giovedì 8 settembre 2011
Cosa cerchi in un libro?
Stile!
C’ è altro?
… altre miniature stilizzate…e altre ancora…
Per me era scontato, parlo dei libri con velleità artistiche (romanzi, racconti, poesia…). Da profano non riesco davvero a capire le alternative a questa risposta.
L’ autore di un’ opera non “la possiede” proprio perché l’ opera consiste nello stile e chi possiede uno stile non è detto che ne possieda anche un’ interpretazione soddisfacente. A volte manca persino di una coscienza adeguata in merito.
Cosa c’ è oltre allo stile?
Chi ha stile puo’ dire qualsiasi cosa e il giudizio sulla sua opera sarà sempre: bello! Persino di un libello antisemita si puo’ dire “bello!”.
Certo, anche l’ originalità e la genealogia conta: se X ha lo stesso stile di Y ma lo precede nel tempo, la cosa non è del tutto irrilevante.
Sinceramente non riesco a capire cosa possa esistere oltre allo stile.
Ecco, visto che è sempre meglio leggere un saggio con lo spirito di chi ricerca delle risposte a domande già chiare, quando leggo libri di critica letteraria lo faccio con in testa questo assillo: cosa c’ è oltre allo stile?
Non crediate infatti che la questione non sia dibattuta.
Gabriele Pedullà:
Scrittori, bisogna avere stile!
In un amore felice (Adelphi), l'ultimo libro di Guido Ceronetti, esibisce un sottotitolo apparentemente bislacco: «Romanzo in lingua italiana». La replica si offre spontanea già tra gli scaffali della libreria: e in quale altra lingua dovrebbe mai esprimersi un narratore cresciuto a sud delle Alpi? Ma ovviamente si tratta di una provocazione. Ceronetti ci sta dicendo che lui, a differenza di tanti connazionali, continua a scrivere nell'idioma del suo Paese e non in una simil-lingua, senza stile e senza musica, che ricorda piuttosto le cattive traduzioni dall'inglese.
Beninteso, la battaglia in difesa di una prosa sontuosa, in cui si serbi memoria della tradizione letteraria e ci si diverta a giocare con le parole per scovare nuovi significati, non ha nulla di particolarmente originale. Il Novecento, per esempio, ha sperimentato in tutte le sue asprezze la lotta tra quelli che Tomasi di Lampedusa chiamava gli «scrittori grassi» e gli «scrittori magri». Si tifava per gli uni o per gli altri, con la medesima passione con cui si sosteneva un partito politico. Eppure – gaddiani o hemingwayani, rondisti o espressivisti, asiani o atticisti – tutti, ma proprio tutti, sapevano che di opzioni stilistiche sempre e comunque si trattava. Inutile scappare. Lo stile poteva farsi invisibile, promettere una presunta oggettività come sinonimo di visione diafana e assenza di pregiudizi: ma lo faceva, appunto, in quanto stile. Se c'è anzi un'idea che il Ventesimo secolo ha combattuto con speciale veemenza, questa è stata proprio la convinzione che lo stile fosse un abito con cui di volta in volta rivestire un corpo già formato. Niente più forma & contenuto, insomma: se non come coppia di fratelli siamesi, inoperabili perché provvisti di un solo cuore e di un unico apparato respiratorio.
Come ci sono i sostenitori dello «stato minimo», così sono esistiti sempre i fautori dello «stile minimo». Ma nelle loro dichiarazioni di poetica «lo stile non mi interessa» non voleva dire altro che «non ho bisogno di fuochi d'artificio, il vero stilista lavora nel profondo, proprio dove lo si vede meno». Il contesto nel quale si colloca la battuta polemica di Ceronetti appare invece, per la prima volta, mutato. Da qualche tempo, infatti, l'affermazione che lo stile non ha alcuna importanza per giudicare del valore di un romanzo ricorre sempre più spesso nelle recensioni di critici autorevoli. Lo afferma la celebre anglista a proposito dell'ultimo bestseller su commissione e lo ripete il giovane intellettuale impegnato per parlare del gothic novel di un coetaneo. Ma si tratta, a ben vedere, di un atteggiamento più generale, quasi una vox populi (che, come le promette il proverbio, aspira a tramutarsi in una vox Dei): l'impressione che, nella ricezione di un libro, lo stile stia diventando semplicemente irrilevante.
Il tratto più vistoso di questa tendenza è che, mentre nel Novecento i narratori anti-stilisti si riconoscevano per lo stile minimo, i loro eredi esibiscono piuttosto un espressionismo forzato e volontaristico. Metafore azzardate, similitudini sgradevoli pensate per catturare al volo l'attenzione di chi legge, continue ridondanze al limite del pleonasma… Lo si nota particolarmente con i romanzieri di genere (gli anti-stilisti per eccellenza, se badiamo alle loro dichiarazioni di poetica), i quali nel Novecento si attenevano a una prosa quanto più semplice possibile, per non stancare il lettore, mentre oggi non fanno che sovraccaricare la pagina di fuochi d'artificio. Con l'obiettivo, è chiaro, di inseguire un pubblico distratto e un poco frettoloso, forse nella speranza di tenere testa alla iperstimolazione dello spettatore che da trent'anni caratterizza il cinema contemporaneo.
