sabato 28 dicembre 2019

LA FILOSOFIA DEL RAGIONIERE

Poiché sono un ragioniere non ho mai studiato filosofia, e questo è stato sempre un mio cruccio. Qualcuno potrebbe parlare di frustrazione. Poi però ho scoperto che nemmeno al liceo si studiava filosofia, piuttosto "storia della filosofia", qualcosa di cui francamente faccio volentieri a meno. Per me una scoperta del genere è stata un vero sollievo.
La confusione tra filosofia e storia della filosofia è molto diffusa e si riflette indirettamente in una distinzione comune nella filosofia contemporanea tra stile "analitico" e stile "continentale".
La cosiddetta filosofia analitica si pratica principalmente nei paesi di lingua inglese (Inghilterra, USA, ecc.). I filosofi “analitici” pensano che il compito principale della filosofia sia quello di risolvere i problemi, di spiegare i significati delle parole e analizzare i concetti. Il loro obbiettivo è sostanzialmente quello di esprimere chiaramente le loro tesi, di fornire argomentazioni logiche a supporto e di rispondere poi alle obiezioni formulate da chi non è d'accordo con loro. Facile, puo' capirlo anche un ragioniere. Se un filosofo analitico sta discutendo di giustizia, per esempio, di solito comincia specificando cosa intende con la parole "giusto" e come collega il concetto di giustizia a quello di equità o correttezza.
I "filosofi continentali" sono generalmente molto meno chiari su ciò che stanno dicendo. Ad esempio, non definiranno esplicitamente i termini prima di procedere. Usano molti riferimenti indiretti senza alcuna spiegazione letterale. E' come se dessero molte cose per scontate, come se preoccupazioni del genere siano risolte dalla conoscenza della "storia della filosofia". Oppure si aspettano che le cose assumano una loro forma più definita nel corso della discussione che loro stanno iniziando. Quando avanzano un'idea, in qualche modo danno pure degli argomenti per sostenerla, ma è difficile isolare le premesse e le fasi successive di quel ragionamento che li ha condotti ad affermare cio' che sostengono. Un autore continentale non ti direbbe mai che il suo ragionamento si fonda su tre premesse, per poi elencarle come (1), (2), (3) (un passaggio obbligato per gli "analitici"). Nemmeno affrontano direttamente le obiezioni. In genere scrivono libri lunghissimi e molto discorsivi. Hanno un loro gergo ma non sembra giovi molto alla sintesi o alla comprensione. Autori del genere fanno crescere la frustrazione del ragioniere pagina dopo pagina. Quando non capisci un autore analitico sai che devi studiare di più, ma se non capisci un autore continentale sei in mezzo alla palude, non sai bene cosa devi fare, il dubbio è che tu debba realmente conoscere tutta la storia della filosofia, ovvero fare il liceo. Le opere della filosofia continentale, inoltre, spesso flirtano con il soggettivismo o l'irrazionalismo.
I filosofi generalmente tendono politicamente a sinistra, come un po' tutti gli intellettuali. Ma i filosofi continentali hanno inclinazioni ancora più pronunciate. Heidegger, il padre della filosofia continentale moderna, era letteralmente un nazista. Diciamo che i "continentali" hanno maggiori probabilità di avere opinioni politiche estreme, folli, orribili. Tra loro i comunisti e i fascisti spuntano come funghi. Non si può menzionare la distinzione analitico/continentale senza menzionare il disaccordo tra Martin Heidegger/Rudolf Carnap. Il secondo considerava i capolavori del primo un misto di banalità e nonsense.
La differenza tra le due scuole è innanzitutto di stile. Gli analitici sono più naive, offrono tesi chiare, argomenti logici e rispondono alle obiezioni. Il loro scopo ideale è quello di migliorare la conoscenza e la comprensione del mondo. Il filosofo non deve, ad esempio, confondere le persone, impressionarle con una prosa rutilante o per come padroneggia la storia della filosofia, non deve esporlo alla contemplazione di frasi ben tornite inducendolo a tacere e smettere di interrogarti. Per aumentare la conoscenza e la comprensione filosofica di un lettore, si deve generalmente dargli buone ragioni per credere a ciò che si sta dicendo. Se, invece, il lettore adotterà il tuo punto di vista a causa della tua abilità retorica, magari perché colpito dalla squisita raffinatezza di una prosa in grado di sopire ogni dubbio, allora non avrà acquisito conoscenza e comprensione della materia trattata.
Mi sembra chiaro che un ragioniere intimorito di fronte al colossale corpo di conoscenze filosofiche prodotto dall'umanità nel corso dei secoli, si rivolga agli analitici, ovvero a coloro che considerano la "storia della filosofia" qualcosa di completamente diverso dalla filosofia, un po' come uno scienziato considera la storia della fisica qualcosa di completamente diverso dalla fisica. Se si puo' infatti essere ottimi fisici senza conoscere la storia della fisica, se si puo' addirittura vincere il premio Nobel senza sapere nulla della fisica di Aristotele; allora, forse, si puo' comprendere un filosofo anche senza aver fatto il liceo o conoscere autori superati come Platone e Aristotele.
L'altra cosa da sottolineare è che le tesi più comunemente associate ai filosofi continentali sono sbagliate, a volte persino sconcertanti. Questo non li rende molto attraenti per un semplice ragioniere assetato di verità.
Per esempio, la filosofia continentale nega spesso l'esistenza di una realtà oggettiva. A volte sembra dire, ad esempio, che quando chiudo gli occhi, il resto del mondo esca in qualche modo dall'esistenza. Come se il mondo esistesse solo se percepito dagli uomini o comunque da un osservatore. Per la persona comune e per i filosofi analitici un mondo che esiste indipendentemente dagli osservatori è invece facilmente immaginabile e ipotizzabile. Negarlo sembra assurdo. L'errore dei continentali sta nel confondere l'affermazione che un determinato oggetto della conoscenza è rappresentato da una mente particolare con l'idea che il suo essere rappresentato da quella mente fa parte del contenuto stesso della rappresentazione. In altre parole: dal fatto che posso immaginare la Terra solo usando la mia mente, non consegue che posso immaginare la Terra solo come immaginata da me.
Uno si chiede il perché di simili gaffe che perpetuano gli stereotipi verso il filosofo con la testa nelle nuvole. Lo strano soggettivismo dei continentali serve forse per alimentare un poetico scetticismo che troppo spesso li seduce ispirando loro pagine su pagine dotate di un certo afflato più che di un contenuto reale. Come nel loro stile, l'idea centrale non è mai espressa in modo rigoroso, ci si limita ad evocarla all'incirca così: "è impossibile per noi sapere qualcosa senza usare le nostre menti, i nostri schemi concettuali, i nostri occhi... pertanto, non ha senso parlare delle cose come sono in se stesse, e nemmeno ha senso l'idea di "realtà oggettiva"..."
Insomma: "poiché abbiamo occhi con cui vedere, siamo ciechi". L'argomento degli "occhi" percorre la filosofia continentale in lungo e in largo, viene riproposto ossessivamente trattando dei temi più disparati. Un continentale non ti dirà mai che ritiene una certa sua affermazione vera al 40%. Farà invece la sua affermazione corredandola con il pleonastico argomento degli occhi. Il filosofo australiano David Stove ha battezzato questo argomento "The Gem" bollandolo come "il peggior argomento mai concepito nella storia della filosofia".
I filosofi continentali non amano molto la razionalità. Inutile dilungarsi sul perché invece un filosofo dovrebbe costituire l'epitome della razionalità, penso che sia fondamentalmente una tautologia: il pensiero razionale non è altro che il pensiero senza errori. Per essere onesti, poche persone diranno apertamente: "ehi, sono irrazionale, e dovresti esserlo anche tu!". Ma puoi leggere molti autori continentali che rifiutano i principi centrali della razionalità, come quello dell'obbiettività e della coerenza.
