lunedì 9 ottobre 2017

L'avo infoiato

L’avo infoiato

Siamo così sicuri che la famiglia tradizionale sia poi così tradizionale?
Siamo così sicuri che la famiglia targata “Mulino Bianco” si rinvenga in natura?
Direi di no, non ne siamo affatto sicuri.
Anche se  la narrazione tradizionale sembra favorire questa ipotesi, i dubbi in proposito sono consistenti.
Forse la famiglia tradizionale non è altro che una geniale invenzione. Tanto geniale quanto artefatta.
***
L’homo sapiens è una delle cinque grandi scimmie sopravvissute insieme a scimpanzé, bonobo, gorilla e orango. In particolare, insieme ai bonobo e agli scimpanzé, siamo gli arrapatissimi discendenti di un avo, sul piano sessuale, decisamente assatanato.
Ci sono solidi motivi per ritenere che le nozioni convenzionali intorno alla monogamia dell’uomo siano come minimo esagerate.
Probabilmente, il cambio di rotta rispetto alla nostra reale sessualità primitiva si è avuto solo 10000 anni fa in seguito alla cosiddetta rivoluzione agricola. Ma 10000 anni sono un’inezia nella storia evolutiva dell’uomo. La nostra vera natura sarebbe da ricercarsi quindi nel periodo precedente.
Una mentalità “complottista” a questo punto farebbe notare come l’approfondimento di questi temi imbarazzanti sia sempre stato silenziato dall’ autorità religiose, patologizzato dalla medicina ufficiale e ingegnosamente eluso dagli scienziati.
Sia come sia, l’ esito istituzionale di questa “trascuratezza” si è concretizzato nella cosiddetta “gabbia del matrimonio”, un’istituzione decisamente efficiente ma sessualmente frustrante e in grado di uccidere qualsiasi libido di partenza. Una soluzione di fatto fonte di tradimenti,  disfunzionalità, confusione e sensi di colpa. Non proprio il massimo. Nemmeno la monogamia seriale compensa, e rimane solo uno sfogo temporaneo ed inefficace.
Il matrimonio dipinto come la tomba del desiderio non è un’esagerazione. Per il maschio vincolarsi in quel modo è un duro colpo,  ma anche la femmina ne subisce un contraccolpo non da poco: chi vorrebbe dividere la sua vita con un uomo che si sente intrappolato e diminuito?
Lo sapevate che il 42% delle donne soffre di disfunzioni sessuali? Difficile pensare ad un “effetto naturale” quando le percentuali raggiungono certi livelli. E perché secondo voi il Viagra batte tutti i record di vendita anno dopo anno? Per tacere della la pornografia, un affare colossale su scala planetaria che rastrella solo in America dai 60 ai 100 miliardi di dollari all’anno. Perché un intrattenimento del genere dovrebbe fruttare tanto se il matrimonio fosse così appagante? Gli americani spendono molto di più negli anonimi locali di striptease che a Broadway. Sembrerebbe più “normale” godersi una sfilata di  donnine nude che qualsiasi altro spettacolo teatrale.
Il matrimonio tradizionale appare sotto attacco ma soprattutto non sembra opporre una grande resistenza. Si ha come l’impressione che la “finzione” non regga. Forse funziona solo per pochi privilegiati.
Prendiamo una categoria di persone al di sopra di ogni sospetto, un gruppo umano moralmente più affidabile della media: i preti cattolici. La Chiesa Cattolica ha pagato nel 2008 436 milioni di dollari in risarcimenti scaturiti dalle cause di pedofilia. Parliamo quindi di cedimento a “perversioni sessuali”, non di sfoghi fisiologici, lì per fortuna non c’è risarcimento da conferire. Forse la condizione del prete celibe non è tra le più conformi alla nostra natura, nemmeno quando ci riferiamo ad un’élite. La vita sessuale è negata ai preti, e, considerando che si tratta pur sempre di individui con una tenuta etica superiore alla media, ne ricaviamo che la tentazione a cui sono sottoposti è molto molto dura da reggere. Insomma, qualcosa che possiamo definire in molti modi ma non “naturale”.
La confusione tra ciò che ci viene detto e ciò che sentiamo dentro di noi crea un conflitto interiore che non fa bene.
Perché tanti divorzi? Perché così tante famiglie composte da un solo membro? Perché la passione evapora in così tanti matrimoni?
La società in cui viviamo spesso risponde solo a suon di “terapie”. C’è una patologia che va curata. Ed ecco allora sorgere la fiorente industria della “terapia di coppia“.