Qualcuno potrà persino rallegrarsi di tale mutamento, che è anche un ritorno al passato. Prima del culto romantico del genio e dell'eccesso, per secoli lo stile è stato innanzitutto sinonimo di controllo, e i grandi teorici della retorica hanno sempre temperato la vecchia massima secondo cui "lo stile è l'uomo" con la constatazione che ogni scrittore provetto deve anzitutto saper dominare i propri strumenti e adattare il tono alla situazione. Una pratica che, appunto, richiede per prima cosa quella autodisciplina di cui proprio gli anti-stilisti di oggi sembrano difettare.
Questo vale per gli scrittori. Nei critici l'inconsueta disponibilità a disfarsi della nozione di stile ha invece una diversa origine. Qui si direbbe che l'estetica letteraria stia semplicemente entrando nell'orbita delle arti visive. Il pregiudizio antistilistico sembra nascere infatti dalla tendenza a interpretare la pubblicazione di un'opera letteraria con le stesse categorie con cui giudicheremmo una performance, vale a dire un puro gesto estetico, senza produzione (se non, al limite, nella forma surrettizia del video o delle fotografie che la documentano): un gesto che si esaurisce in se stesso e che punta tutt'al più a suscitare scandalo nel circuito della comunicazione. Ma che per questo, a condizione che qualcuno reagisca, può prescindere completamente dallo stile.
Consapevolmente o inconsapevolmente, la ridefinizione del campo artistico messa in atto negli anni Sessanta è giunta oggi a influenzare anche la letteratura. Se un romanzo e un poema sono solo un gesto, è inutile interrogarsi troppo sul loro stile: il loro significato sarà tutto nel progetto che li sorregge, o al massimo nella loro sintomaticità sociale, secondo la formula ben nota per cui a tanto maggiore scandalo (o, nel caso della letteratura, a tante più copie vendute) deve corrispondere necessariamente tanto maggior valore - link
mercoledì 7 settembre 2011
Perché ragioniamo
The answer, according to Mercier and Sperber, is that reasoning was not designed to pursue the truth. Reasoning was designed by evolution to help us win arguments. That's why they call it The Argumentative Theory of Reasoning. So, as they put it, and it's here on your handout, "The evidence reviewed here shows not only that reasoning falls quite short of reliably delivering rational beliefs and rational decisions. It may even be, in a variety of cases, detrimental to rationality. Reasoning can lead to poor outcomes, not because humans are bad at it, but because they systematically strive for arguments that justify their beliefs or their actions. This explains the confirmation bias, motivated reasoning, and reason-based choice, among other things."
http://econlog.econlib.org/archives/2010/08/not_robin_hanso.html
Forza di volontà
Chiedete a vostro figlio se preferisce un biscotto ora o due biscotti tra un quarto d’ ora, la risposta che vi dà potrebbe illuminarvi sul suo futuro. Nulla più del self-control predice il successo dell’ individuo. Non solo, è anche un elemento della nostra personalità che possiamo almeno in parte “allenare”.
Steven Pinker commenta l’ ultima fatica di Roy F. Baumeister and John Tierney:
Ever since Adam and Eve ate the apple, Ulysses had himself tied to the mast, the grasshopper sang while the ant stored food and St. Augustine prayed “Lord make me chaste — but not yet,” individuals have struggled with self-control. In today’s world this virtue is all the more vital, because now that we have largely tamed the scourges of nature, most of our troubles are self-inflicted. We eat, drink, smoke and gamble too much, max out our credit cards, fall into dangerous liaisons and become addicted to heroin, cocaine and e-mail.
Enlarge This Image291 pp. The Penguin Press. $27.95.Nonetheless, the very idea of self-control has acquired a musty Victorian odor. The Google Books Ngram Viewer shows that the phrase rose in popularity through the 19th century but began to free fall around 1920 and cratered in the 1960s, the era of doing your own thing, letting it all hang out and taking a walk on the wild side. Your problem was no longer that you were profligate or dissolute, but that you were uptight, repressed, neurotic, obsessive-compulsive or fixated at the anal stage of psychosexual development.
Then a remarkable finding came to light. In experiments beginning in the late 1960s, the psychologist Walter Mischel tormented preschoolers with the agonizing choice of one marshmallow now or two marshmallows 15 minutes from now. When he followed up decades later, he found that the 4-year-olds who waited for two marshmallows turned into adults who were better adjusted, were less likely to abuse drugs, had higher self-esteem, had better relationships, were better at handling stress, obtained higher degrees and earned more money.
What is this mysterious thing called self-control? When we fight an urge, it feels like a strenuous effort, as if there were a homunculus in the head that physically impinged on a persistent antagonist. We speak of exerting will power, of forcing ourselves to go to work, of restraining ourselves and of controlling our temper, as if it were an unruly dog. In recent years the psychologist Roy F. Baumeister has shown that the force metaphor has a kernel of neurobiological reality. In “Willpower,” he has teamed up with the irreverent New York Times science columnist John Tierney to explain this ingenious research and show how it can enhance our lives.