Ma perché una simile sconcertante idiosincrasia? Il fatto è che se eludi la razionalità puoi continuare a sostenere le tue convinzioni sbagliate, in qualche modo, in questi casi, percepisci implicitamente che razionalità e obbiettività sono i tuoi nemici. Devi anche evitare di essere chiaro nella tua esposizione. La nebbia, la parzialità e la confusione sono elementi chiave per coltivare false credenze. L'esistenzialismo, una tipica filosofia continentale, ti lascia libero di credere e fare quel che vuoi, purché sia "autentico", ma per poter elargire un simile dono ai suoi adepti deve presentarsi come particolarmente confusa, disarticolata e zeppa di tesi ingiustificate. Direi che ci riesce benissimo, e non a caso nei licei europei è sempre andato fortissimo.
Ma anche la filosofia analitica nasconde una sua "miseria". Il suo problema principale è che è troppo... analitica.
Le affermazioni analitiche sono vere in virtù del significato delle parole che usano. Tipo: "tutti i rombi hanno quattro lati" e "il presente viene prima del futuro". Sarà per questo che i filosofi analitici passano gran parte del loro tempo a parlare del significato delle parole. Bello! Ma dopo un po' ti rompi i coglioni... e vorresti affrontare qualche problema sostanziale. Non so quante persone pensano ancora che il compito della filosofia sia di analizzare il linguaggio e roba del genere. Spero che non siano molti. Ma il passato pesa e ancora oggi ne circolano parecchi con questa sindrome: neuroni rubati all'agricoltura.
Il primo problema specifico della filosofia analitica è dato dal fatto che la gran parte delle sue analisi sono "infruttuose". La chiarezza non riesce a creare consenso: su quasi tutti i problemi maggiori si resta divisi, e quando le divisioni persistono per decenni è segno che non si saneranno mai. La conoscenza non si cumula, altro che scienza. Per contro, molte analisi semantiche sono così contorte che risultano di fatto inutili. Esempio, le analisi di cui ora discutono gli epistemologi sono così complicate e confuse che nessuno usa il termine "conoscenza" avendo in mente il loro lavoro. ma a che servono? Alla comprensione teorica dei filosofi accademici? È questo ciò di cui abbiamo bisogno? Un chiarimento dei termini che impegna decenni di riflessione per arrivare a conclusioni lontane dall'uso effettivo che viene fatto di quelle parole sembra uno spreco colossale.
Ad ogni modo, una buona dose di dibattito nella filosofia analitica, anche quando non si tratta direttamente dell'analisi semantica, degenera comunque in una noiosissima analisi semantica. niente di più palloso e inconcludente.
Esempio: quando un'affermazione è "giustificata"? Ci si divide tra internalisti ed esternalisti. I secondi ritengono che una credenza sia vera quando è verificata da una certa procedura descrivibile esteriormente. Gli internalisti invece pensano che il cuore della giustificazione sia il buon senso e l'intuizione, ovvero qualcosa che non si puo' descrivere se non come stato mentale dell'osservatore. "La neve è bianca" è vera solo se la neve è bianca. Ecco, questo scontro mi sembra uno scontro senza molta sostanza, uno scontro più sulle parole che sulle cose: l'internalista accetta buona parte di cio' che dice l'esternalista e viceversa, ma i due hanno modi diversi per esprimersi. E intanto la gente - scienziati compresi - continua tranquillamente a utilizzare il termine "giustificazione" senza aspettare di certo che i filosofi analitici decidano cosa significhi.
Altro esempio, ci sono dibattiti in metafisica sull'esistenza degli "oggetti compositi". Esistono veramente? C'è chi lo nega e pensa che se prendi alcune particelle elementari, non c'è nulla che tu possa farle per assemblarle e realizzare un oggetto autonomo. Quindi, per esempio, le tabelle non esistono, le persone non esistono, ecc. Altri filosofi affermano invece che gli oggetti possono comporre altri oggetti. Se hai un oggetto A e un oggetto B, allora c'è sempre un terzo oggetto che ha sia A che B come parti. Immaginatevi l'interesse delle persone per una questione del genere, immaginatevi l'ansia con cui si attende il verdetto, immaginatevi l'attesa con cui si attende che la filosofia analitica dirima la questione.
Ma c'è qualcosa di ancora più grave: i filosofi analitici, ahimé, decidono quali domande porsi in base alla possibilità di applicare o meno il loro metodo (definizione/deduzione). Risultato: parlano solo di cazzate. Pardon, affrontano temi che non interessano nessuno eludendo le domande che contano realmente. Nel solco di Wittgenstein ("di cio' di cui non si puo' parlare si deve tacere") finiscono per produrre solo noia e virtuosismo intellettuale fine a se stesso. Ci si chiede perché non si dedichino alla settimana enigmistica.
Esempio: qual è il motivo per cui dovremmo obbedire al governo? Il filosofo analitico trasforma la domanda in modo da renderla più "trattabile". Tipo: come dovrebbe essere in astratto un ordine politico ideale? Qui comincia ad elencare le condizioni, tutte rigorosamente astratte. Tutti i paroloni con accezione positiva (libertà, uguaglianza, bene, giustizia) vengono tirati in ballo senza specificazione significativa. A questo punto si potrebbe osservare che, poiché nella realtà non esistono governi del genere, non esiste un obbligo di obbedienza. Ma a questa conclusione il filosofo analitico non arriverà mai poiché si tratta di un'affermazione con un contenuto empirico, non gli riguarda. Purtroppo per il lettore, è anche l'unica affermazione interessante. In breve: il filosofo analitico è uno specialista nel sostituire la domanda che conta con una domanda di cui non frega niente a nessuno (se non forse ai suoi colleghi), perché quest'ultima non gli chiede di alzare il culo dalla sua poltrona.
Altro esempio, in passato ho cercato di affrontare in modo analitico il problema teologico del male. Ecco un modo semplice per comprenderlo: Dio, se esiste, dovrebbe essere onnisciente, onnipotente e buono. Ora, se Dio non è a conoscenza di tutti i mali del mondo, allora non è onnisciente. Se è consapevole del male ma non è in grado di fare nulla al riguardo, non è onnipotente. Se è consapevole del male ed è in grado di eliminarlo, non è buono, visto che quel male esiste. Un bel problema per i credenti. Un modo per risolverlo consiste nel mettere in evidenza come Dio, avendo concesso all'uomo una libertà radicale, ha in qualche modo limitato la propria onnipotenza. Osservando la reazione di un filosofo analitico impegnato nel difendere la posizione atea, ho notato che considerava questa risposta "inammissibile". Motivo? "Rettificava le premesse": non si puo' difendere una tesi ridefinendola. Avete capito bene, a un filosofo del genere non interessa nulla di come stiano le cose, lui è solo preso nei suoi giochetti di parole, e se uno fa un passo indietro, rimette a posto certi concetti in modo che quadrino le cose, tutto quello che ha da dire è che "non vale", come se si stesse facendo un gioco in cortile. Ho trovato questo caso sorprendente. Quindi, se si scopre che esiste un essere estremamente potente, intelligente e buono che ha creato l'universo, ma l'essere non è in grado di fare tutte le azioni logicamente possibili, allora questo essere non desta alcun interesse per il filosofo analitico? Un tipo del genere è più preso dai giochi di parole che dalla comprensione della realtà. Capisco che ci siano casi in cui difendere una tesi ridefinendola la rende poco interessante. Ad esempio, se difendessi il "teismo" definendo "Dio" come definisco la "Natura", ciò snaturerebbe la mia difesa. Ma il caso del dio onnipotente è molto diverso!
Conclusione. la filosofia migliore su piazza è quella che utilizza il rigore degli analitici ma affronta i temi dei continentali.