Viene il dubbio ci sia sotto qualcos’altro. Forse l’uomo contemporaneo comincia ad accusare lo sdoppiamento di personalità a cui è stato sottoposto: da un lato prova una spinta insopprimibile verso la  promiscuità sessuale, dall’altro sente di dover recitare in pubblico il ruolo del coniuge fedele a vita. L’industria dello spettacolo e del cinema conosce bene questo sdoppiamento e ci gioca da sempre.
Ci gioca anche Wall Street dove la pornografia, da Larry Flynt in poi, ha un posto d’onore. Che straordinario conflitto tra  proclami pubblici e  desideri privati! Lo constatiamo tutti i giorni, e vale per tutti : sia per l’uomo comune che per l’uomo famoso. L’ipocrisia sessuale sarebbe inspiegabile se il modello tradizionale di sessualità fosse davvero conforme alla nostra natura.
Si continua a dire che la monogamia è naturale e il matrimonio  un’ istituzione universale ma tutto questo non si combina con una serie di altre innegabili realtà
D’altronde, è facile dimostrare che gli esseri umani si sono evoluti in gruppi estremamente coesi, dove praticamentetutto era condiviso: cibo,  protezione,  cura dei bambini, rifugio… non si capisce bene come mai i piaceri sessuali non avrebbero dovuto esserlo.
Oltre a essere dei marxisti nati, probabilmente eravamo anche degli hippy nati.
Del collegamento  sesso-amore potremmo fare tranquillamente a meno, almeno a giudicare quanto accade tra le scimmie più vicine a noi e i popoli selvaggi che ancora oggi possiamo osservare nell’ Amazzonia.
A sostenere questa tesi c’è una montagna di evidenze circostanziate. C’è il confronto con i primati nostri cugini. Ci sono evidenze anatomiche altrimenti inspiegabili. C’è il nostro eccitamento per ogni novità sessuale che ci viene proposta. Ci sono anche taluni segnali  come la vocalizzazione copulatoria femminile, più conforme all’ipotesi della promiscuità.
Ci sono poi i punti deboli della narrazione comunemente accettata, che è bene allora riassumere brevemente.
***
Nella narrazione standard uomo e donna si cercano: lui è attento a bellezza e  gioventù. Lei invece è in caccia diricchezza e prestigio.
Ammesso che i due si piacciano, si mettono insieme in un’unione destinata a durare per sempre, o comunque a lungo.
Nel corso di questa unione non si può escludere che lei cerchi un po’ di divertimento anche altrove, per esempio con maschi geneticamente più dotati del marito.
D’altro canto, anche lui, una volta  garantita la certezza della paternità, non disdegna relazioni adulterine a breve termine.
Ma la narrazione standard non sembra affatto delineare una condizione naturale, quanto piuttosto un adattamento a particolari condizioni sociali emerse con l’avvento delle pratiche agricole e l’istituzione della proprietà privata.
Da un punto di vista evoluzionistico il tempo che ci separa dalla rivoluzione agricola è un istante nella storia dell’uomo, giusto il 5% sul totale.
Considerati i notevoli vantaggi in termini di ricchezza che all’umanità sono derivati da agricoltura e industria, il matrimonio può ben essere descritto come qualcosa di meritevole… ma non di naturale. Paradossalmente, la sua innaturalità lo rende un “sacrificio” ancora più apprezzabile.
Prima vigeva una società organizzata intorno alla divisione in parti uguali di tutto. Non che questo egualitarismo fosse dettato da ideali nobili, era piuttosto una necessità imposta per motivi di efficienza, un modo con cui l’ animale sociale  uomo minimizzava i suoi rischi.
Potremmo chiamarlo “egalitarismo selvaggio”.
Con l’avvento dell’agricoltura e della proprietà privata l’uomo ha cominciato ad organizzarsi intorno a gerarchie ben precise in grado di razionalizzare gli incentivi.
Agricoltura e proprietà privata cominciarono a rendere molto più accentuate le diseguaglianze e quindi anche la sorte della prole: diventava assolutamente necessario identificare la propria con precisione al fine di destinare senza errori i sacrifici di una vita e l’eredità cumulata.
In una società egualitaria, dove tutti i cuccioli della “banda” vengono cresciuti più o meno nella stessa maniera, non ci sono particolari eredità da “indirizzare”; se così stanno le cose,  perché mai gli individui dovrebbero privarsi di molteplici quanto occasionali relazioni sessuali dettate esclusivamente dal piacere del momento? E’ questo, oltretutto, un modo per rinforzare i legami e la coesione sociale.
Il nostro più antico antenato probabilmente era simile a un gorilla-maschio-alfa che scacciava tutti i suoi competitori per tenersi un harem di femmine. Tuttavia, la crescente capacità di cooperare ha messo in crisi il dominio del singolo  aprendo il suo harem anche agli altri maschi. Le gerarchie sono praticamente sparite, e ogni volta che mostravano di riformarsi la coalizione delle potenziali vittime tornava ad azzerarle.