In experiments first reported in 1998, Baumeister and his collaborators discovered that the will, like a muscle, can be fatigued. Immediately after students engage in a task that requires them to control their impulses — resisting cookies while hungry, tracking a boring display while ignoring a comedy video, writing down their thoughts without thinking about a polar bear or suppressing their emotions while watching the scene in"Terms of Endearment" in which a dying Debra Winger says goodbye to her children — they show lapses in a subsequent task that also requires an exercise of willpower, like solving difficult puzzles, squeezing a handgrip, stifling sexual or violent thoughts and keeping their payment for participating in the study rather than immediately blowing it on Doritos. Baumeister tagged the effect “ego depletion,” using Freud’s sense of “ego” as the mental entity that controls the passions.
martedì 6 settembre 2011
Confessioni davanti al dado
Un altro esempio lo si trae dalla stretta attualità: combattere l' evasione grazie alle lotterie:How to use dice to stop people from lying on surveysWhenever we turn on the news, we're treated to statistics about things there seem to be no way of verifying. How many people has the average person slept with? How many crimes has the average person committed? The numbers quoted are often the result of surveys. In a survey, there's nothing to keep people honest, especially about things like crimes. Scientists have found that dice can shake the truth out of people.It's been shown that people lie on surveys. A survey of the number of sexual partners people had — in which participants believed they were hooked up to a lie detector — dramatically shrunk the gap between the numbers of partners usually reported by men and women. One way to keep people from telling a lie is to make them believe that they can't tell anything other than the truth.Another way to get at the truth is to make people that they sometimes have to tell a lie. A toss of the dice allows people to confess things on surveys that they otherwise wouldn't. When South Africa wanted to conduct a survey about whether or not farmers had killed leopards (an illegal practice), the surveyors brought along a die.If the farmer tossed the die and got a one, they had to respond "yes" to the surveyor's question. If they got a six, they had to say "no." The rest of the time, they were asked to answer honestly. The die was hidden from the person who was conducting the survey, so they never knew what number the farmer was responding to.Suddenly, the number of "yes" responses to the leopard question started coming up by more than just one-sixth. This technique — called the randomized response technique — provided a blind that people could use to respond honestly to difficult questions. Depressingly, it was estimated that almost twenty percent of farmers had killed leopards within the last year. The accurate numbers, though, can help the government form more helpful responses, like compensation for livestock lost to leopards, and protect more leopards in the future.
Questa estate di passione per i nostri conti pubblici e di affannosa ricerca di misure di risanamento del debito ha riportato al centro dell’attenzione il tema della lotta all’evasione fiscale. È necessario spezzare il circolo vizioso, in cui due elementi si sostengono a vicenda: più è alta l’evasione, più devo fare ricorso a misure dure e invasive e più incrino il rapporto tra fisco e contribuenti, facendo venir meno ogni possibilità di cooperazione tra gli attori del sistema. In effetti, la cosa più fastidiosa per un lavoratore autonomo è essere considerato automaticamente un evasore. E probabilmente non è neanche utile per raccogliere più tasse. Secondo gli economisti, il modo migliore per incentivare il buon comportamento fiscale non sia tanto il controllo e la punizione quanto piuttosto la “compartecipazione ai profitti”… Il programma prevede un ulteriore incentivo che si affianca alla restituzione di parte dell’Iva incassata: la distribuzione di premi sorteggiati mensilmente tra i partecipanti… leggi tutto
Donne sottopagate che non guadagnano meno
Discriminazione o scelte differenti?
lunedì 5 settembre 2011
Tutti i guai di chi sbaglia metafora
Curioso, la crisi sui mercati ha mandato in tilt innanzitutto i critici del mercato.
Dapprima si sono animati subodorando il momento propizio per sferrare un attacco a colpo sicuro ma la dolorosa scoperta che le armi in mano erano obsolete o spuntate li ha resi pigri, riluttanti all’ approfondimento, rabbiosi e inclini alla rissa verbale.
E non parlo solo della vuotaggine caciarona dei no-global-spacca-vetrine e del loro allucinato “altro mondo possibile”, ho in mente anche la semplicioneria di compassati personaggi sia di destra che di sinistra da sempre nostalgici del dirigismo dei bei tempi e a disagio nel muoversi e nel comprendere una società liberale retta da fili invisibili, una società che non capiscono mai bene come faccia a tenersi in piedi in assenza di burattinai.
Di seguito, a titolo d’ esempio preclaro, riporto una zoppicante analisi zeppa di vieti slogan del solitamente lucido Giorgio Israel. Parlo dunque di persona stimabile. E’ un formulario compilato diligentemente e vale la pena scorrerlo, un mesto repertorio di mezze verità strumentali alla polemica virulenta, un catalogo di stereotipi forse in grado mezzo secolo fa di innescare fruttuosi dibattiti ma che oggi appare più che altro come la stanca riproposizione di una critica pigra e dai contenuti vaghi, l’ ideale cioè per posizionarsi comodamente tappandosi orecchie e cervello.
D’ altro canto qui i malintesi si susseguono con ritmo incalzante andando a comporre un canovaccio esemplare; tanti birilli messi così ordinatamente in fila invitano allo strike e la sfida di una replica è appetitosa anche per il suo valore didattico di esercitazione.
La crisi del 2008 suscitò pungenti critiche alla capacità di previsione della teoria economica, che oggi si ripropongono.
Né quello che accadrà tra un mese, né quello che accadrà domani è alla portata delle capacità predittive della teoria economica
. Eppure la politica è sempre più dominata dalla tecnocrazia, che si tratti di agenzie di rating o di “esperti” che, pur incapaci di previsione, dispensano ricette per superare la crisi.