venerdì 27 dicembre 2019

PARLAMENTO FLASH

PARLAMENTO FLASH

Propongo di sostituire il parlamento con un "parlamento flash". Funzionerebbe così.
Allora, chi vuole proporre una legge puo' farlo pagando X euro. Ok?
Poi si sorteggiano N cittadini e si fa votare loro la legge proposta. Se si raggiunge la maggioranza M la legge è approvata e chi l'ha proposta riceve in cambio la somma Y. In caso contrario si torna come prima e lo stato incamera X euro.
Fine.
Mi rendo conto che sarà necessario qualche aggiustamento, l'assemblea dei sorteggiati potrebbe essere presieduta da un giudice costituzionale che dia delle dritte meramente formali. Ci dovranno essere norme anti-corruzione. I parlamentari potrebbero avvalersi di consulenti. Si dovrebbe rendere il processo il più celere possibile avvalendosi della tecnologia. Eccetera, eccetera, eccetera.
Ma perché appesantire qualcosa di così semplice ed elegante?

COME SI DIVENTA ATEI

COME SI DIVENTA ATEI
Da adolescente, pensavo che la religione si trovasse nei libri sacri. Ci credevo perché mi era stato insegnato così. Inoltre, da persona che amava i libri trovavo tutto questo molto plausibile, ne ero addirittura lusingato. Tuttavia, ho riscontrato immediatamente che molti "adoratori del Libro" non amavano affatto i libri in generale. In tutto questo c'era quindi qualcosa che non andava.
Successivamente, ho rettificato il tiro e, leggendo Tommaso, ho pensato che la religiosità fosse essenzialmente una scelta razionale. Devo ammettere che per me è ancora così, ma se questa è una buona teoria per me, non riesco più a sostenere che sia una buona teoria generale della religione. Se giudico i miei correligionari vedo più che altro persone emotive, che danno poco spazio alla riflessione, all'analisi razionale della fede, a volte ne sono persino offesi. E così mi sono ritrovato in età avanzata senza una buona teoria della religione. Come rimediare?
Mi sono messo in ricerca e ho incontrato (sui libri) alcuni studiosi - sia atei che credenti - i quali sostenevano che l'atteggiamento religioso ha una profonda radice cognitiva, è cioè un fenomeno del tutto naturale e sempre lo sarà. L'essere religiosi si attaglia al nostro cervello. Il contorno dell'identità religiosa è modellato dalla storia, dalle liturgie e dalle teologie, ma le radici della sensibilità religiosa, sono antiche e primordiali. In questo senso mi sono ritrovato nello strano connubio tra Nuovi Atei e don Giussani: la scelta religiosa "ci corrisponde". Diversamente dai primi, però, non proseguivo pensando che la religione fosse una deviazione dalla retta via, un inciampo nella maturazione individuale. Al contrario: sfidare la nostra natura era per me, oltre che temerario, segno di immaturità.
Successivamente, mi sono avvicinato anche a chi sosteneva una comprensione funzionalista della religione, chi la vedeva come un adattamento culturale. Ci sono molti autori, infatti, che spiegano bene come la religione svolga particolari funzioni nella società o nella psicologia sociale. Spiegano come la religione, ad esempio, abbia reso possibile la cooperazione umana, e come sia stata fondamentale per consentire l'emersione della complessità sociale negli ultimi 10.000 anni. C'è un dibattito aperto sulla questione, e comunque sembra chiaro che la religione non sia stata affatto la "radice di tutti i mali", piuttosto qualcosa di indispensabile per governare la complessità sociale.
Una prospettiva culturale è importante per colmare la lacuna principale dell'antropologia cognitiva: come spiegare le variazioni nell'espressione della religiosità? Gli antropologi cognitivi avevano buone argomentazioni sul perché i fenomeni religiosi tendevano a incanalarsi in determinate direzioni (ad esempio, perché gli dei sono antropomorfi), ma non spiegavano, ad esempio, perché certe persone fossero atee o perché la religiosità oscillava nel tempo.
Le origini dell'incredulità rappresentano un banco di prova fondamentale per una buona teoria della religione. Quando si diventa atei? Ora bene o male lo sappiamo, e c'è un modo semplice per rispondere: la maggior parte delle persone si comporta come le pecore. In ambienti atei la persona comune trova le affermazioni religiose inverosimili. Al contrario, in ambienti religiosi le proposizioni atee sembrano ai più ridicole oltreché blasfeme. Proprio come per i credenti, molti atei non derivano affatto la loro "fede" da una riflessione. La religione, in questo senso, condivide molte caratteristiche con la politica e la cultura. In Italia amiamo l'opera ma non certo sulla base di profondi giudizi estetici!
L'ateo e il credente hanno una struttura mentale loro propria, nessuno lo nega, ma si tratta di pre-condizioni che conducono all'esito previsto (ateismo o fede) solo se immerse nel giusto contesto. Per esempio, la credenza in Dio o in altri poteri soprannaturali può essere collegata in modo cruciale alla capacità cognitiva umana di inferire gli stati mentali di altre persone ("mentalizzazione"). I credenti religiosi pensano intuitivamente alle loro divinità come esseri con stati mentali che anticipano e rispondono ai loro bisogni. Pertanto, l'incapacità di "mentalizzare" rende la credenza meno intuitiva. Questa capacità manca più spesso agli uomini, e cio' spiega il faith-gap. Tuttavia, la probabilità di diventare ateo è indotta dalla scarsa esposizione a stimoli culturali credibili dell'impegno religioso, in questo senso lo stile cognitivo del singolo ha un peso molto più ridotto.
Faccio solo un esempio, prendiamo una società avanzata del XXI secolo, sarà un posto dove è molto importante saper scrivere un programma per i computer. Ma per svolgere al meglio questo compito la capacità di "mentalizzare" è alquanto relativa. Si tratta di qualcosa destinato a perdere valore. Da cio' deriva il fatto che sempre più persone prive di questa abilità potranno comunque avere successo e creare un contesto di successo dove l'ateismo puo' trovare il giusto reagente e diffondersi a macchia d'olio.


mercoledì 25 dicembre 2019

ABOLIRE IL NATALE?

ABOLIRE IL NATALE?
Ci sono ottimi motivi per farlo. I credenti pensano che sia il giorno della nascita di Gesù, ma gli studiosi ne dubitano fortemente per almeno due motivi. Innanzitutto, i pastori; nella tradizione si cantava invadendo i campi con le proprie pecore, ma cio' accadeva in primavera. La Stella dei Magi fornisce ulteriori dubbi. Le simulazioni ci dicono che molto probabilmente quella luce era prodotta dalla brillantezza di Giove particolarmente vicino a Saturno, ma è comunque in autunno che si sarebbe realizzato questo fenomeno. Insomma, il Natale non è il momento giusto per fissare la nascita di Gesù.
La tradizione natalizia è poi caratterizzata dai regali ad amici e parenti. I genitori vendono ai bambini la storia di Babbo Natale, un vecchio buontempone con la barba, in origine probabilmente un santo storico il cui racconto è stato pesantemente abbellito: volerebbe in aria con una slitta trainata da renne e visiterebbe tutte le famiglie sulla Terra in un solo giorno, quello di Natale appunto. Questa tradizione in realtà sembra pagana, più di uno studioso nota che i dettagli sono tratti da una leggenda di Odino. Sebbene fonti non banali sembrino supportare la presenza di Babbo Natale, nessuno ha fornito dati sufficienti. Concludere che Babbo Natale non è reale è doveroso.
E quali sono gli effetti economici di tutti questi doni? Dato che i regali hanno un valore, si potrebbe presumere che la tradizione natalizia porti un beneficio a negozi e dei mercati. Ma gli economisti dicono che tutto il casino natalizio nasconde una perdita secca: spenderesti gli stessi soldi ma in modo più oculato. Spendere per se stessi ottimizza il valore molto meglio che spendere in favore di altri. I regali vengono scelti da incompetenti e/o disinteressati.
Quando acquistiamo per gli altri, i reali bisogni del beneficiario ci sono sconosciuti. I regali non aumentano il benessere e non aumentano la crescita economica, al contrario, tutti concordano che sono più o meno uno spreco economico.
Cosa resta di buono nel Natale? Dipende. Le vacanze sono un momento per vedere la famiglia e gli amici in una stagione di oscurità e tempo inclemente. Il Natale offre una scusa per riunire le persone. Le persone pregano per Gesù e la pace nel mondo e si sentono più buone; i parenti sono più uniti; i lavoratori ottengono del tempo libero; i bambini piccoli sono felici! Il Natale ci fornisce un pretesto per ballare e cantare, per esporre le decorazioni e far suonare le campane. Nonostante lo spreco economico, nonostante i giorni sballati, è molto probabile che questi valori non quantificabili superino di molto quelli quantificabili. In questo senso sia lo Scrooge che il Grinch che è in me deve arrendersi. Fare i calcolini è come cercare le chiavi sotto il lampione: non sta lì, ma è l'unico posto illuminato; la bellezza del Natale, quando c'è, non è quantificabile. Puo' essere utile ragionare come il Grinch, purché non si raggiungano le sue conclusioni: la parte buona del Natale non puo' essere misurata.
Buon Natale.

martedì 24 dicembre 2019

LA STRATEGIA DI FRANCESCO: AMBIGUITA' + PURGHE.

