lunedì 19 febbraio 2018

Pericolo big data

Il grande fratello ci osserva (raccoglie i nostri dati) e… ci aiuta a trovare l’anima gemella, a scegliere il libro più adatto, la musica che ci piace, il film di nostro gusto, l’elettrodomestico che cercavamo, l’abbigliamento su misura… tutto ok. Ma poi?
Secondo alcuni ci confina nella bolla delle nostre cose preferite, il che non si sa bene fino a che punto sia un male .
Secondo altri ci priva di esperienze comuni, il che però va di pari passo con una sorta di massificazione.
Secondo altri ancora turba la nostra privacy, ma la cosa puo’ preoccupare solo chi 1) ha molto da nascondere e 2) non ha preso le comunque possibili precauzioni.
Infine c'è chi teme l'entrata in politica di chi raccoglie tante informazioni, ma la politica, per la massa, è sempre stata un gioco in cui divertirsi più che un'arena in cui esprimere in modo ponderato le proprie preferenze autentiche, e se a sfruttare gli effetti collaterali di questo gioco sono alcuni soggetti piuttosto che altri poco cambia.
Insomma, non ho ancora ascoltato una critica limpida, chiara e diretta a big data, ovvero al “mondo su misura”.
Why would a casino try and stop you from losing? How can a mathematical formula find your future spouse? Would you know if a statistical analysis blackballed you from a…
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Perché l’uomo è più violento della donna?

Perché l’uomo è più violento della donna?

Quando pensiamo alla violenza pensiamo a due che si provocano, poi si insultano e infine vengono alle mani. Sbagliato.
Non è così che funziona, se la violenza avesse davvero questa genesi allora le donne sarebbero violente quanto gli uomini: l’aggressività personale non è inferiore nelle donne, anzi. Eppure a uccidere, in qualsiasi società, è quasi sempre l’uomo. Come mai?
Perché la nostra natura considera tabù la violenza: tra l’insulto e l’attacco fisico c’è uno iato difficile da superare, la spirale di violenza non transita dalle parole ai fatti senza soluzione di continuità, il nostro cervello si rifiuta di emettere l’ordine di colpire, anche quando trasmette a ripetizione l’ordine di offendere e insultare. Puo’ esserci una spirale degli insulti e una spirale della violenza, ma si tratta di fenomeni separati tra loro.
Eppure la violenza – pur così ostacolata dalla nostra natura – ci ha fatto prosperare: i più forti sono sopravvissuti a spese dei più deboli. Ma come è stato possibile superare il tabù in modo da cogliere i vantaggi dell’azione violenta? Attraverso pratiche sofisticate come il rito.
L’uomo violento deve pensare a lungo prima di agire in modo violento, deve elaborare una concezione, deve creare astrazioni, deve coltivare un progetto, deve ritualizzare, deve in qualche modo prendere le distanze dalla sua vittima, deve idealizzarla in modo da trasformarla nel Male. Queste operazioni sono una specialità dell’uomo più che della donna, difficile che quest’ultima abbia voglia di colpire un’ astrazione; di fronte ad un’idealizzazione, anzi, la sua rabbia si dilegua.
Qualcosa del genere lo abbiamo visto succedere nel tifo calcistico degli ultras – paradigma della violenza fisica – in cui la logica del fight club domina e governa quello che i profani pensano invece come violenza bruta.
Ma pensiamo anche agli assassini che irrompono nelle scuole compiendo le terribili stragi che la cronaca ci riporta. Ebbene, osservandoli più da vicino scopriamo che hanno elaborato il loro piano per anni, che la concezione di quei piano è stata una componente importante della loro intera vita, che li ha assorbiti quasi completamente. Il momento dell’azione è sovrastato e anestetizzato da anni di astrazioni che li ha proiettati in una vita parallela.
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La scelta fanatica

