venerdì 13 dicembre 2019

PERCHE' NON SONO VEGETARIANO

Se uno vive nel XXI secolo prima o poi dovrà chiedersi se sia giusto mangiare gli animali. In genere le persone hanno forti convinzioni su questo punto ma spesso si basano su vaghe intuizioni che si traducono nel dialogo da sordi tipico delle guerre culturali.
La domanda centrale da porsi è se la vita di un animale di allevamento valga la pena di essere vissuta, poiché l'alternativa realistica al consumo di carne non è una vita migliore dell'animale stesso ma molto più semplicemente il non venire al mondo.
Partiamo da un fatto incontrovertibile: il "dolore" degli animali schiavizzati e uccisi sarebbe irrilevante se incosciente. Investigare sulla coscienza degli animali diventa importante. La maggior parte degli animali ha sensori, ma, in assenza della coscienza, innescarli potrebbe non provocare l'esperienza soggettiva della "sofferenza". Purtroppo, il concetto di coscienza è problematico. Cos'è la coscienza? Il solipsismo ci impedisce di vedere quella altrui. Io sono cosciente, ma potrei mentire e nessuno potrebbe smascherarmi. Potrei avere dei dubbi anche sulla coscienza di mia figlia!. Di fatto una "cosa" è cosciente se è cosciente. Se è sensibile al bene e al male, se è libera, se è responsabile, se si rende conto.
Di certo gli animali hanno una coscienza inferiore a quella umana, indirettamente lo ammettiamo tutti non ritenendoli responsabili per quello che fanno; gli animali non rivendicano i loro diritti e anche l'animalista più acceso trova giusto schiavizzare il suo adorato cane. Tuttavia, potrebbero avere una coscienza in grado di provare dolore e sofferenza. Gli indizi fondamentali di una "coscienza inferiore" in questo senso sono due:
1. Un'architettura del cervello simile alla nostra e risultante dal medesimo processo evolutivo.
2. Comportamenti difficili da spiegare se non in riferimento all'esperienza cosciente.
Fisicamente la coscienza sembra risiedere nella corteccia cerebrale posteriore, laddove c'è un certo ripiegamento che non saprei descrivere altrimenti (l'ho letto su un libro e mi fido). Non chiedetemi di più. Molte parti del cervello possono essere rimosse senza grandi cambiamenti nella personalità o nell'intelligenza, ma se mancano anche piccole parti della corteccia posteriore i pazienti perdono grandi quantità del contenuto cosciente: consapevolezza del movimento, consapevolezza spaziale, sonora, visiva, ecc. È importante riconoscere che la coscienza è una cosa specifica, fragile, con caratteristiche distinte che differiscono da altre attività neuronali che associamo all'intelligenza, quindi l'intelligenza degli animali rispetto agli umani non si correla necessariamente con il loro grado di coscienza.
Ora, tutti i mammiferi hanno una corteccia cerebrale, con gradi diversi di sviluppo. Pertanto, tutti i mammiferi sono probabilmente coscienti, sebbene con grandi differenze in vividezza e complessità. Uccelli e rettili sono un caso più difficile perché la loro evoluzione del cervello è divergente rispetto a noi. I pesci non hanno alcuna architettura neurale per le parti legate alla coscienza.
Lo studio del cervello è importante perché se schiacci una mosca, si dibattere ed emetterà forti rumori "arrabbiati" prima di soccombere, un uomo reagirebbe allo stesso modo. Se non sapessi nulla dell'architettura neurale delle mosche, potresti concludere che le mosche sono consapevoli e capaci di soffrire come noi.
Ma la coscienza non è il cervello, quindi un altro ambito di indagine sono i comportamenti animali. Si possono progettare test di "intelligenza" animale, come il test dello specchio (consiste nell'osservare la reazione dell'animale allo specchio). Ma gli elefanti (sicuramente coscienti nell'analisi dei cervelli) falliscono regolarmente nel riconoscersi mentre più di un pesce lo passa. Considerando anche la dissociazione tra coscienza e intelligenza direi che questi test hanno un'importanza relativa.