LA STRATEGIA DI FRANCESCO: AMBIGUITA' + PURGHE.
Francesco è chiamato a cambiare la chiesa, in particolare ad introdurre forme di relativismo nel suo insegnamento morale. Un compito improbo. Come cambiare chi fa della Tradizione il suo punto di forza? Come capovolgere un insegnamento passato che non puo' essere contraddetto pena la scomunica? Occorre avere del genio per buttarsi in questa impresa. Oggi capiamo meglio la strategia scelta da Francesco: allusioni, no comment e rimozioni più o meno silenziose negli organigrammi. La via gesuitica per eccellenza. Mi spiego meglio.
In diversi momenti del pontificato, papa Francesco ha concesso interviste a Eugenio Scalfari, si è trattato di interviste alquanto strane poiché nessuno prendeva appunti. Gli articoli che seguirono furono "trascrizioni" di un dialogo evocato dalla memoria dell'ottuagenario (e anche un po' rincoglionito) giornalista. In questa sede Francesco tendeva ad essere piuttosto spericolato, anche se per la forma scelta risultava alquanto difficile comprendere cosa il pontefice avesse effettivamente detto. Per esempio, nell'autunno del 2013 (prima conversazione), sembra che il papa avesse definito il proselitismo un' "assurdità solenne", precisando che "non esiste un dio cattolico", e suggerendo che "ognuno ha la propria idea di bene e male e deve scegliere di seguire il bene e combattere il male come lo concepisce", concludendo con questa perla new age: "... la nostra specie finirà ma la luce di Dio non finirà e a quel punto invaderà tutte le anime e sarà tutto in tutti". I virgolettati sono quanto riferisce Scalfari, non le parole uscite dalla bocca di Francesco. il sito ufficiale del Vaticano, dopo aver pubblicato l'intervista, la ritirò immediatamente dopo dicendo che "il testo era una ricostruzione" approvata da Francesco senza per questo che fossero "chiare le parole esatte usate dal papa".
Una delle solite gaffe di Francesco? No perché nell'estate del 2014 lo strano colloquio "senza appunti" si ripete nonostante i casini sollevati dal precedente. Evidentemente la formula de-responsabilizzante piaceva a Francesco, che questa volta sparò a zero sui cardinali: "colpevoli degli abusi sui bambini" impegnandosi a "trovare soluzioni" al "problema" del celibato sacerdotale. L'ufficio stampa vaticano fa i salti mortali e sostiene che mentre lo "spirito" della conversazione è riportato in modo accurato, "le espressioni individuali che sono state usate per riferire il dialogo e il modo in cui sono state riportate non possono essere attribuite al papa".
Francesco, da vero gesuita, è come un topo nel formaggio nella formula del dico/non-dico, e nella primavera del 2015 concede a Scalfari un altro giro di walzer, e, ormai si è capito, altre sparate ad alzo zero: le anime perdute sarebbero "annientate" invece che dannate. Di fatto per il papa l'inferno non esisterebbe, ci fa sapere il sempre più ottuagenario Scalfari. L'ufficio stampa vaticano suda freddo a balbetta che si tratta di discussioni private i cui dettagli non possono essere confermati.
E' qualcosa più di un sospetto che Francesco veda un vantaggio strategico in questo tipo di comunicazioni deliberatamente inaffidabili. Per lui sono un mezzo per lasciar trapelare un messaggio informale ai suoi sostenitori. Si lancia il sasso e si ritira la mano, nella tradizione gesuitica. Non sorprende quindi che sia tornato da Scalfari dopo il secondo sinodo sulla famiglia per darne un'interpretazione a cui nessuno sa che valore dare. Qui il nodo era la comunione ai divorziati, ovvero la questione cardine attraverso cui il soggettivismo prova a far far breccia nella morale cattolica. Si tratta di capire se puo' essere accordato il perdono a chi trova certe prove troppo dure - per esempio la convivenza casta - e fallisce nel tentativo di superarle. Scalfari riferì che secondo il papa il soggettivismo nel caso dei divorziati risposati è ammissibile e che "... le valutazioni di fatto sono affidate ai confessori, ma alla fine di percorsi più o meno rapidi, tutti coloro che lo chiederanno saranno ammessi al sacramento...". Come al solito il Vaticano ha negato che questa citazione fosse necessariamente accurata, anche se ormai la musica l'abbiamo capita, non siamo tonti.
Ad ogni modo, la posizione riferita da Scalfari fu rinforzata da Padre Spadaro, lo spericolato interprete ufficioso del papa, che pubblicò un riassunto del sinodo su Civiltà Cattolica, divenuta nel frattempo la rivista papalina per eccellenza. Tutto ciò che contava, scrisse Spadaro, era che il documento parlava dell'integrazione dei risposati e che l'insegnamento tradizionale non era quindi stato riproposto. Il sinodo costituiva un ribaltamento della tradizione. Questa lettura del del sinodo in termini di rottura era simile a quella che molti cattolici progressisti hanno sempre dato dei documenti del Vaticano II: ciò che conta è la direzione impressa al movimento più che la lettera. Si prendono le distanze dal metodo tradizionale di interpretazione del magistero della chiesa, secondo il quale qualsiasi documento doveva essere interpretata nel segno della continuità: ovunque ci fossero ambiguità la tradizione preesistente doveva rimanere la regola. Poiché parliamo di testi dove l'ambiguità la fa da padrone, progressisti e conservatori potevano guardare alla stessa lettera traendone implicazioni radicalmente diverse,
E Francesco che faceva nel corso di questo stallo post-sinodale? Francesco sembrava segnalare a più riprese che nelle sue dichiarazioni finali avrebbe risolto quelle ambiguità nel senso di autorizzare una nuova disciplina, la comunione sarebbe stata concessa ai risposati senza particolari percorsi di penitenza formale, ma attraverso lo scivolo agevolato di una decisione personale dei singoli pastori. Coloro che avevano preso nel sinodo una posizione contro la comunione per i risposati, ha scritto nel novembre successivo il sacerdote-editorialista canadese Padre de Souza, “devono essere pronti affinché il Santo Padre decida diversamente". La Chiesa è stata preparata da molte voci ad un esito di questo tipo.
Cinque mesi dopo, finalmente arrivò la tanto attesa esortazione papale Amoris Laetitia, la piú lunga enciclica della storia, un documento a volte ricco di intuizioni pastorali, a volte ripetitivo e banale. Ma tutti gli occhi erano puntati sull'ottavo capitolo, in cui si giocavano i destini della dottrina cattolica. Ebbene, dopo averlo letto, nessuno poteva dire di averlo compreso per quanto era vago. Parecchi passaggi chiave sembravano prendere in prestito da un saggio che l'arcivescovo - amico del papa - Victor Fernández aveva scritto dieci anni prima per una conferenza in polemica con la Veritatis Splendor. Di fatto il papa argentino ammucchiava elenchi di fattori attenuanti che rendevano meno grave un apparente peccato mortale. Veniva considerato un po' tutto nel tentativo di "medicalizzare" il peccato: tumulti familiari, psicologia personale, esigenze della vita moderna. Senza dubbio l'impressione è che Francesco non stesse argomentando nel solco di Giovanni Paolo II ma in opposizione. Si voleva giungere alla conclusione che le circostanze personali attenuassero la colpevolezza morale. Ma fino a che punto? Nella mente dei progressisti bisognava arrivare a dire che in molti casi l'insegnamento della chiesa sul matrimonio e sulla sessualità chiedesse troppo al "cristiano ordinario". In questo caso, si sarebbe arrivati vicini a contraddire non solo Giovanni Paolo e altri papi recenti ma il Concilio di Trento nel XVI secolo affermando chiaramente una forma di relativismo, ovvero che alcune circostanze "non consentono" a certi crisitiani di evitare il peccato, e che quindi in alcuni casi il peccato non è tale. Insomma, la grazia di Dio a volte è insufficiente. Sarebbe questa una revisione seria della posizione tradizionale della chiesa, una posizione più vicina ad alcune teologie protestanti. Questo flirt con la revisione teologica era così grave che provocò oltre venti pagine di modifiche suggerite dalla congregazione per la dottrina della fede presieduta dal cardinale Müller. Ma tutti i suoi suggerimenti furono ignorati. Con Muller bisognava regolare i conti dopo. In conclusione, fu chiaro un po' a tutti che il capitolo otto di Amoris Laetitia desiderasse ardentemente cambiare le regole della comunione nella chiesa, la sua logica suggeriva come un tale cambiamento fosse ragionevole e desiderabile. Eppure il papa evitava con cura di parlare della cosa in modo diretto o esplicito. Avrebbe dovuto dire: "... per molti divorziati risposati, la legge della chiesa è troppo difficile da seguire, i dilemmi morali troppo estremi, e quindi costoro non possono essere considerati come peccatori gravi e, di conseguenza, è giusto che abbiano accesso alla comunione se in buona coscienza...". Il papa si limitò a far trapelare questo pensiero eretico senza mai pronunciarlo. Certo, ci andò vicino con la nota 329, nella quale si ritiene che è irragionevole che la chiesa chieda - come ha fatto Familiaris Consortio di Giovanni Paolo - che una coppia risposata con figli cerchi di vivere come fratello e sorella, senza fare sesso, perché in questi casi "il bene dei bambini" potrebbe deturpato dalla mancanza di intimità dei genitori. Oppure nella nota 351, nella quale ci si riferisce a persone che, a causa di "fattori condizionanti e attenuanti", potrebbero non essere "soggettivamente colpevoli" per i loro peccati, e quindi dovrebbero essere aiutate a "crescere nella vita di grazia e carità" anche prima che la loro situazione irregolare venga risolta, e che in certi casi, questo aiuto può includere l'accesso ai sacramenti. Ma quali sono quei "certi casi" in cui i sacramenti possono essere dati? Includono quei casi in cui le persone continuano a vivere nell'adulterio pubblico? La nota a piè di pagina non lo diceva chiaramente; si limita ad allusioni che lasciano aperta la possibilità. Ma la disciplina ecclesiale su un insegnamento morale di base puo' essere appaltata a una ellittica nota a piè di pagina o a un'esortazione papale deliberatamente ambigua? A seconda dell'interpretazione che se ne dà, l'Amoris Laetitia di Francesco puo' cambiare ciò che i suoi recenti predecessori avevano insegnato in modo nitido. Questo è lo sviluppo rivoluzionario che scuote la chiesa!
