o poi moriranno, le troveranno un mattino freddo distese nel letto con i denti aperti, e quell' ozio scatenerà ancora una rabbia impotente). I figli, mentre assistono all' inizio di una discussione che è solo il prologo alle cinghiate, si accostano all' uscio, senza neanche volerlo davvero si spianano la fuga dalle grinfie qualora chiamati in causa. E' tremendamente facile "essere chiamati in causa" quando non c' è nessuna "causa" in ballo. Poi, dopo il "liberi tutti", si gira per la campagna bruna, qualcuno pensa "che freddo, avrà sbollito? posso rientrare?", qualcun altro pensa "un giorno l' ammazzo". Poi il segnale: la mamma li richiama tutti dalla soglia con una voce inferocita, come se la scannassero. Ogni tanto, tra una rachitica e l' altra, nasce una figlia con gli occhi come i cuori del papavero, più giudiziosa, destinata (forse) a una vita "non da scema". Altrimenti è guggia, saccone, polenta-ceci, erba per conigli e ignoranza di chi non sa cosa succede al di là del Bormida. Giusto una radio da aprire ogni tanto. Forse.
Dopo la cronachetta che si barcamena tra il teribile e il gustoso, segue la brutale sintesi ideologica: il mondo è malfatto e bisogna rifarlo, la colpa è del soldo e di chi l' ha inventato, bisogna che il governo lo bruci insieme a chi lo difende. Poi si potrà tornare alla bella favola da ascoltare con occhi sottili, al bel pregiudizio che arieggia le vite senza sfogo, si potrà tornare ai falò rituali sotto la luna.
Cesare Pavese - la luna e i falò