Per la narrazione tradizionale questo è anche il momento in cui si forma la “coppia duratura“. È vero, talvolta si discute se prediligere l’ipotesi della monogamia o quella della poligamia, senza che si prenda mai in seria considerazione l’ipotesi complessivamente più calzante – ma anche più scandalosa – della promiscuità.
Quel che sappiamo è che la società di cacciatori in cui i nostri avi sono vissuti era di piccole dimensioni e altamente egalitaria, pressoché tutto veniva condiviso: dalla carne all’allattamento dei piccoli, si trattava di gruppi  dove praticamente non esisteva privacy. Il comunismo delle società preistoriche non è messo in discussione da nessun studioso serio, da quel che mi risulta.
È plausibile quindi  ipotizzare che la spartizione si estendesse anche all’attività sessuale. Perché escluderla? Perché non prenderla nemmeno in considerazione favorendo invece l’ipotesi della monogamia? Questo non si capisce bene. Ovvero, lo si capisce molto bene alla luce delle trasformazioni sociali originate 10000 anni fa con l’avvento dell’agricoltura e la conseguente necessità di propagandare una gestione della sessualità senz’altro più rispondente a quel contesto.
Oltretutto, esploratori, missionari e antropologi che nell’era moderna hanno avuto contatti con  popolazioni primitive sembrerebbero supportare la visione di un’umanità lussuriosa e sfrenata.
Se passate un po’ di tempo con i primati più vicini a noi noterete le femmine di scimpanzé avere approcci sessuali con dozzine di maschi differenti ogni giorno.
Guardate poi alla diffusione della pornografia, o anche solo a quanto sia faticoso mantenere una relazione sessuale monogama. Ma davvero qualcosa di naturale può risultare tanto innaturale?
Ci sono poi le nostre caratteristiche anatomiche. Il maschio hatesticoli molto più grandi di quanto un primate monogamo  abbisogni, si tratta di organi che penzolano in modo vulnerabile fuori dal suo corpo, laddove, per contro, la temperatura aiuta a preservare uno sperma sempre pronto ad essere eiaculato in modo efficace. Mostra anche un pene enorme se paragonato a quello degli altri primati, sia per lunghezza che per spessore,  oltre all’ imbarazzante tendenza a raggiungere precocemente l’orgasmo. Il seno prominente e pendulo della femmina, non necessario per l’allattamento, è un altro segno ambiguo. Impossibili da ignorare sono anche i gemiti della donna durante il rapporto: probabilmente un invito ai  maschi lontani; anche la capacità di avere orgasmi seriali supporta l’idea di promiscuità sessuale.
Con la rivoluzione agricola e un’economia più produttiva diventa cruciale poter identificare il proprio erede. Così come i confini terrestri devono essere ben definiti, anche i confini nella prole non devono lasciare adito ad equivoci.
La grande trasformazione lascia sul campo dei perdenti: la donna, che da questo momento diventa una reclusa. Ma anche per l’uomo le cose peggiorano: lo stress del carceriere è talvolta superiore a quello del carcerato. Senza dire che il povero maschio a questo punto deve immolarsi per difendere la sua preda dalle insidie esterne.
Un’altra grana per l’uomo deriva dal doversi procurare uno status sociale adeguato, infatti da ora in poi la donna non lo prenderà più nemmeno in considerazione se poco dotato da quel punto di vista.
La sessualità dell’agricoltore è voyeuristica, repressiva, omofoba e  focalizzata sulla riproduzione. Sembra il motto vetusto di una comune hippy ma è anche l’ipotesi scientifica che fa quadrare molti conti.
La terra deve ora essere posseduta, fatta fruttare e trasmessa alle generazioni future. Ma non alle generazioni future in generale, bensì solo ed unicamente ad una generazione futura ben identificata.
La narrazione standard insiste che la certezza della paternità sia sempre stata della più grande importanza ma francamente i motivi addotti a supporto di questa ipotesi sembrano debolucci.
D’altronde, la ricerca antropologica è ricca di esempi di società dove la paternità biologica è di scarsa o nulla importanza. Chi pensa ad una sessualità promiscua non ha problemi a spiegarselo, ma gli altri?
Possiamo concludere riassumendo così:  il nostro avo era sessualmente molto attivo e libero secondo un canone di promiscuità ribaltato poi nel corso della del periodo “agricolo”; a questo punto la cultura ha agito in modo da introdurre la coppia fissa e il matrimonio, istituzioni più confacenti al nascente regime di proprietà privata. Considerati gli enormi benefici in termini di prosperità e ricchezza per la nostra specie ha ricevuto da questa nuova condizione, specie dopo la rivoluzione industriale, non smetteremo mai di ringraziare quella fetta di umanità che si è sottoposta ad un simile giogo. Tuttavia, non dobbiamo nemmeno rinnegare che  un sacrificio non conforme alla nostra natura profonda sia stato introdotto.