Veniamo alle reazioni. Ci furono conservatori per i quali il sollievo costituì l'emozione dominante: il papa non aveva esplicitamente insegnato un'eresia. D'altra parte, c'erano conservatori (tra cui il cardinale Raymond Burke) per i quali quelle note e quelle formulazioni erano troppo pericolose per essere ignorate. La tesi della continuità fu difesa da diverse figure di spicco legate a Giovanni Paolo II e Benedetto - tra cui Rocco Buttiglione e Christoph Schönborn. Buttiglione pensava al divorziato intrappolato in un secondo matrimonio che ne coartasse la libertà con costrizioni psicologiche, in cui minacce o ricatti o abusi palesi da parte del partner rendessero il peccato sessuale semplicemente veniale e non mortale, e comunque non abbastanza malvagio da dover astenersi dalla comunione. L'analogia più sorprendente usata era la condizione di una prostituta sotto il dominio di un brutale magnaccia! Erano questi casi veramente estremi, vere e proprie prigioni emotive, sosteneva Buttiglione, che Amoris aveva in mente quando accennava all'apertura della comunione. In simili casi di relazione tossica l'accesso ai sacramenti poteva aiutare. C'era poi il caso dell'ignoranza: un cattolico divorziato e risposato ma che, fuorviato dalla cultura in cui era immerso, non era stato in grado di capire che il secondo matrimonio costituiva adulterio, poteva ricevere provvisoriamente la comunione mentre veniva educato nella piena verità della fede. Naturalmente i progressisti avevano in mente qualcosa di completamente diverso, Kasper proponeva la comunione per i risposati non come un dono temporaneo per persone nel caos e in grande difficoltà, ma come una grazia permanente per i cattolici divorziati che avevano ricostruito le loro vite in un secondo matrimonio. Non relazioni tossiche, quindi, ma relazioni mature ed equilibrate. Kasper operava un ribaltamento: l'opinione ufficiale della chiesa, secondo cui la separazione o il divorzio civile era talvolta accettabile ma il risposarsi sempre sbagliato, era implicitamente ribaltata: il divorzio passato è diventato il peccato chiave e il nuovo matrimonio una sorta di riparazione. La prostituta di Buttiglione, insomma, non era per Kasper un buon candidato a ricevere la comunione. E il linguaggio di Amoris sembrava molto più vicino all'idea di Kasper e all'idea di reinserimento, anche se letture multiple erano possibili e ragionevoli, e poiché il papa aveva rifiutato di scegliere esplicitamente tra queste letture antitetiche, tutte erano state autorizzate.
Il sinodo aveva respinto la visione tedesca di una devoluzione dell'autorità dottrinale, di un cattolicesimo di opzione locale, ma deliberando poi un documento così ambiguo, papa Francesco aveva spinto il cattolicesimo esattamente verso quel tipo di devoluzione: ognuno faceva come gli pareva. I vescovi conservatori - per esempio quelli polacchi o quelli americani guidati da Charles Chaput - dichiaravano tutti contenti che la regola dei secoli precedenti era ancora pienamente in vigore e che il messaggio di reintegrazione del papa era limitato, e che "l'accompagnamento" per i risposati poteva condurre alla comunione solo se avessero ottenuto un annullamento o vivessero come fratello e sorella. Altrove, nelle diocesi progressiste, c'erano vescovi che annunciavano rapidamente la loro intenzione di accogliere i risposati in comunione. Il vescovo Robert McElroy a San Diego, per esempio. A Genova il vescovo Betori istituì un "corso di formazione diocesana". La prima lezione fu tenuta dal suo predecessore, il cardinale Ennio Antonelli, un conservatore che disse agli ascoltatori che il divieto di comunione per i risposati era ancora in vigore. Ma poi, quando la serie di conferenze arrivò al controverso ottavo capitolo, l'oratore invitato dal cardinale Betori fu un sostenitore dell'interpretazione più liberale, mons. Basilio Petra, il quale imboccò la via opposta a quella delineata nell'introduzione. Questi comici episodi chiarirono che non vi era consenso su ciò che Amoris intendesse, nemmeno tra i leader cattolici. La stragrande maggioranza dei cinquemila vescovi del mondo, indipendentemente dal loro orientamento teologico, rifiutava di assumere una posizione ferma, e dopo vedremo perché. Un sacerdote inglese, padre John Hunwicke, prese in prestito una frase dal famoso convertito inglese del diciannovesimo secolo John Henry Newman e parlò di "una sospensione del magistero". Bruno Forte ebbe modo di parafrasare quanto gli disse il pontefice in via confidenziale: "... se parliamo esplicitamente di comunione per i divorziati risposati... non hai idea di che casino faranno questi cardinali legati al passato... quindi non parliamone mai direttamente, si mettano le premesse e io ne trarrò le conclusioni ". Ma è stata questa un'idea così brillante per giungere alla stabilità dopo la tempesta dei sinodi?
Il primo problema era che la Chiesa cattolica non è progettata per agire in modo decentrato. L' "ognuno fa come crede" non è nella sua indole. Ma il paradosso è che nemmeno Francesco è a suo agio in una situazione del genere, il suo stile personale e la tendenza a ignorare la burocrazia avevano concentrato un potere crescente nelle sue mani. Roma era ancora l'arbitro finale. Andava così delinandosi il secondo e decisivo passo: dopo l'ambiguità, le purghe. Dopo i sinodi, le nomine sono diventate sempre più spostate a sinistra, ormai esclusivamente di sinistra. Nel frattempo, ci si mosse per minare e isolare i conservatori che rimanevano in importanti posizioni vaticane, e adesso capiamo meglio il muro di silenzio di fronte alla richiesta di esprimersi sull'esito del sinodo: sbagliare una parola significava minare la propria carriera, chi parlava in modo critico era segnato. Il cardinale Robert Sarah si era tarpato le ali da solo dopo che in un suo discorso esortò i sacerdoti a celebrare la messa vetus ordo. Fu convocato a un incontro con Francesco, e il portavoce del Vaticano lo umiliò pubblicamente, e in una successiva epurazione furono rimossi la maggior parte dei suoi uomini in Vaticano. Diversi sacerdoti furono rimossi dalla CDF dell'odiato Müller senza una ragione apparente. Le purghe furono radicali anche in istituti minori come la Pontificia Accademia per la Vita, che si ritrovarono letteralmente svuotata da un giorno all'altro con nuovi membri tutti rientranti tra i favoriti del papa. Ora, sia Giovanni Paolo II che Benedetto avevano spinto il Vaticano e l'episcopato in una direzione più conservatrice, ma lo avevano fatto per gradi, promuovendo i propri uomini nel rispetto delle scadenze naturali degli incarichi, rispettando i normali processi che trasformavano vescovi ausiliari in arcivescovi, gli arcivescovi in ​​cardinali eccetera. Non c'erano "rimozioni", non c'erano campagne contro il dissenso, non c'erano purghe. Francesco sembra molto più frettoloso di loro. Persino personalità a lui vicine come il boss dei gesuiti americani Thomas Reese disse: "... sono felice che Francesco ponga le condizioni per fare in modo che il prossimo papa sia come lui... ma questi metodi costituiscono un pericoloso precedente che penderà come una spada di Damocle sulle gerarchie di ogni tendenza, le cotropurghe saranno inevitabili qualora le cose non andassero come tutti noi speriamo...". Ci fu poi il caso dei Cavalieri di Malta, un ordine benefico - e molto ricco - dotato di una sua autonomia in cui Francesco entrò a piè pari azzerando i vertici per rimpiazzarli con persone a lui gradite. La questione che fece litigare i due capi - Boeselager e Fra' Mattehew Festing - fu una distribuzione di preservativi, ma sotto covava la cenere; il primo si rivolse in Vaticano e lì presero la palla al balzo ottenendo le dimissioni di tutti i "nemici" e la reintegrazione degli "amici". Fu un caso di "annessione morbida" senza basi nel diritto internazionale. Ma si sa, papa Francesco odia i legalismi, e il tesoretto in gioco era notevole.
Nel frattempo, tra tante ambiguità, una cosa si è chiarita: il tentativo di Roma di inserirsi in una via di mezzo tra progressisti e conservatori, è un ricordo del passato. Francesco è più che mai schierato conto la tradizione, ha preso partito in modo chiaro anche se senza mai dirlo in documenti ufficiali, senza mai caricarsi di alcuna responsabilità formale. Quello che era stato uno dei tanti temi affrontati nelle prediche papali - i pericoli del farisaismo e del legalismo, i mali della rigidità, i cuori chiusi dei dottori della legge - divenne un tema costante, ripetuto settimanalmente in vari contesti. Francesco deplora di continuo il ritorno di una mentalità "in bianco e nero" tra i sacerdoti più giovani. Nelle sue uscite sempre a metà tra la gaffe e l'allusione ha avuto modo di deridere la tonaca e la tonsura di alcuni chierici tradizionalisti. Ha anche intensificato i suoi interventi non ufficiali a favore di un'interpretazione più liberale di Amoris. Quando i vescovi di Buenos Aires produssero le loro linee guida che consentivano ai sacerdoti di ammettere alcuni divorziati risposati alla comunione, è "trapelato" che il papa aveva scritto una lettera "privata" elogiando quelle linee guida e dicendo che "non erano possibili altre interpretazioni" .
Nel frattempo, il problema tanto temuto andava concretizzandosi: il relativismo della logica applicata al problema della comunione per i risposati andava estendendosi ad altre questioni, come all'intercomunione con i protestanti. Perché non consentire al coniuge protestante di un matrimonio misto di accedere alla Comunione? La pratica era già in vigore in alcuni casi limitati con gli ortodossi, ma loro riconoscevano la transustanziazione e la sacralità dell'ordine. Non era questo il caso dei luterani. Farli accedere avrebbe significato che uno puo' prendere l'eucaristia senza nemmeno credere al suo significato. Tuttavia, in nome del relativismo questa necessità puo' essere invocata (perché turbare la serenità della coppia?) e nel 2016, in occasione del seicentesimo anniversario della riforma, Walter Kasper si augurò questo passo di fronte ad un papa che segnalava il suo favore per la misura rispondendo così a una luterana che chiedeva il permesso di comunicarsi con suo marito: "... parla nel tuo cuore con Dio e procedi. Non ho altro da dirti". Un altro caso fu quello canadese, quando in quel paese si deliberò una legge per il suicidio assistito, i vescovi scrissero una lettera in cui ricordavano i doveri dei cattolici, in particolare i doveri dei pastori che in casi del genere devono recare conforto senza però concedere i sacramenti. Ma alcuni di loro presero le distanze, e citando il relativismo di Francesco sostennero che in alcuni casi il sacramento deve essere incluso nel conforto dovuto. Queste ed altre lezioni sono un monito per i conservatori silenti: accondiscendere non garantisce affatto la stabilità. Tutt'altro.
E i conservatori non-silenti? Fondamentalmente furono quelli senza incarichi, quelli già in pensione senza nulla da perdere e quindi al riparo dalle purghe di Francesco. Costoro espressero i loro dubbi chiedendo esplicitamente a Francesco: "il documento X consente la pratica Y?". Una formula analitica del tutto estranea al mondo nebuloso dove vive il nuovo papa. Oserei dire una forma "violenta" di chiarezza. Burke, Brandmuller, Meisner e Caffarra, teologicamente dei pesi massimi, posero i cosiddetti "dubia" chiedendo se l' insegnamento che bandiva i divorziati risposati dalla comunione doveva ritenersi abbandonato e se l'insegnamento per cui le circostanze e le intenzioni soggettive non possono trasformare la natura di un atto intrinsecamente peccaminoso aveva subito la medesima sorte. Papa Francesco scelse di non rispondere e ordinò alla CDF di fare altrettanto. I cardinali scomodi, con una mossa inusuale, decisero così di rendere pubblici i dubia. Il papa continuò ad ignorare la questione ma prese l'altrettanto inusuale decisione di cancellare l'incontro generale con i cardinali. E così oggi i dubia restano lì, sospesi, senza una risposta ufficiale, a testimoniare una questione insoluta per alcuni, e una provocazione arrogante per altri. Spadaro, Kasper e Cupich, infatti, li declassarono a questione priva di contenuti, un mero attacco al papa che aveva già fatto chiarezza in abbondanza (sic). Il capo dei vescovi greci arrivò ad accusare gli autori dei dubia di apostasia ed eresia per aver attaccato l'autorità petrina. Alcuni cardinali intimoriti - come Pell e Sarah - offrirono un supporto poco deciso. In genere ci si divideva e il silenzio era l'opzione preferita dalla maggioranza. Ora sappiamo perché.
Ambiguità, purghe, silenzio, no comment. Il magistero di Francesco, nonché la sua grande riforma della chiesa, si fonda su questi pilastri.