La scelta fanatica

Quando incontri un estraneo come ti relazioni con lui? Ti mostri aggressivo o empatico? Collaborativo o competitivo? Le strategie a tua disposizione sono molte, quale conviene adottare? Se ti mostri accogliente e lui ti attacca potresti perdere molto, al contrario, se stai sulla difensiva e lui aggredisce, limiti i danni. Ma se collabori con chi si pone in modo amichevole potresti avere un grande guadagno. E se scegliessi di collaborare con un tipo che ti attacca che fai, insisti? A volte vale la pena farlo per convincere l’altro ad abbassare la guardia in modo da guadagnare entrambi, altre volte la bontà a oltranza è fatale.
Sia come sia sei di fronte ad un problema complesso, dentro di te ci sarà una “vocina” che ti suggerisce prudenza e un’ altra che ti sprona alla generosità. La persona ragionevole è colui che fa sintesi e agisce soppesando le due “vocine”.
Potremmo trasporre questo problema canonico a livello comunitario: che strategia scegliere nel confronto con l’altro? Sarà il governo a dover operare auscultando le varie voci della comunità e facendo sintesi.
Il governo di una comunità è chiamato a mediare tra le varie posizioni che, in un gioco delle parti, testimoniano come si posiziona la società nel suo complesso.
Consci di mettere in scena questo gioco, le parti sono consapevoli di essere le rotelle di un ingranaggio complesso che esprimerà una risultante, si possono permettere quindi forme di “fanatismo” ben sapendo che la loro posizione militante non coinciderà mai con la strategia finale prescelta dal governo.
Domanda: la Chiesa Cattolica si pone come governo o come voce militante? La Chiesa deve cercare una sintesi o far sentire la sua voce militante che verrà mediata con quella delle altre componenti sociali?
A me sembra che fino ad ora, memore di una tradizione di potere temporale, la Chiesa Cattolica abbia cercato una sintesi ragionevole accogliendo nel suo seno tutte le varie istanze, ma mi sembra anche che con Francesco abbia virato e con lui sia stata presa la decisione di essere invece “voce” in un gioco delle parti, di essere “rotella di un ingranaggio”, di essere “fanatica tra i fanatici”, lasciando a terzi di governare, ovvero di mediare e fare sintesi tra i vari fanatismi.  
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5 pilastro della riforma della giustizia

I 5 pilastri della riforma:
Deregolamentare la società: meno regole, meno litigi.
Depenalizzare il diritto: meno procuratori, meno arbitrio.
Semplificare le procedure: meno garanzie, meno lungaggini.
Responsabilizzare i giudici: più incentivi, meno assurdità.
Managerializzare i tribunali: meno dilettanti, più efficienza.
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In attesa di giustizia. Dialogo sulle riforme possibili
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domenica 18 febbraio 2018

Carlo Nordio In attesa di giustizia

Spesso le lungaggini procedurali dipendono dalla preoccupazione del legislatore di evitare errori giudiziari e offrire all'imputato il massimo delle garanzie. Non ci sono però solo i nobili principi, bisogna anche pensare alle utilità pratiche, per non cadere nello sconforto e sfociare nella ferocia del fai da te.
Una burocratizzazione asfissiante, una cavillosità esasperata. Un delirio di futilità.
La stragrande maggioranza dei giudici, per educazione, cultura, tradizione e forse pigrizia non ha un'attitudine manageriale quando di fatto si ritrova a fare il manager della giustizia. I miracoli di Bolzano e Torino.
Depenalizzare, manegerializzare...
Quando il medico deve usare sempre meno i bisturi per alleviare i mali altrui e sempre di più la carta per badare ai propri le cose sono destinate al declino....
Carcere scuola di crimine...
Le intercettazioni hanno spiazzato la capacità di indagare. Richelieu: datemi una lettera con delle forbici e ne farò impiccare l'autore.
Le pene Come grida manzoniane. Di inaudita severità che resta sulla carta. L'esempio del furto, da una teoria di 30 anni a una pratica di un anno con la sospensione.

I 5 pilastri della riforma:

Deregolamentare la società: meno regole, meno litigi.
Depenalizzare il diritto: meno procuratori, meno arbitrio.
Semplificare le procedure: meno garanzie, meno lungaggini.
Responsabilizzare i giudici: più incentivi, meno assurdità.
Managerializzare i tribunali: meno dilettanti, più efficienza.

sabato 17 febbraio 2018

IL GRUMO

Una giusta battaglia per la ragione, quella che Pinker ingaggia nel suo nuovo libro.
Unico punto debole: nella creatura umana c'è qualcosa di irriducibilmente irrazionale che da qualche parte bisogna pur collocare.
Ecco, se lo si trascura e si progetta di far piazza pulita si rischia che questo grumo oscuro finisca laddove fa più danni.