MONOGAM

Perché non andiamo a tormentare il gatto? SAGGIO


Perché non andiamo a tormentare il gatto?


I bambini che compiono abusi sugli animali diventeranno adulti violenti?
Tormentare gli animali è solo una monelleria infantile o anche l’indicatore di una psicopatologia?
Per qualcuno noi siamo crudeli di natura, i nostri antenati erano probabilmente delle scimmie antropomorfe carnivore che si dilettavano a smembrare le loro prede 😦 .
Altri ritengono invece che i nostri bambini siano gentili e che l’insensibilità verso gli animali venga installata da una cultura che promuove attività come la caccia.
Lo stesso Charles Darwin nella sua biografia scrisse che da bambino aveva picchiato un cagnolino semplicemente per assaporare il “gusto del potere”.
L’antropologa Margaret Mead pensava che una delle cose più pericolose che potesse accadere a un bambino fosse quella di uccidere o torturare un animale: ne sarebbe rimasto segnato per sempre.
Nei primi studi sul tema si intervistavano gruppi di criminali aggressivi, gruppi di criminali non aggressivi e gruppi di non criminali, facendo poi i dovuti confronti.
Nel primo gruppo era più probabile trovare soggetti che avessero ripetutamente compiuto abusi sugli animali.
L’idea del nesso tra crudeltà infantile verso gli animali e violenza da adulti si è talmente consolidato che per designarlo è stata coniata l’espressione “The Link” (registrata all’ufficio copyright).
serial killer Albert De Salvo, lo strangolatore di Boston, Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee, e molti altri sono stati tutti accusati di crudeltà infantile verso gli animali.
Ma un esame condotto su 354 casi di omicidi seriali ha riscontrato che quasi l’ 80% degli autori non aveva esperienze precedenti note di crudeltà verso gli animali. E la connessione è ancora più tenue quando si rivolge l’attenzione ai ragazzi stragisti nelle scuole.
Tuttavia, l’ American Psichiatric Association ancora include la crudeltà verso gli animali fra i criteri diagnostici dei disturbi della condotta.
E recentemente uno studio come quello di Linda Merz-Perez e Catherine Heide insiste sul nesso.
Ma il sociologo Arnold Arluke, nel confrontare la fedina penale di alcuni soggetti che nell’infanzia erano stati condannati per abusi sugli animali con quella di un gruppo di cittadini “immacolati”, lo smentisce
Ai corsi di logica impariamo che se tutti gli A sono B, non vuol dire che tutti i B siano A. Il fatto che la maggior parte dei dipendenti da eroina abbia cominciato fumando marijuana non implica che fumare l’erba farà di te un tossico. La stessa cosa può dirsi del nesso tra violenza verso gli animali e criminalità: il bambino che strappa le ali a una falena non è particolarmente predisposto all’omicidio.
Se si studia la storia pregressa dei criminali e la si mette a confronto con quella dei soggetti rispettosi della legge ci si accorge che la percentuale di molestatori di animali non varia granché. Almeno se stiamo al lavoro certosino realizzato daEmily Patterson-Kane e Heather Piper.
Ci sono cose che effettivamente facilitano la predizione di un futuro violento, per esempio la propensione di certi bambini a picchiarsi fra loro, oppure l’abitudine a mentire sistematicamente, oppure ancora l’inclinazione ad appiccare incendi. Ma la crudeltà verso gli animali non è affatto predittiva. Almeno, così dice Suzanne Goodney Lea, andatevi a cercare i suoi lavori su internet.
Ma perché i bambini molestano gli animali? La risposta più frequente che danno loro stessi è di questo tenore: “non avevamo niente da fare, ci annoiavamo, e allora abbiamo detto: perché non andiamo a torturare il gatto?”.
Arnold Arluke avanza un’ipotesi drastica, è convinto che, per molti bambini, la crudeltà verso gli animali sia una componente normale della crescita, contribuisce a cementare i legami fra i cospiratori “complici nel crimine”.
Altri pensano al bambino come ad un esploratore compulsivo, e fanno rientrare le molestie agli animali in questa attività di “ricerca”.
La cosa migliore, ad ogni modo, è affrontare il problema in sé per sé senza trasformare i bambini dediti a questa attività in potenziali adulti psicopatici.
animali

venerdì 6 ottobre 2017

11-12 Genesi del radical chic


Genesi del radical chic


Il radical chic vive nel nostro mondo, si comporta come noi, viaggia quanto noi e consuma anche più di noi.