lunedì 23 dicembre 2019

K.

Ecco un articolo di

Il suo è uno dei pochi "libroni" che sono riuscito a finire negli ultimi 10 anni, e ancora non mi spiego bene come ho fatto, la lettura, almeno all'inizio, non era certo appassionante, con tutto quel giustapporsi di eventi minimi, al confronto dei quali le vicende del Carver dei racconti sono a dir poco avventurose. Ma se devo dirla tutta neanche dopo posso affermare che la sua prosa sia mai decollata, da qui la mia incredulità per la mia personale impresa, evidentemente la sua scrittura nasconde un segreto che mi ha reso fedele. Anche questo articolo me lo sono letto tutto senza capire bene cosa comunicasse, a parte il fatto che in un mondo sempre più veloce la letteratura agisce lentamente, francamente non mi sembra un'ideona che merita di essere ospitata in riviste prestigiose. Il fatto poi che la letteratura possa dirci "chi siamo" è addirittura banale, poteva evitare quel passaggio. Parla poi anche del suo amato Lucrezio in termini che non posso definire illuminanti,sembra fondamentale il fatto che comparasse gli atomi alle lettere, e che per lui "la dimensione degli atomi convive con il mondo che vediamo", inoltre dalla sua lettura si evince che "l'uomo non è più grande della foresta". Boh. Poi parla di una poetessa danese che lui ha letto da ragazzo rimanendone stregato, una che scriveva poesie come fossero la lista della spesa (cita in abbondanza). Oggi l'ha riletta estraendone nuovi significati, queste liste, a quanto pare, crescono come successioni di Fibonacci (0,1,1,2,3,5,8,13,21,34,55,89,144) e la natura che ne esce appare sia ubbidiente che in abbandono di sè, sia matematica che mistica. Non so bene cosa voglia esprimere, forse che la scienza e la letteratura sono due modi paralleli per leggere il mondo. Ma, aggiunge, tutto ci conduce laddove la lettura del mondo si interrompe, e qui si specula di frattali e superstringhe pur di non parlare di Dio. A questo punto tira fuori il Faust - sia l'originale che quello di Goethe e Mann - e le sue tentazioni demoniache di conoscenza: dove nelle vicende umane compare questo desiderio di conoscenza, compare sempre il demonio, è un fatto, di questo è sicurissimo. Ad un certo punto fanno capolino anche Lutero e Gutenberg, che con la stampa, disseminando la conoscenza ovunque, ha separato di fatto scienza e religione. Si chiude sul peccato originale, che lui vede come una specie di imprudenza animata da buone intenzioni ma che di fatto innesca una spirale di catastofi. Fine.

Come vedete, niente di memorabile, idee appena sbozzate e concettualmente difficili da collegare tra loro, sempre espresse in uno stile non disprezzabile ma nemmeno scintillante, però, ancora una volta, me lo sono letto fino in fondo, il perché ancora mi sfugge.

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PAROLE AMBIGUE: COOPERAZIONE.


Vi piace la parola "cooperazione"? Scommetto di sì. Negli anni sessanta era una parola d'ordine. Scommetto che ne desiderate sempre di più. Non è forse quello che abbiamo ottenuto? E questo non ha portato ad aumenti piuttosto spettacolari nella disparità delle ricchezze?