"My new favorite book of all time." --Bill Gates "A terrific book...[Pinker] recounts the progress across a broad array of metrics, from health to wars, the environment to…
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L'oppio degli intellettuali

Nella cattolicissima Francia il marxismo (in salsa hegeliana) è stato una sorta di religione in cui sprofondarsi per colmare il vuoto lasciato dalla vecchia. Questo, almeno, secondo Raymond Aron quando medita sulla brutta fine del suo ex amico Sartre.
L' Oppio Degli Intellettuali
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La maledizione del finto bar

La maledizione del finto bar

Il guaio di Facebook è di essere considerato un bar senza esserlo.
Se spiegassi a un marziano autistico cos’è Facebook, quello alla fine lo penserebbe come il mezzo ideale per discutere e approfondire: la scrittura facilità l’analisi, la scomposizione dei temi, la trattazione nel dettaglio e, al contempo, la possibilità di interagire mantiene una fresca dialettica, ovvero la presenza di più voci che si stimolano a vicenda. Una specie di epistolario plurale dove si ha modo di accedere, ordinare e soppesare le ragioni reciproche.
Scripta manent, per esempio, è una maledizione per alcuni utenti ma una benedizione per la discussione. Puoi riprendere e rileggere quel che è stato scritto, puoi mettere l’interlocutore di fronte alle sue parole (di cui magari si è già dimenticato), puoi verificare le tue ribadendo dei concetto o facendo le dovute precisazioni…
Ma chi ha tempo e voglia di farlo? Chi ha tempo e voglia di scrivere un messaggio in cui esporre in modo ordinato il proprio pensiero, di predisporre una replica facendola decantare qualche ora – se non qualche giorno – affinché affiorino le imperfezioni, di ricalibrarla ulteriormente e poi, solo dopo, di postarla? La mancanza di tempo e voglia, però, non sono un difetto del mezzo ma del soggetto che lo utilizza. Non siamo al bar ma ci comportiamo come se lo fossimo.
Per chiarire ulteriormente la tesi descrivo la tipica esperienza frustrante in cui mi imbatto gironzolando per i social.
La stragrande maggioranza delle “persone social”, come dicevamo, si comporta come al bar dove si lancia una battuta ad effetto per poi sparire nel nulla nell’illusione che gli altri restino bloccati dove li lasciamo a delibare la nostra genialità; il bar, in effetti, consente e facilita una simile illusione, se uno avesse contezza di come commenta la cassiera quando hai chiuso la porta per andartene tutto tronfio, probabilmente faresti marcia indietro e anche i bar diventerebbero un ring sfibrante anziché catartico. Tuttavia, purtroppo o per fortuna, Facebook è una piattaforma strutturalmente diversa dal bar, il lanciatore di battute puo’ sempre trovare qualcuno che lo riprende per la collottola (quel rompicoglioni!) voglioso di vagliare quanto affermato con tanta sicumera. Qui scatta un momento delicato poiché il battutista da bar – per questioni che pertengono il carattere umano – in genere non è disposto a credersi tale, in genere va orgoglioso della sua “brillante” battuta, che non ritiene affatto priva di sostanza, e spesso nemmeno priva di punti deboli o soggetta ad eccezioni. Da un lato, quindi, non negozia sulle sue ragioni, e al contempo, avendo preso Facebook per la pausa caffè da cui rientrare immantinente, non ha nemmeno il tempo o la capacità di metterle meglio a fuoco ne tantomeno di difenderle analiticamente. Il nervosismo cresce e non resta che rifugiarsi nell’aggressività, che diventa subito reciproca; ecco allora che la potenziale discussione viene abortita e rimpiazzata da una sequela di stucchevoli stratagemmi retorici, quelli tipici della lite da cortile, tanto per intenderci: la proiezione, l’allusione, l’equivoco posticcio, la vaghezza ad hoc, le alleanze strumentali in cui ci si dà manforte…
***
Ma c’è un di più che spiega il ricorrente scazzo facebookiano. Qualcuno ha detto che senza un buon “cattivo” non puo’ nascere una storia interessante, e per me questa è una sacrosanta verità.
Analogia: senza un disaccordo non puo’ nascere una discussione, e chi ama le discussioni è attirato dai disaccordi. Ma poi, trascinato da questo pericoloso amore, capita che ti ritrovi spesso a cavalcare una tigre.
Nelle discussioni tradizionali buona norma vuole che, prima di infliggere il colpo, si ripetano con cura gli argomenti dell’interlocutore evidenziando le concordanze con i nostri, si elogino con sussiego l’espressiva esposizione che l’altro ne ha fatto enfatizzando quanto ci ritroviamo nelle sue parole. Poi, finalmente, tranquillizzato il nostro “avversario” si isola con delicatezza il punto di frizione e su quello si innesca una rispettosa discussione sempre intervallata con riconoscimenti reciproci.
Ma su Facebook, come su qualsiasi social, è difficile riprodurre la noiosa ma salutare manfrina del preambolo più o meno ipocritamente omaggiante, cosicché si parte in quarta con la sostanza, ovvero con i disaccordi e l’accidentata discussione che ne segue.
Concentrandosi solo sul disaccordo e parlando sempre e solo di quelli, le parti, potenzialmente vicine, cominciano a sentirsi estranee l’una all’altra, il che puo’ facilmente degenerare in aperto conflitto, basta una parolina sbagliata e l’equivoco esplode.
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Il bar che non era un bar