Non occorre essere marxista né keynesiano per ammettere che la teoria economica del cosiddetto “mainstream” è un galeone affondato, perché sono in crisi i suoi capisaldi teorici. Il primo è che il mercato lasciato a sé stesso va spontaneamente in equilibrio. Lo si presenta come un asserto “normativo”: lasciate libero il mercato e tutto va a posto. Peccato che non esista un solo risultato teorico che lo convalidi: al contrario, ogni risultato va in senso opposto. Quanto alle pratiche concrete, basti pensare al fallimento dei modelli matematici che da un trentennio sono stati costruiti sulla convinzione che i mercati finanziari siano controllabili e sul secondo capisaldo del “mainstream”: è “razionale” il soggetto economico che conosce perfettamente il funzionamento del sistema e agisce in modo assolutamente egoista, massimizzando il proprio profitto. La versione moderna di questa concezione è la teoria delle “aspettative razionali”, ovvero delle attese dei soggetti economici di fronte a eventi che influiscono sulle loro decisioni. Se i soggetti si comportano “razionalmente” l’economia s’indirizzerà verso gli eventi che essi “razionalmente” si aspettano. In definitiva, da un’idea di razionalità quanto mai discutibile si ricava il precetto che farebbe evolvere l’economia in modo determinato e prevedibile: comportatevi “razionalmente” e la realtà sarà “razionale”. Negli anni settanta gli economisti matematici Fisher Black e Myron Scholes e l’ingegnere Robert Merton formularono un modello matematico che traduceva tale visione ispirandosi ad analogie con la meccanica statistica. Esso mirava a descrivere l’andamento nel tempo di prodotti finanziari (come un portafoglio di azioni o obbligazioni) e di opzioni definite su di essi. Le ipotesi irrealistiche del modello – per esempio, che le attività finanziarie si spalmano nel tempo per frazioni arbitrariamente piccole di prodotti finanziari – sono state accettate come prescrizioni adeguate a prevedere e controllare il mercato finanziario. Si è fatto credere che bastasse implementare nei computer il modello di Black-Scholes-Merton per realizzare il sogno di un’economia “razionale” e mezzo mondo finanziario ha operato in tal modo.
Ricordate il crack della finanziaria Long Term Capital Management nel 1998? Era l’occasione per concludere che il mondo è fatto da uomini che non hanno conoscenze perfette e non si comportano come robot, che non esiste una legge meccanica di equilibrazione del mercato, che il primato nel governo della società e dell’economia è della politica e non della tecnocrazia e della sua pseudoscienza. Nessuno se n’è dato per inteso.
Eppure qualcuno l’aveva detto, proprio un protagonista di oggi, che sul declassamento dell’economia statunitense da parte dei “tecnici” della Standard & Poors avrebbe fatto una fortuna. Nel corso di una audizione al Congresso USA (15 settembre 1998), il finanziere George Soros dichiarò quanto segue:
«Il riorientamento dovrà iniziare riconoscendo che i mercati finanziari sono intrinsecamente instabili. Il sistema capitalista globale è fondato sulla convinzione che i mercati finanziari lasciati a sé stessi, con i loro strumenti, tendono verso l’equilibrio. Questa convinzione è falsa. I mercati finanziari sono portati verso gli eccessi e se una successione di rialzi e di ribassi si verifica al di là di un certo limite, non si tornerà mai al punto di partenza. Invece di agire come un pendolo, i mercati finanziari hanno agito, soprattutto di recente, come una palla di demolizione, colpendo un’economia dopo l’altra. Si parla molto dell’eventualità di imporre una disciplina di mercato, ma imporre la disciplina del mercato significa imporre l’instabilità e quanta instabilità può essere tollerata dalla società? La disciplina del mercato deve essere integrata con un’altra disciplina: mantenere la stabilità dei mercati deve essere il fine delle politiche pubbliche».
Sono parole che fotografano in modo impressionante gli eventi attuali e dicono che in tanti anni non si è appreso nulla. Si paventa il ritorno a ricette socialiste o keynesiane. Ma un equivoco – evidente nel dibattito seguito all’articolo di Marcello Veneziani – sta nel fatto che essere liberali non significa – al contrario! – credere che non esista un ruolo della soggettività, o che essa debba essere ridotta alla parodia della razionalità come infinita preveggenza e illimitato egoismo. Tantomeno è intrinseco al liberalismo concepire l’economia come un sistema fisico governato da leggi cieche che garantirebbero l’equilibrio. Questo gretto scientismo è estraneo a una concezione liberale in cui la centralità del soggetto fonda il primato della politica. Al contrario, scientismo e tecnocrazia uccidono il ruolo della politica e sono consoni a visioni totalitarie.