Il fatto è che le persone di talento guadagnano di più in termini percentuali dalla cooperazione reciproca, almeno rispetto alle persone meno talentuose. La logica è abbastanza evidente. Supponiamo che si acollabori all'interno di due gruppi che chiameremo A e B ma che non vi sia alcuna collaborazione tra i due gruppi. Tuttavia, se la cooperazione si allarga i talentuosi di A collaboreranno con i talentuosi di B staccandosi nettamente dai meno talentuosi.

Organizzare la band del liceo fornirà un intrattenimento di qualità modesta. Tuttavia, se la scelta dei membri si allarga a tutte le scuole finiremo con avere i Beatles o i Rolling Stones che si accaparreranno tutti gli spettacoli in circolazione lasciando nella polvere le altre band.

i salari più alti nelle super-imprese digitali - che raccolgono i migliori talenti - rispetto a quelli delle imprese "normali", rappresentano oggi una quota importante della disparità di reddito.

Più cooperazione → maggiore disparità di reddito. Pensateci.

LA TRISTE VICENDA

Trigger Warning: qui parlo di aborto, argomento che puo' turbare chi non riesce ad affrontarlo su un piano unicamente razionale.
LA TRISTE VICENDA


Nella triste vicenda dell'aborto gli interessi in gioco sono tanti. Innanzitutto, quelli della madre, ovvero la sua sicurezza, la sua salute, ma anche gli oneri economici, emotivi e fisici della maternità. C'è poi il padre, che condivide gli oneri economici ed emotivi della genitorialità. Il feto mette in ballo nientemeno che la sua sopravvivenza. Infine la società in generale, che ha interesse nell'applicare la giustizia e preservare i diritti dei suoi membri. Il punto di conflitto sorge quando una madre (o entrambi i genitori) desiderano interrompere e sopprimere il feto prima del parte.
Prima di prendere di petto, qualche dato di contorno: 1) gli aborti sono in calo. 2) Per le donne sottoporsi ad aborto è meno rischioso che partorire. 3) Il rischio di un parto non è una bazzecola, ancora oggi sfiora quello di avere un incidente mortale in auto. 4) Le madri a cui è stato negato l'aborto hanno una probabilità significativamente maggiore ritrovarsi disoccupate, in condizioni di povertà e di utilizzare programmi di assistenza sociale (non traete conclusioni sui nessi) 5) i bambini indesiderati hanno una una maggiore probabilità di vivere in condizioni di povertà e di commettere crimini. 6) L'adozione è un'alternativa all'aborto ed elimina gli oneri socioeconomici a carico dei genitori. Tuttavia, l'adozione è raramente considerata. I gruppi pro-adozione denunciano che sia i pro-choice che i pro-life non presentano in modo adeguato questa opzione. E' anche vero che la capacità ricettiva dell'istituto è sottodimensionato rispetto agli aborti.
Ma poi, al di là del contorno c'è la pietanza, ovvero la domanda fondamentale: a che punto dello sviluppo del feto l'aborto diventa un atto eticamente deprecabile? Riduco a due le ipotesi in campo: 1)concepimento e 2) vitalità. Chi supporta la prima di solito ricorre alla cosiddetta "tesi del futuro", chi supporta la seconda alla "tesi della vita". Cerco di esporle in modo imparziale cosicché ognuno faccia la sua scelta, io alla fine non mancherò di assegnare la mia preferenza cercando però di tenere distinte le opinioni dai fatti.
Cominciamo dalla prima. In molti individuano nelle caratteristiche del feto - dimensione, livello di coscienza, capacità di provare dolore, ecc. - la variabile fondamentale su cui condurre gli approfondimenti del caso. Si sostiene cioè che una certa caratteristica, o la sua mancanza, conferisca al feto un diritto alla vita. Sfortunatamente, come vedremo, approcci del genere finiscono per avere effetti collaterali perversi, come quello di dare diritti a una pecora ma non a un bambino. Un punto di partenza più promettente lo fornisce il buon senso: chiediamoci perché uccidere un uomo come te o me sia sbagliato e verifichiamo se il medesimo standard sia applicabile o meno al feto.
Donald Robert Perry Marquis sosteneva, per esempio, che uccidere qualcuno come te o me sia prima facie condannabile poiché il defunto resta privato di una "vita futura", ovvero un bene che gli spetta di diritto. Il danno per il defunto, cioè, è la perdita del suo prezioso futuro prima ancora che la sofferenza per aver subito un atto violento. Questo è talmente vero che l'omicidio viene punito a prescindere dalla sofferenza della vittima. Chi muore nelle camere a gas non soffre, ma nessuno dubita che anche in questo caso un diritto sia stato violato. Chiaramente, questo approccio spiega perché sia sbagliato uccidere gli uomini adulti o i neonati, si tratta di soggetti che hanno un futuro, nessuno lo negherebbe. Lo sperma e un ovulo, al contrario, non hanno futuro che appartenga loro. A questo punto non resta che capire cosa ci troviamo di fronte nel caso dell'aborto. Le nostre intuizioni differiscono sullo status di un tipico zigote a singola cellula. Si puo' davvero dire che questo ente abbia un futuro? Un criterio prudenziale, ma soprattutto l'assenza di buone teorie alternative, consiglia una risposta affermativa alla domanda. Secondo molti, quella continuità di processo naturale che congiunge lo zigote all'individuo che sarà ci consente di parlare in modo legittimo di passato-presente-futuro. In altre parole: lo zigote è il nostro passato. E noi tutti siamo a pieno titolo il futuro di uno zigote. Se riuscite a pensare questa cosa non potete eludere la cosiddetta "tesi del futuro".
Secondo altri, invece, l'aborto è moralmente accettabile fino a quando il feto non sviluppa le strutture necessarie per la percezione degli stimoli esterni. La capacità da parte del feto di sperimentare una sofferenza cosciente è decisiva. Senza quella sofferenza, il "contorno" di cui sopra, ovvero il carico fisico, mentale ed economico imposto alla madre prevarrebbe. Poiché i requisiti minimi per la percezione cosciente sono effettivamente soddisfatti solo dopo la cosiddetta "vitalità fetale", sarà proprio questo momento a costituire la barriera etica che cerchiamo.
Ebbene, a livello empirico, alcune strutture neurologiche sono necessarie per la percezione del dolore. Pertanto, finché queste strutture non sono presenti e attive, la percezione non può verificarsi. Per provare dolore, il sistema nervoso deve formare le sue sinapsi spino-talamiche che si proiettano sul talamo, che poi si connettono a loro volta ai neuroni talamo-corticali, che si innervano nella corteccia (la regione della coscienza). Queste componenti devono essere tutte attive per consentire la percezione del dolore. Sulla base di studi multipli, i neuroni ricettivi si sviluppano intorno alle 19 settimane, gli afferenti talamici raggiungono la corteccia dopo 20-24 settimane e l'attività somato-sensoriale provocata dall'attività talamica è rilevabile intorno alle 28-29 settimane. Prima di tale sviluppo del sistema nervoso, l'esperienza del dolore di un feto sarebbe probabilmente simile a quella di un individuo in coma, ovvero nulla. Pertanto, quando si considera un aborto prima di questa fase di sviluppo, stiamo bilanciando (1) i danni indubitabili e sopra descritti che affronta la madre, un agente cosciente, contro (2) i danni inflitti ad un'entità che non "sperimenta" nulla. La tesi della "vitalità" comporta che di fatto il feto sia intoccabile solo dal momento in cui non richiede più un corpo entro il quale sopravvivere (a 28-29 settimane puo' essere tenuto in vita all'esterno). La "vitalità" rappresenta un momento speciale nello sviluppo di un feto, perché, oltre a provare dolore, superata questa soglia puo' vivere la sua vita senza rappresentare più un rischio significativo per il benessere fisico della madre.
I fautori della "tesi vitale" sostengono in sintesi che poiché un feto prima delle 28/29 settimane non è in grado di "soffrire in modo cosciente", è possibile abortirlo. Tuttavia, ci sono momenti in cui anche un uomo fatto e finito non è cosciente, per esempio quando è temporaneamente in coma. Gli stessi sostenitori della "tesi vitale" propongono questa analogia per il feto non vitale. Eppure, per quanto in quelle condizioni non si soffra, cio' non significa che si possa essere eliminati. Basta spingere oltre l'analogia per comprenderlo. La capacità cosciente di soffrire non sembra una variabile chiave per decidere cosa è consentito fare. Oltretutto, è improbabile che un feto vitale o un bambino abbiano un senso di sé molto superiore a quello di un cane o di un delfino. E' vero semmai il contrario, cosicché, stando alla "tesi della vitalità", dovrebbe essere lecito sacrificare i primi per salvare i secondi, cosa che contrasta in modo stridente con le nostre intuizioni. Per questi motivi, l'esperienza della sofferenza non sembra essere ciò che rende sbagliato raschiare un feto. In questo senso, la "tesi del futuro" sembrerebbe prevalere.
Ma davvero il "potenziale" conta quanto l'attuale? Molti non sono disposti ad accettarlo. Da un lato si dubita che abbia senso parlare del "futuro" di un feto; certo, immaginiamo cio' che diverrà, immaginiamo il suo potenziale ed estrapoliamo i suoi diritti da lì. Tuttavia, un feto incarna un potenziale ma non si può dire che "possieda attualmente quel futuro". Perché? Secondo Boonin, il valore intuitivo del futuro deve avere un corrispettivo in un valore attuale che nel caso del feto non c'è, visto che latitano le adeguate strutture neurologiche atte ad esperire la vita. Un feto vitale, al contrario, desidera il cibo, il contatto ravvicinato ed è sensibile alla voce dei genitori: è già cio' che sarà in futuro.
Quanto alla persona in coma, l'analogia per Boonin non regge: esiste una chiara distinzione tra un'entità che ha avuto in passato un'esperienza cosciente e un'entità che cosciente non è mai stata. Una persona che dorme in coma ha ancora i suoi ricordi, i suoi desideri, tutto è presente e codificato nel suo cervello al momento in un limbo; il fatto che sia temporaneamente inconsapevole non significa che non esistano più quei beni! Non abbiamo diritto di azzerare questo suo patrimonio. Al contrario, un feto prima di essere vitale non ha alcun desiderio, nessuna memoria, nessun patrimonio da dover preservare. Nel caso speciale di un feto, inoltre, l'ubicazione ha eccome un significato morale. Il feto che vive all'interno e dipende dal corpo della madre, comporta costi e rischi immediati per la l'ospite. Al contrario, una volta uscito da quel corpo, il feto/neonato non pone più di queste minacce, per quanto sulla madre gravino ancora i significativi oneri economici e sociali della maternità.
Francamente non so fino a che punto una replica del genere puo' risultare convincente. A me personalmente non convince. Il futuro di cui è privato il feto non dipende certo dal fatto che il feto ne debba averne coscienza qui ed ora. Nemmeno un bambino di 4 anni ha una buona comprensione di cosa significhi essere un 60enne, eppure del suo futuro fa parte anche quel periodo della vita. Se il bambino di 4 anni viene ucciso, ha perso non solo le relazioni che in qualche modo comprende in quanto bambino di 4 anni perché fanno parte della sua vita già in questo momento, ma anche un futuro estraneo a ogni discernimento attuale, come la sua carriera o i suoi figli, ovvero ciò che avrebbe trovato prezioso e significativo da adulto. Anche la replica sull'uomo in coma è carente. Si dice che costui, contrariamente al feto, ha una memoria già formata di cui verrebbe privato, che ha cioè un patrimonio pregresso, a fronte del nulla fetale. Tuttavia, le cose non cambierebbero affatto anche ipotizzando che azzeri tutta la sua memoria e la sua personalità precedente: l'interdetto ad uccidere rimarrebbe, e rimane in nome del suo diritto al futuro (visto che il passato non c'è più). Proprio come nel caso del feto.
Per concludere, personalmente considero rilevanti due fattori: 1) è ragionevole, in caso di sesso consensuale, attribuire ai genitori una qualche responsabilità nei confronti del feto che hanno procreato. Questo obbligo deriverebbe dal fatto che si sono impegnati in attività le cui conseguenze sono ben note, o dovrebbero esserlo. 2) In secondo luogo, nel valutare lo status del feto, la "tesi del futuro" mi sembra più stringente rispetto alla "tesi della vitalità". L'equiparazione tra feto vitale e delfino, nonché quella tra feto non vitale e uomo in coma, secondo me risolvono la contesa. Tuttavia, ammetto che vedere uno zigote monocellulare come persona va contro la mia intuizione, cosicché constato che all'attribuzione di questo status pervengo unicamente attraverso gli argomenti migliori a disposizione e le ragioni prudenziali.
Detto questo, ammetto anche di vedere con orrore la presenza di burocrati incaricati di far portare a termine le gravidanze. Favorirei piuttosto una legislazione decentrata a livello regionale con l'unico vincolo di consentire in materia un'obiezione di coscienza a tutto campo. La prima misura esalta la sperimentazione sociale di cui abbiamo sempre bisogno per il calcolo delle conseguenze, la seconda tutela dei diritti e impone un minimo di costo a chi intraprende attività che mi sembrano eticamente condannabili.