Ma cosa lo distingue da noi – erre moscia a parte?
Il senso di colpa. Lui, diversamente da noi, fa tutto struggendosi nel senso di colpa.
Il suo mondo è informato alla “tirannia della penitenza”.
Fa suo con entusiasmo il motto di Jules Michelet: “ho bevuto troppo sangue nero dei morti”.
La vergogna permea la sua visione del mondo, vergogna di se stessi, vergogna di essere felice, di amare e di creare. È necessario sentirsi colpevoli. Presidia giorno e notte il “confessionale laico”, il peggiore di tutti.
Se il disprezzo verso di sé è pari a 10, il disprezzo verso chi non si disprezza è pari a 100.
Le nazioni occidentali sono le prime ad abolire la schiavitù? Siano anche le sole da mettere sotto accusa, siano anche le uniche a “riparare”! La passione del radical chic è quella di imputare i crimini solo a chi se ne è già pentito.
La sua è una denuncia meccanica dell’occidente. Plaude a una rivoluzione fondamentalista o a un regime illiberale, si esalta davanti alla bellezza del terrorismo o sostiene un gruppo di guerriglieri solo perché contestano la logica imperialistadell’occidente.
Indulgenza per le dittature straniere, intransigenza verso le nostre democrazie.
È portatore instancabile di un nuovo conformismo fondato sul dovere della penitenza  e sulla macerazione nella vergogna.
Ricorda certi atei che bestemmiano Dio per meglio resuscitarlo.
La colpevolezza gli piace. Si barrica dietro la facciata maledetta del criminale perpetuo per mantenere più facilmente le distanze dai problemi reali. C’è qualcosa di frivolo nel suo desiderio di fustigazione.
I crimini commessi in passato ci intimano di tenere la bocca chiusa. Nel riserbo e nella neutralità troveremo la nostra redenzione. L’occidente buono è quello della vecchia Europa che si rintana e tace, quello cattivo è quello degli Stati Uniti che intervengano e si immischiano in ogni cosa.
Il mondo intero ci odia, e noi ce lo meritiamo. La storia, del resto, è costellata dai cadaveri che abbiamo disseminato ovunque.
Pensa senza sosta a quel “mostruoso e incomprensibile cataclisma” che fu, per una tanto larga è innocente frazione dell’umanità, lo sviluppo della civiltà occidentale.
È probabile che l’occidente abbia potuto produrre deicomputer soltanto perché da qualche parte nel mondo la gente moriva di fame e di desideri.
I suoi ideali passati sono falliti, ed è proprio il fallimento di queste utopie concrete a spiegare il risorgere di un pensiero all’improvviso liberato dalla necessità di confrontarsi con il reale.
Ogni passo falso dell’Occidente… se l’è voluto. Il terrorismo ci colpisce? È perché siamo colpevoli.
Così come esistono predicatori di odio nel l’islamismo radicale, esistono predicatori di vergogna nelle nostre democrazie. I terroristi ci colpiscono ma tutti noi siamo terroristi potenziali. Tutto questo sangue in fondo è solo un regolamento di conti tra stati canaglia.
Sulle sue insegne campeggia il Salmo XVIII: “O Dio, assolvimi dalle colpe che ignoro e perdonami quelle altrui”. Ha perso ogni speranza nel paradiso ma si aggrappa alla speranza della dannazione sulla terra.
Il suo ipercriticismo si tramuta in odio di sé e lascia alle proprie spalle solo rovine. Dal rifiuto dei dogmi nasce il dogma del tutto nuovo della demolizione.
Un orgoglio tutto particolare lo invade, l’orgoglio di chi si riconosce peggiore degli altri. Si sente rappresentante unico dell’occidente predatore che si cosparge il capo di cenere. Detesta l’occidente non tanto per le sue colpe reali ma piuttosto per il suo tentativo di emendarle
Un tipo del genere, naturalmente, anche se “inventato” oltre oceano, prolifera  in Europa: non ci si dimentichi mai che l’Europa contemporanea non è nata, come gli Stati Uniti, da un giuramento collettivo che asserisce che tutto è possibile, è nata dalla stanchezza delle ecatombi, da una coscienza infelice e insicura.
Per lui la storia, o meglio la storia che ci riguarda, è un cesso intasato. Continuiamo a tirare l’acqua, ma la merda torna sempre a galla.
***
Ecco, capire il radical chic significa capire l’origine di questo senso di colpa.
Liquidare il radical chic significa liquidare il suo senso di colpa.
***
Mentre voi da ragazzini voi giocavate a pallone al parchetto, lui, il futuro radical chic,  leggeva accanitamente  Marx, intendo il Marx storico.