Fa rabbia soprattutto il fatto che il mezzo sarebbe l'ideale per discutere e approfondire. La scrittura facilità l'analisi, la scomposizione dei temi, la trattazione nel dettaglio e, al contempo, mantiene la dialettica, ovvero l'interazione con altre voci.

Scripta manent, per esempio, è una maledizione per alcuni utenti ma una benedizione per la discussione. Puoi riprendere e rileggere quel che è stato scritto, puoi mettere l'interlocutore di fronte alle sue parole (di cui si è già dimenticato), puoi verificare le tue.

Ma chi ha tempo e voglia di farlo? Chi ha tempo e voglia di scrivere un messaggio in cui esporre in modo ordinato il proprio pensiero, di farlo decantare affinché affiorino le imperfezioni, di calibrarlo ulteriormente e poi, solo dopo, di postarlo? La mancanza di tempo e voglia, però, non sono un difetto del mezzo ma del soggetto che lo utilizza.

Descrivo la mia tipica esperienza spiacevole. Su Facebook la stragrande maggioranza delle persone si comporta come al bar dove si lancia una battuta ad effetto per poi sparire nel nulla, il bar consente e facilita una simile strategia. Ma, purtroppo o per fortuna, Facebook è una piattaforma strutturalmene diversa dal bar, il lanciatore di battute puo' sempre trovare qualcuno che lo riprende per la collottola e vuole approfondire quanto ha detto. Qui scatta un momento delicato poichè il battutista da bar - per questioni che pertengono il carattere umano - non è disposto a considerarsi tale, da un lato non negozia sulle sue ragioni, e al contempo, avendo preso Facebook per la pausa caffè da cui rientrare, non ha nemmeno il tempo o la capacità di metterle a fuoco e difenderle. A questo punto non resta che rifugiarsi nell'aggressività reciproca, e allora lo scazzo e gli equivoci da inconveniente diventano un'arma.

Hacker russi e falsificazione delle preferenze

A quanto pare siamo riluttanti ad esprimere una posizione ideologica, se collocati in un contesto ostile dove siamo minoranza e rischiamo lo stigma sociale; ce la teniamo per noi occupandoci d’altro. In casi estremi ricorriamo ad alcuni singolari meccanismi psicologici in grado di occultarla anche a noi stessi.
Il fenomeno ha un nome ben preciso, si chiama “falsificazione delle preferenze”. Spiega molte cose, per esempio l’imprevedibilità delle rivoluzioni, la cui dinamica ricorre: accade sempre qualcosa di minimo che innesca poi un effetto domino nel corso del quale le preferenze a lungo falsificate dalla popolazione si disvelano via via.
Penso ora alla propaganda degli hacker russi, poniamo si siano limitati ad inondare la rete con messaggi estremisti postati sotto falso nome. Ebbene, così facendo avrebbero condizionato l’opinione pubblica, ma, e qui sta il bello, nel senso di renderla più autentica: l’ elettore estremista – ingannato - si sarebbe sentito meno solo e quindi in condizione di non “falsificare” più la sua preferenza ma di esprimerla in modo sincero.
Naturalmente questo puo’ essere un male, e io penso che lo sia, ma lo penso poiché penso che la democrazia stessa – nella sua forma più autentica -sia deleteria per noi.

The Social Consequences of Preference Falsification
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