domenica 22 dicembre 2019

L'ESTINZIONE DEL DUELLO

Nelle società avanzate la violenza sta sparendo, sparirà forse anche il disaccordo?
In passato, la violenza era parte integrante della vita. Certo, c'erano regole che incolpavano chi la iniziava ma non era facile per gli osservatori applicarle, ed altrettanto difficile convincere gli omertosi a denunciare. Cosicché i combattimenti erano all'ordine del giorno e la figura del guerriero celebrata per le virtù del coraggio, della forza e della lealtà.
Oggi, non si tollera nemmeno il fisiologico ruzzare degli adolescenti, le cose sono radicalmente mutate. Il fatto è che le norme per individuare "chi inizia" la violenza possono essere applicate in modo molto più perentorio, siamo pieni di telecamere disincentivanti e la nostra capacità osservativa è ipertrofica. Andiamo verso la "società trasparente". I combattimenti, di conseguenza, sono molto più rari, eccellere in questa arte è diventato secondario. La nostra ammirazione non va all'eroe ma al genio che riesce ad incastrare "chi ha iniziato", ovvero il colpevole, il genio che ci consente di fare giustizia. Siamo sempre meno colpiti dal coraggio, dalla forza e dalla lealtà, preferiamo che le persone usino in altro modo queste doti. D'altro canto, guardiamo con diffidenza l'impulsività e la mancanza di empatia, ovvero quelle caratteristiche che fanno da innesco alla violenza e rendono una persona socialmente pericolosa.
Che parallelismo c'è tra disaccordo e violenza? Ha senso dire che "qualcuno inizia un disaccordo"? E come capire chi "inizia un disaccordo", chi è "colpevole" di un disaccordo. Forse un modo c'è. Chi ha fatto ricerche su questo argomento ci dice che la persona "intellettualmente onesta" esprime la sua accurata opinione senza saper prevedere il disaccordo altrui. Cioè, mentre A e B possono avere opinioni diverse, A, se è onesto, non può prevedere che quella di B sarà diversa dalla sua. Un disaccordo del genere è genuino, è sano, non è iniziato da nessuno.
Nel momento in cui io so in anticipo chi è d'accordo con quello che dirò e chi no, meglio per me tacere. In caso contrario sto già "iniziando" una guerra di opinioni. Sono già censurabile in quanto "intellettualmente disonesto". Facciamo il caso estremo: se insulto qualcuno è perfettamente prevedibile che costui non sia d'accordo. Non a caso l'insulto è la forma più censurabile tra gli scambi verbali. Naturalmente è proprio questa oggi la situazione più comune, così come un tempo il combattimento armato era la norma. Ciò implica che nei vari disaccordi che infiammano il dibattito pubblico, una o entrambe le parti non siano oneste, non rispettino le regole della buona discussione. D'altronde, per queste regole non esiste nemmeno una sensibilità spiccata, non le abbiamo ancora interiorizzate, la loro violazione non ci indigna. In una condizione del genere la suddivisione in "noi" e "loro" è la norma, e vengono molto apprezzate la lealtà alla causa, la potenza retorica e la brillantezza argomentativa.
E' parimenti possibile immaginare che alcune caratteristiche delle persone rendano più manifesta la loro disonestà intellettuale. Per esempio, la persona che non cambia mai idea sarebbe altamente sospetta (il testone), la persona molto espressiva anche (il brillantone), l'ignoranza nel merito (il verace) è un altro indizio. Ma se è possibile immaginare tutte queste cose, allora è possibile immaginare un mondo in cui queste "doti" si trasformeranno in disvalori da stigmatizzare, il disaccordo sarà molto meno prevedibile rispetto ad oggi, o addirittura minimi e in via di estinzione, esattamente come potrebbe estinguersi la violenza.
Di fronte a uno scenario futuro di questo genere, molte persone potrebbero avere una sensazione di soffocamento e repressione. Normale, si tratta di persone che godono molto della libertà di non essere d'accordo con nessuno, esattamente come presso gli antichi una persona poteva apprezzare la libertà di entrare in conflitto e sfidare a duello chiunque potendo esibire il suo coraggio e la sua abilità di combattente.