Si è fatto raccontare la storia del mondo moderno da Marx. Non lo ha solo letto, lo ha assimilato, capito e condiviso.
Ha capito magari anche – nei casi più illuminati – che Marx è superato come filosofo, che è irrecuperabile come economista, che è problematico come sociologo. Ma come storico no, come storico regge ancora benissimo. Come storico guai a chi lo tocca.
Queste letture sono alla base di alcuni pregiudizi duri a morire. Esempio, per lui dominio e sfruttamento sono la stessa cosa, non si discute neanche per un attimo.
Ma soprattutto ha imparato a figurarsi la ricchezza quale una casa costruita con i mattoni. Si mette un mattone sopra l’altro finché si ottiene un mucchio di mattoni, et voilà, ecco che si è creata della ricchezza. Si mette un euro sopra l’altro finché si ottiene un mucchio di euro e si è ricchi.
Noi occidentali saremmo ricchi perché il nostro mucchio di euro è più alto di quello africano. Tiè.
Per lui il capitalismo = accumulazione.
Quindi: 1) noi siamo ricchi perché capitalisti, 2) il capitalismo è basato sull’ accumulazione 3) l’accumulazione è indebita, 4) il nostro benessere è indebito.
L’errore fondamentale sta in 2), tutto il resto come come una fila di birilli.
Oggi tutti noi accettiamo e utilizziamo la parola “capitalismo” senza comprendere che questo termine ha natura denigratoria, che è stato coniato apposta per insinuare un senso di colpa.
Dovremmo sostituirlo con il termine più rigoroso di “innovismo” che descrive meglio il nostro sistema, ovvero un sistema in cui la ricchezza emerge da un “cambiamento testato sul mercato”.
Il sistema fuoriuscito dalla rivoluzione industriale – che ci elargisce la ricchezza di cui il radical chic si vergogna – non puo’ essere visto come caratterizzato dai commerci. I commerci sono sempre stati fra noi, c’erano nell’  America Lattina del 1800 e non erano certo sconosciuti nella Cina e nella Mesopotamia del 1800 avanti Cristo, ma se vogliamo ve n’è traccia anche 80000 anni prima della nascita di Cristo, nell’ Africa culla dell’umanità. I commerci affiancano l’uomo da sempre.
Weber e Braudel sono colpevoli di aver ingenerato l’equivoco per cui capitalismo=commercio.
La nostra ricchezza non deriva dai commerci e quindi neanche dallo sfruttamento commerciale di talune nazioni, il radical chic puo’ tranquillizzarsi.
Il capitalismo moderno diventa una novità unica nella storia dell’uomo solo se considerato come “innovismo”, ovvero come sistema che mette al suo centro l’innovazione e la distruzione creativa che l’innovazione comporta.
Altra presunta esclusiva del capitalismo moderno: la produzione su vasta scala, la grande impresa “a catena”. Tutto era già presente nell’antica Cina (lavorazione della seta) e nell’antica Roma (produzione dei concimi di pesce). E mi fermo qui, l’ipotesi non merita nemmeno di essere approfondita.
Quando capiamo che l’accumulazione di capitale era già tra noi dall’età della pietra mandiamo a ramengo tutta la narrazione di Marx a cui si è abbevera da sempre il radical chic
L’equivoco alligna anche tra gli economisti dello sviluppo contemporanei, come dice bene William Easterly, i quali sostengono che il terzo mondo ha bisogno di accumulare risorse prima di creare ricchezza.
Il capitalismo è innovazione+mercato. Non capirlo manda fuori strada.
L’innovazione da sola non basta poiché anche l’innovazione più geniale può risolversi in un puro spreco. Anzi, il cambiamento è un costo di per sé e se questo costo non è compensato va subito mollato. Il test di mercato è il filtro di selezione naturale del sistema: la gente è disposta a pagare per cambiare?
Nelle società capitalistiche non è il capitale a dominare ma le idee.
Mark Zuckerberg, Henry Ford, Andrew Carnegie dominano e hanno dominato senza che all’origine del loro dominio vi sia stato alcun accumulo di capitale. C’era solo un’idea.
Al centro del capitalismo sta l’imprenditore, con le sue idee e la sua disponibilità ad assumere dei rischi.
E’ lui l’eroe. E’ all’eroismo del borghese che dobbiamo il nostro benessere. Ma il radical chic il borghese lo odia.
Chiamare questo sistema “capitalismo” significa mettere al centro il capitale, il che è sommamente inaccurato. Al centro va messa l’intelligenza del borghese.
La parola capitalismo emerge nel tardo XIX secolo nella narrazione della sinistra europea, rinvia ad un mitologico indebito accumulo di capitale su cui si fondano tutti i nostri privilegi.