In questi giorni si levano voci da ogni parte circa i rischi che corre l’economia reale schiacciata da un’economia finanziaria che vale (oltretutto virtualmente) molto di più e detta legge alla politica economica pretendendo di rappresentare il giudizio “oggettivo” del mercato. Si parla di rischio per una democrazia e una politica sempre più deboli di fronte a tecnocrazie sempre più prepotenti e prive di legittimazione. È il momento di capire che la posta in gioco è la fine del primato delle ideologie tecnocratiche, a tutti i livelli, soprattutto a quello culturale. La politica deve avvalersi delle (autentiche) competenze, non subordinarsi passivamente ad esse. Altrimenti, la palla di demolizione continuerà nella sua opera implacabile e autodistruttiva, tra una predica e l’altra degli “esperti”. Il compito primario della politica deve essere quello di difendere a tutti i costi l’economia reale e puntare sulle forze produttive e non parassitarie, perché una società che avvilisce i soggetti effettivamente produttivi e li abbandona a processi “spontanei” (che di fatto non lo sono affatto) non riesce a suscitare le forze morali e la spinta etica che sole possono rivitalizzare la società e garantirle un futuro. (leggi tutto)
Nel precedente pezzo è facile individuare almeno una dozzina di fraintendimenti a cui spesso la libellistica anti-mercato ricorre a meri fini strumentali confondendo le idee a chi tenta in buona fede di farsene una. Cerco di isolarli uno ad uno nelle righe che seguono anche se so bene che domani, aprendo il giornale, sono destinato a patire la cocente frustrazione di leggere chi ripeterà la litania da capo.
Le crisi
A volte sembra che i nostri commentatori mettano allegramente insieme le varie crisi che stiamo vivendo riducendole ad una senza tanto pensarci su. Far di tutta l’ erba un fascio è sviante e un po’ di prudenza non guasterebbe:
Unfortunately, not everyone is talking about the same crisis. Some are talking about the housing bubble/crash, some are talking about the late 2008 financial crisis, and I believe both groups have the 2011 unemployment crisis in the backs of their minds (otherwise why is the debate seen as being so important?)… But the link between the housing bubble and the severe financial panic is much weaker than people realize. And the link between the severe financial panic and high unemployment in 2011 is almost nonexistent.
Previsioni.
Se non fossimo stremati bisognerebbe ripetere per l’ ennesima volta che il senso dell’ esistenza dei mercati risiede proprio nella loro imprevedibilità. Infatti, se esistesse una casta di esperti in grado di predirne gli esiti che senso avrebbe raccomandarne il ricorso? In un certo senso la sconfitta dell’ esperto è da valutare come una vittoria del mercato.
Perfetta informazione.
Se non avessimo il latte alle ginocchia insisteremmo con pazienza a far presente che il concetto di “perfetta informazione” è probabilistico. Di conseguenza, anche su cio’ che conosciamo molto approssimatamente possiamo dire di essere “perfettamente informati. Ho la sensazione che chi legge le perentorie quanto frettolose righe di Israel difficilmente possa intuire il reale contenuto dell’ espressione.
Egoismo.
Anche l’ homo economicus è solo una convenzione metodologica ed è davvero spossante puntualizzare di nuovo che il raffazzonato riferimento operato ad arte nell’ articolo non aiuta nessuno a capire di che si sta parlando.
L’ homo economicus ha delle preferenze e una ragione attraverso cui le persegue, solo in questo senso è un “egoista”. Ammettiamo che tra le sue preferenze rientri la felicità del prossimo: farà di tutto per perseguirla anche se la cosa costa cara. Strano egoista! Dalla caricatura di Israel avete forse percepito che l’ altruismo di sostanza è perfettamente compatibile con l’ egoismo metodologico? Scommetto di no visto che trattasi di una caricatura fatta per ridicolizzare e non per capire.
Razionalità.
Tra le preferenze dell’ homo economicus potrebbero esserci, tanto per dire, anche comportamenti irrazionali. In questo caso sarebbe perfettamente razionale comportarsi irrazionalmente in taluni frangenti. Chi si attiene al “fantoccio” abbozzato da Israel troverebbe a dir poco singolare che comportamenti irrazionali caratterizzino la condotta di un agente “perfettamente razionale”. Ma in tali paradossi cade proprio perché i fantocci assemblati con l’ imperizia furbetta dei faziosi non consentono di capire alcunché.
Infallibilità.
L’ homo economicus nella versione fantozziana di Israel è “perfettamente informato”, “perfettamente egoista” e “perfettamente razionale”. Detto questo l’ ingenuo in buona fede che legge fiducioso concluderà che un uomo del genere è necessariamente infallibile nelle decisioni che prende. Come ci rimarrà costui nell’ apprendere che la nozione di homo economicus è compatibile con quella di operatore che sbaglia di continuo senza mai azzeccarne una? L’ ipotesi dell’ homo economicus è infatti un’ ipotesi relativa alla configurazione statistica degli errori e non a particolari talenti o psicologie. Non aspettatevi che il cruciale concetto emerga anche solo per sbaglio nel fazioso resoconto di Isreal.
Detto questo, chi ha capito cosa sia il mercato ha capito anche che esiste un solo modo serio per criticarlo: fornire un algoritmo per far soldi sistematicamente giocando in borsa. I critici competenti almeno provano ad avanzarne una parvenza ma quella riportata è una critica piazzaiola che ha ben poco di serio.
LCTM.
Dove attingere poi le forze per ribadire ancora che il fallimento di un operatore di mercato (LCTM) non equivale al fallimento del mercato? Il mercato non fallisce se fallisce un’ impresa. Anzi, fallisce se non produce un numero adeguato di fallimenti d’ impresa.