Secondo Marx la storia della rivoluzione industriale inizia lentissimamente con un accumulo che parte nel XVI secolo e che si è via via ingigantito fino a fruttificare di colpo con la rivoluzione industriale.
Le radici della nostra prosperità starebbero fisse in questo retroterra fatto di soprusi, sfruttamenti e appropriazioni indebite.
Gli storici che hanno rinvigorito e tramandato questa “fiaba” sono molti e a volte insigni, esempio: R.H. Tawney, Maurice Dobb e Chrisopher Hill.
Secondo costoro i primi capitalisti usavano il loro potere per opprimere i lavoratori, per schiacciare i salari riducendo alla fame la classe operaia. E anche per realizzare una “competizione sfrenata”.
Ma la competizione è un tratto tipico di tutte le società commerciali, per cosa erano nate le gilde medievali? Per fronteggiare una “competizione sfrenata” che non consentiva di sfruttare il consumatore. Pensare alla competizione come ad una peculiarità della rivoluzione industriale è un abbaglio.
Altro mito marxista: i salari da fame. La domanda è l’offerta determinavano i salari, non l’ avidità del capitalista. I lavoratori della Rivoluzione Industriale non hanno mai visto i loro salari abbassarsi e non si trattava di salari da fame, tanto è vero che accorrevano a frotte dalle campagne, sebbene le condizioni urbane fossero al limite del disumano, basterebbe pensare all’acqua potabile.
Al contrario, i salari sono sempre più aumentati nel tempo, così come il lavoro minorile è diminuito. E questo ben prima che si affermassero i sindacati o qualsiasi tipo di legislazione sociale in tal senso.
Gli errori del marxismo e dei suoi epigoni derivano dall’ aver dato troppo peso alla narrazione di brillanti dilettanti come per esempio Arnold Toynbee, una narrazione ripresa poi dai socialisti Fabiani e infine ricevuta dai marxisti sulla base di un telegrafo senza fili nel quale la mitologia è nel frattempo proliferata. Una storiografia amatoriale e senza basi solide che ha giocato un brutto tiro a molti storici, e di cui oggi paga le spese il radical chic. E’ un po’ come studiare la Gran Bretagna del XIX secolo leggendo solo Dickens: la storia ridotta a romanzo d’appendice.
Veronica Wedgwood racconta bene come la versione fiabesca di una rivoluzione industriale fatta da accumulatori che poi sfruttavano il loro potere si diffuse artatamente presso l’intellighenzia europea.
Da allora l’ anticapitalismo di certi accademici è prassi consolidata. Ancora recentemente ricordiamo bene la figura di Milton Friedman associata a quella di Pinochet, oppure quella di James Buchanan associata ai segregazionisti dell’Alabama. E a porre un freno non giova certa sciagurata retorica neo-liberista di stampo machiavellico-benthamita per la quale “greed is good”.
***
L’ accumulo di capitale (senza innovazione) non spiega proprio nulla, d’altronde esiste da sempre nella storia, ed esiste non accompagnato da cio’ che vogliamo spiegare.
Persino Keynes – altro padre nobile dei radical chic -ammette che il rendimento dei capitali tende a zero in mancanza di rischi legati all’innovazione.
È stata una forza esterna a generare i grandi rendimenti del risparmio nei periodi successivi alla rivoluzione industriale, non quell’automatismo misterioso a cui pensano i “teorici del capitale”.
Ma c’è di più, il capitale cumulato a prescindere tende adeprezzarsi. È soggetto a una specie di entropia. Possiamo chiamarla obsolescenza.
Vele persino per un capitale prezioso come quello umano: lo sa bene il cinquantenne che si ritrova nell’epoca dei nuovi media con un capitale di conoscenze azzerato e da riconvertire.
Solo Dio è la capacità di innovare sono esenti da obsolescenza.
La capacità di concentrare e accumulare è sempre stata una specialità cinese. Non dobbiamo mai dimenticarci che in era premoderna quasi metà della popolazione urbana viveva in Cina. Come mai allora la Cina non ha mai fatto registrare ungrande balzo che abbia consentito la rivoluzione industriale?
Di fronte a tutti questi inciampi la narrazione radical chic rispolvera vecchie nozioni come quella di avidità: dal 1848 una singolare avidità si è impossessata dell’imprenditore europeo. Qualcosa di mai visto prima. La testa dell’uomo è cambiata.
Il primo a negare l’ipotesi e Max Weber: “… la nozione per cui la nostra era razionalistica e capitalistica sia caratterizzata da interessi economici superiori a quelli di altre epoche storiche passate è infantile”. L’istinto egoistico non si può negare ma è sempre esistito è sempre esisterà.