Per sprecare un rigo entrando nel merito, pur sapendo benissimo che è l’ ultima cosa che interessa, mi limito a far osservare che Israel confonde l’ ipotesi dell’ efficienza dei mercati finanziari (EMH) con le teorie per prezzare le attività finanziarie (CAPM): se si fallisce operando con CAPM cio’ non compromette in alcun modo EMH.
Ultima cosa: le posizioni assunte da LTCM si sono rivelate vincenti nel lungo periodo. Questa variabile (“lungo periodo”) non è specificata nel modello teorico, tanto è vero che ironicamente si dice rivolgendosi a chi pretende di battere il mercato: “il mercato è razionale ma lo diventa il giorno dopo che cessa la vostra solvibilità”.
Conclusione: chi liquida il modello con supponenza fanfarona mischiando nozioni eterogene dimostra solo di non conoscerlo a fondo.
Equilibrio economico.
Passiamo all’ annosa questione dell’ “equilibrio economico”. Israel disorienta il lettore già sfiancato con un passaggio contraddittorio nel quale, dopo aver affermato che la teoria mainstream postula l’ equilibrio efficiente dei mercati, sostiene che non esiste un risultato teorico di tale portata. Ma allora cosa cavolo dice la teoria? Dopo averle fatto dire tutto è il contrario di tutto è facile proseguire affermando quel che si crede in completa balia del proprio arbitrio e dei propri umori.
La teoria ortodossa, in effetti, ci parla dei fallimenti del mercato, ma anche di fallimenti della politica (cosa che naturalmente Israel salta a pié pari visto che rivendica una “nuova centralità della politica”) per concludere che in genere, laddove applicabili, le soluzioni competitive si fanno preferire. Un atteggiamento troppo umile per un nemico che s’ intende accusare d’ arroganza. Meglio taroccare le sue posizioni inventandosi una trombonata come quella dei “mercati assolutamente razionali, informati e efficienti”.
Ciliegina: l’ azione del mercato viene comunemente definita di distruzione creativa. Come conciliare allora “distruzione” ed “equilibrio”? Arduo problema, ma solo per chi ha in mente la versione naif di equilibrio, quella spacciata per comodità da Israel al solo fine di irriderla.
Soros.
Se non fossimo senza fiato inviteremmo poi a prendere con le molle i consigli di un capitalista ora sulla cresta dell’ onda che invita a bloccare le dinamiche dei mercati sotto una valanga di regole che immobilizza più di una colata di cemento, il conflitto d’ interesse è palpabile. E’ come invocare “l’ arimo” quando si sta soccombendo. Israel si mette sotto i piedi il primo comandamento di chi si occupa del mercato: difendere il capitalismo dai capitalisti.
Tecnocrazia.
Ora però vorrei occuparmi di un altro svarione e chiedo: ma chi è il tanto odiato “tecnocrate” se non un regolamentatore dei mercati?
Il banchiere centrale, tanto per fare un esempio, è il tecnocrate chiamato a mettere ordine nel mercato del credito. L’ authority antitrust è il tecnocrate che limita le concentrazioni in qualsiasi settore.
Come si può allora accumunare nella stessa condanna i mercati e i suoi regolamentatori chiamati a porre paletti?
Boh. Pensavo che la regolamentazione dei mercati fosse l’ alternativa al mercato selvaggio. Ma forse, come alternativa, si ha in mente piuttosto la Corea del Nord.
Israel sembra qui aver dimenticato il cruciale discrimine tra competizione e concorrenza, tra “mercato” e pseudo-mercati disegnati a tavolino, il che significa procedere sprovvisti della più elementare bussola.
Keynes.
Ma le cose sembrano stare ancora peggio: come si puo’ sprezzare la figura del tecnocrate per poi ammiccare a politiche keynesiane? Non risiede proprio nel “fine tuning” keynesiano il trionfo della tecnocrazia?
Oltretutto, mostrare in piena crisi da deficit una certa simpatia per approcci deficit spending è a dir poco intempestivo.
Meccanicismo.
Il peccato originale di Israel è quello di confondere il mercato con un meccanismo razionale, quasi fosse una macchina, dimenticando (forse perché non lo ha mai saputo) che se mai esistesse un’ istituzione che si oppone recisamente ad ogni soluzione razionalistica dei problemi sociali, questa è il mercato. Il mercato sostituisce l’ Intelligenza Unica del tecnico con una moltitudine d’ intelligenze le più disparate. Quanti guai puo’ procurare una metafora sbagliata.
I ragionieri.
Non si puo’ nemmeno dire che Isreal compia lo strafalcione in buona compagnia visto che la suo fianco si ritrova l’ incartapecorita partita doppia del rag. Massimo Mucchetti (qui Piero Ostellino cerca pazientemente di introdurre il giornalista all’ ABC dell’ opera del mai letto e sempre citato a sproposito Adam Smith).
La fisica.
Di questo passo c’ è d’ aspettarsi una denuncia a breve contro l’ interferenza dei fisici nelle vicende internazionali seguita da un richiamo alla politica affinché riprenda la sua centralità limitando il pervasivo ruolo della forza di gravità.
sabato 3 settembre 2011
L’ infelice espressione attira superficiali condanne
In 1989 Francis Fukuyama made a bold prediction. The world would become increasing democratic and market-oriented. Other political models would gradually wither away. He called this “The End of History.” Here are a couple facts about his prediction:
1. It would be difficult to find any other prediction in the humanities or social sciences that has proved more accurate. There are many more democratic countries than in 1989, and policy has become much more market-oriented in most countries.