La chiave con cui spiegare il tesoro su cui sediamo è un’altra: un cluster di idee per il miglioramento da far testare al mercato. Grazie a questa formula siamo volati ovunque.
Nella società europea a un certo punto le idee hanno cominciato a fare sesso tra loro, come dice in modo eloquente Matt Ridley.
Il produttore di idee – non solo veniva magnificato dalla retorica dell’epoca – ma aveva accesso a una rete di comunicazione che lo connetteva con i suoi “colleghi”.
Questo “momento” singolare si realizzò intorno al 1800. Sta qui la soglia che cerchiamo.
Cosa è scattato? Facciamo un esempio illuminante: l’ ascia è un attrezzo rimasto fisso per un milione di anni. Confrontatela con il mouse del vostro computer, una roba che cambia di anno in anno. E’ l’immagine migliore per capire cosa differenzia l’eldorado in cui siamo entrati dalle epoche precedenti.
Chi usa ancora una macchina da scrivere? Chi guarda la TV in bianco e nero? Che fine hanno fatto le competenze del centralinista? E che fine hanno fatto le lauree in latino?
Tutto fagocitato dalla grande distruzione creativa, la nostra unica e vera benefattrice.
Non le colonie, non lo sfruttamento dell’operaio, non il cumulo avido di capitale, ma la tremenda distruzione creativa operata da idee valorizzate in una società borghese. A questo dobbiamo la nostra ricchezza, e di questo non dobbiamo nutrire alcun senso di colpa, semmai un senso di legittimo orgoglio.
Gli economisti sono i primi colpevoli se il radical chic è tra noi e ci disturba con la sua lagna. Gli economisti hanno sempre avuto pochissimo da dire sulle cause dell’innovazione. C’è tra loro una clamorosa mancanza di curiosità sul fenomeno cardine nella ricchezza delle nazioni. C’è nel loro lavoro una cocciutaggine inspiegabile nel forzare la storia in quel letto di procuste che è la teoria del capitale. Forse perché l’innovazione disturba, scompagina, mette disordine. Nella realtà come nei loro modelli asettici.
Cosa opporre ai radical chic? innanzitutto una nuova retorica. Parliamo di “Era dell’Innovazione” e non più di “Era del Capitalismo”.
John Rockefeller o Bill Gates sono i protagonisti della nostra era e non hanno mai accumulato un dollaro, hanno sempre accumulato idee.
O perlomeno, non hanno accumulato più di quanto non facessero già in Mesopotamia 2000 anni prima di Cristo, stando ai cuneiformi incisi nell’argilla e decifrati dagli archeologi. Oppure i greci ad Atene 500 anni prima di cristo.
Non hanno commerciato più di quanto non facessero già nel Medio Oriente con le conchiglie e le collane 6000 anni prima di Cristo, oppure gli aborigeni australiani per tutta la loro storia.
Il capitalismo è antico, il capitalismo ci accompagna sin dall’alba della civiltà. Quel che invece conosciamo solo noi è l’idea di innovazione sistematica e di distruzione creativa.
Gli altissimi tassi di risparmio dell’Italia nel 19esimo secolo non hanno mai portato un vero sviluppo. Quelli inglesi della stessa epoca, incomparabilmente più bassi, hanno creato un miracolo imitato da tutti. Di fronte a evidenze come queste chi puo’ dire ancora che il tasso dei risparmi – e quindi l’accumulo di capitale – sia la variabile chiave di tutta questa storia?
Non l’accumulo ma lo sviluppo tecnologico dobbiamo ringraziare. L’opera di Joel Mokyr è tra le più complete nel tracciare questa chiara distinzione.
Se non vi basta guardate all’America Latina e agli Stati Uniti, una terra depressa e l’altra sviluppata. Dove tracciare una distinzione significativa? Da una parte solo gerarchia e immobilità sociale, dall’altra parte parità di diritti ed esaltazione dell’uomo comune. A contare sono le idee, non il proprietario del cervello che le produce.
Laddove si sviluppa un senso di rispetto per l’uomo comune, che poi è il borghese, non c’è nemmeno sfruttamento neanche dell’operaio: la classe operaia statunitense è ferocemente antisocialista. Per capire fino a che punto vale la pena di consultare il lavoro di David Ramsey Steel.
Ma il radical chic è in buona compagnia nel suo disgusto,  il borghese trafficone è da sempre disprezzato anche da Chiesa e Nobiltà. E c’è chi va oltre dopo aver notato questa comunanza, ovvero ipotizza che il disprezzo del radical chic verso il Borghese sia solo una modalità latente per accreditarsi verso Nobiltà e alto Clero. Insomma, una delle tante forme assunte dall’eterno complesso d’inferiorità verso la classe dominante.
radical