2. When intellectuals discuss his prediction today, 99% assume it failed to come true. Indeed most utter the phrase “the end of history” with undisguised contempt.
The juxtaposition of these two realities has made a deep impression on me.
venerdì 2 settembre 2011
Perché non ridistribuire i voti scolastici?
Per chi si oppone anche alla ridistribuzione dei redditi la risposta è facile. Ma per gli altri?
College Students in Favor of Wealth Distribution Are Asked to Pass Their Grade Points to Other Students
A California college student is conducting a social experiment where he’s trying to get his peers to sign a petition in favor of distributing grade point averages to show how the federal government distributes wealth.
Oliver Darcy, a recent college graduate, proposes that students with good grades contribute their GPA to their academically sluggish friends. He argues that this is how the federal government takes wealth from the country’s high wage earners and distributes it to the low income earners.
“They all earn their GPA,” said Darcy in an interview with "Fox and Friends." “So we asked them if they’d be interested in redistributing the GPA points that they earned to students who may be having trouble getting a high GPA.”
Darcy, who films his encounters with teachers and fellow students, doesn’t have much luck selling this theory.
He said many students on college campuses support high taxes on the rich, but when put into relative terms, cringed at the thought of spreading around their academic wealth.
In a video posted on Exposingleftists.com, one student said, “If I do give GPA points to students that don’t deserve it, it isn’t fair, I work for what I have.”
Oliver also goes around campus asking whether students want to sign his petition to pay their share of the national debt – which amounts to nearly $47,000 per person.
This, too, brought mixed reaction, with one student saying the debt isn’t hers because she didn't contribute to it.
Allen Stairs denuncia una falsa analogia:
Suppose that as a matter of social policy, we set up a system that left everyone with a paycheck of the same size at the end of every month. What does that amount to? It amounts to saying that each person is entitled to the same quantity of goods as each other person. Maybe that would be a bad idea; maybe the result would be that people would get lazy and less wealth would end up getting produced overall. But that's not built into to very logic of the idea. It's an empirical claim, even if a highly plausible one. There's nothing logical incoherent, as it were, about a system intended to produce completely uniform distribution of wealth, whatever the practical upshot might be.
Suppose, on the other hand, that we set up a system that smooths GPAs out completely, so that every student gets the same GPA - say, 3.2. Then what we've done amounts to getting rid of GPAs. It gets rid of them because what a GPA does, at least roughly, is tell us how well people did on certain sorts of tasks. For that to be possible, the system for awarding GPAs must allow (though needn't require) that different people can end up with different GPAs.
We've looked at the extreme cases of completely uniform distribution. In practice, the reply might be, no one has anything that extreme in mind. But the point of looking at the extremes was to draw attention to a difference between the very logic of the two cases. Redistributing income doesn't as a matter of logic affect the purchasing power of a dollar, even though redistribution schemes raise lots of perfectly good policy and empirical questions. But unless the "redistribution" of grades is a mere matter of relabeling, redistributing GPAs destroys the information that GPAs are intended to convey.
No, AS non mi convince: dimentica la lezione di Hayek, quella per cui i prezzi (e quindi i redditi) hanno innanzitutto un ruolo informativo, proprio come i voti scolastici.
giovedì 1 settembre 2011
Perchè ci sono così pochi vegetariani?
Sembrava la rivoluzione prossima ventura, eppure…
… the reason for the widespread but mistaken belief that America is rapidly going veg is the mismatch between what people say they eat and what they actually eat… The Campaign to Moralize Meat-Eating Has Failed… The great paradox of our culture's schizoid attitudes about animals is that as our concern for their welfare has increased, so has our desire to eat them. In 1975, the average American ate 178 pounds of red meat and poultry; by 2007, the number had jumped to 222 pounds…
"Moralization" is the cultural transformation of a preference into a value. Attitudes toward cigarette smoking is an example. About the same time the animal rights movement was gearing up in the 1970s, the anti-tobacco forces were also getting their act together. Since then, the rate of smoking among American adults has dropped from nearly 50% to less than 25%. In contrast, the number of meat eaters has remained stable, hovering around 98%…
Why has the effort to make smoking a moral issue been so successful while the anti-meat campaign has failed? I blame it largely on biology… Meat, it seems, is more addictive than nicotine…
In his book, The Happiness Hypothesis, the psychologist Jonathan Haidt discusses his reaction to reading Peter Singer's argument against animals. He writes, "Since that day, I have been morally opposed to all forms of factory farming. Morally opposed but not behaviorally opposed. I love the taste of meat, and the only thing that changed the after reading Singer is that I thought about my hypocrisy each time I ordered a hamburger." Leggi tutto.
Libertarianism A-Z: politiche anticicliche o di stabilizzazione
Molti, specie dopo la moda keynesiana, le ritengono imprescindibili.
Ma si tenga conto che soffrono di molti limiti: innanzitutto il cosiddetto lag. Tra le decisioni e gli effetti passa del tempo così come tra la realtà e le decisioni.
C’ è poi una scarsa evidenza del loro successo: prima del 1914 gli USA non avevano una banca centrale. I singoli stati degli USA e della UE non ce l’ hanno nemmeno adesso.
La Grande Depressione dovrebbe averci insegnato qualcosa: le politiche di stabilizzazione prolungarono la crisi ad oltranza e spesso furono responsabili del suo inasprimento.
Alcune fluttuazioni, poi, sono salutari e danno segnali importanti (pensate all’ aumento nei prezzi del petrolio e agli incentivi per nuove trivellazioni).
Ci sono effetti collaterali: si è costretti a prevedere le mosse della politica oltre a quelle dell’ economia. Doppia incertezza.
Una cosa è certa: il breve periodo dominerà sulla lungimiranza.
martedì 30 agosto 2011
Libertarianism A-Z: droghe e prostituzione
Se volete più qualità e meno crimine intorno alla prostituzione, allora legalizzatela. Lo stesso dicasi per le droghe. Se invece non desiderate né l' una né l' altra cosa, proibitela.
Libertarianism A-Z assicurazioni sanitarie
- Ci sono almeno due motivi per socializzare l’ assistenza sanitaria: 1. il mercato è vittima di adverse selection e 2. le assicurazioni private costano troppo.
- La selezione avversa si supera costringendo tutti ad avere un’ assicurazione e non “socializzando” la sanità. In ogni caso nemmeno il postulato della selezione avversa sta in piedi basandosi su una asimmetria informativa che in realtà non esiste. Se solo le assicurazioni potessero esaminare a fondo lo stato di salute dell’ assicurato finirebbero per saperne anche più di lui!
- Ed eccoci allora al secondo problema: gli esami condurrebbero a polizze molto care per chi ha problemi di salute o rischi seriamente di averne in futuro. Ma questo non è un problema che riguarda la gestione della sanita, bensì quella della povertà, una questione ben diversa.
- La socializzazione della salute implica problemi di azzardo morale risolvibili solo con sistemi di co-pagamento (ticket).
- Ci fossero solo quelli… il fatto è che l’ assicurazione unica non è certo l’ assicurazione ottimale per tutti! E qui le inefficienze abbondano: i burocrati eludono le decisioni cruciali fornendo schemi assicurativi rozzissimi.
- C’ è poi il problema dei prezzi: quanto far pagare le medicine? Quanto costano i dottori? Domande ardue se al posto del mercato ci mettiamo un burocrate. Fissare costi sotto il livello di mercato stronca l’ innovazione e incentiva la corruzione. Due mali tipici della sanità europea.
lunedì 22 agosto 2011
10 miti sulla crisi
Si parla delle somme impegnate nel salvataggio delle banche e di altro ancora.
http://www.londonlovesbusiness.com/commentanalysis/ten-occupy-london-myths-debunked/780.article
martedì 16 agosto 2011
Sfondare tutte le porte tassando i ricchi?
Occhio:
You can redistribute consumption from the top 1% and give it to average Americans working in a car factory, or a Walmart. But it’s an illusion to think you can redistribute investment from the top 1%, so that average Americans can have a higher living standard. Where do people think the car factory comes from? Or the Walmart building? BTW, this has nothing to do with trickle-down economics, a theory I reject. This is simple accounting.
sabato 13 agosto 2011
Libertarianism A-Z: regole
Una società vive di regole ma l’ eccesso di regole la soffoca. La regolamentazione governativa appartiene quasi sempre a questa patologia. Almeno tre sono gli argomenti che consigliano morigeratezza:
1. Slippery slope: tante regole sacrificano la chiarezza, non si riesce più a capire perché una certa attività debba essere sottoposta a vincoli e proibizioni mentre un’ altra no.
2. Moral hazard: le regole distorcono i comportamenti: se prima mi impegnavo a soddisfare i miei clienti, dopo mi impegno soprattutto a eludere le nuove proibizioni.
3. Autoresponsabilità: mi rilasso e abbasso la guardia, pensa a tutto mamma Stato.
4. Osmosi (o regola di Peltzman): se una regola limita i miei rischi in un settore delle mie attività, provvederò ad aumentarli in altro settore visto che la mia preferenza sul rischio resta invariata (se mi imponi la cintura di sicurezza, guiderò più distratto).
venerdì 12 agosto 2011
Libertarianism A-Z: reddito minimo nit negativ income tax
La negative income tax (reddito minimo) potrebbe rimpiazzare una miriade di programmi governativi anti- povertà che alimentano confusione e distorsioni.
La NIT non è perfetta: genera disincentivi al lavoro. Ma questo è un male minore se raffrontato ai disincentivi delle alternative.
La NIT ha però il pregio della chiarezza e puo’ essere implementata da pochi burocrati, anzi, è un automatismo. Limita le controversie politiche (chi è il vero povero?) e le distorsioni di mercato tipiche degli aiuti "in-kind" così come pure la corruzione.
giovedì 11 agosto 2011
Libertarianism A-Z: deficit debito pubblico
Il deficit e il debito non sono un male in sé, dipende come queste risorse vengono spese.
Siccome una spesa pubblica che supera il 15% è inefficiente, allora ripianare debito e deficit puo’ trasformarsi in un affare, purché si agisca esclusivamente sul lato della spesa.
I deficit da politiche di stabilizzazioni non sembrano essere giustificati vista la scarsa consistenza delle teorie sul moltiplicatore keynesiano. Se stabilizzazione deve esserci, che venga dalla politica monetaria.