Alcuni studiosi osservano comportamenti che si associano a stati emotivi simili a quelli umani. A volte c'è grande differenza nell'intelligenza ma grande somiglianza nel comportamento. In questi ultimi casi è plausibile che l'animale stia vivendo un'esperienza cosciente simile alla nostra. Quando giochiamo con il nostro cane percepiamo un suo coinvolgimento cosciente, al di là della sua intelligenza. Gli scimpanzé che vedono un altro scimpanzé perdere un combattimento lo consolano con un sovrappiù di grooming, cosa impossibile da immaginare senza una bruciante sconfitta. Tutto sommato, trascorrere del tempo con gli animali (in particolare i mammiferi superiori) rende abbastanza difficile immaginare che siano tutt'altro che coscienti, anche se la mera intelligenza potrebbe da sola spiegare molto direi che non spiega tutto. C'è anche da dire che la gamma e la complessità dei comportamenti animali è strettamente correlata all'architettura del cervello che riteniamo causa la coscienza: più complessa è l'architettura del cervello, più il comportamento è "umano".
Gli animali che intendiamo come coscienti hanno meno probabilità di esibire un comportamento "meccanico" tipico degli automi. Esistono molti esempi di comportamento "robotico" negli insetti (tipo i vortici della formica, il volo ripetitivo delle api o delle falene), mentre ci sono pochissimi esempi di "robotica" nel comportamento dei mammiferi. Un esempio comico di robotica l'ho appena visto su YouTube: è quello degli anatroccoli che seguono il cane pensando sia la loro mamma.
Al netto di tutte le incertezze c'è una buona ragione per credere che tutti i comuni mammiferi che ci mangiamo (mucche, maiali, pecore, capre) abbiano una coscienza inferiore in grado di sottoporli a sofferenze. Dall'altro lato, questa coscienza degrada man mano che passiamo dai primati, agli altri mammiferi, agli uccelli, ai pesci, agli insetti giù giù fino alle piante. C'è come una scala di coscienza che va dall'uomo alle pietre in modo più o meno uniforme.
Ma noi crediamo realmente che gli animali abbiano una coscienza? Qui si crea un problema poiché il nostro atteggiamento verso gli animali, anche quello degli animalisti, non è conforme a questa scala. Di solito, per esempio, attribuiamo una coscienza inferiore a certi animali e zero coscienza agli insetti. Nessuno si preoccupa di ammazzare milioni di insetti con il parabrezza della propria auto! Bryan Caplan ne ha tratto conseguenze decisive: poiché il problema della coscienza è troppo ostico se affrontato nel merito, traggo le mie conclusioni misurando l'ipocrisia della gente che partecipa al dibattito; poiché la "questione insetti" segnala alta ipocrisia tra gli animalisti, la probabilità che abbiano ragione nel merito si abbassa in modo decisivo. Questo è un buon punto. Tuttavia, ripenso al mio cane e non riesco ancora a convincermi che sia solo un robot intelligente: una certa coscienza è presente in lui, nessuno mi convincerà del contrario.
Sulla coscienza concluderei così: le incertezze sono molte, anche se negare la coscienza mi sembra piuttosto azzardato. Per questioni di prudenza sarei orientato ad adottare per gli animali una morale di tipo utilitarista. Se l'uomo ha dei diritti inviolabili, l'animale ha un benessere di cui bisogna tenere conto. Se l'uomo è sempre un fine e mai un mezzo, l'animale puo' essere mezzo ma solo a certe condizioni. Va bene così?
In questo caso, quindi, diventa importante capire "quanto" soffrono gli animali allevati. Purtroppo non esiste alcuna unità di misura per misurare questa esperienza. In generale si puo' concludere che la vita delle mucche sia migliore di quella dei maiali che è migliore di quella dei polli (un vero inferno). Il problema è un altro: a prescindere dalla qualità si tratta comunque di vite che meritano di essere vissute? E qui si entra nel vivo.
Parlando in generale, l'evoluzione non si preoccupa di quanto tu sia felice fintanto che a) esisti e b) trasmetti i tuoi geni, cosicché ha escogitato una serie di compensazioni nel sistema nervoso per garantire che gli animali come te 1) non siano mai soddisfatti al punto da smettere di competere, ma neanche 2) mai così infelici da desiderare di non esistere. Cio' che abbiamo è una specie di felicità di base a cui ritorniamo sempre una volta assorbiti i picchi verso l'alto e verso il basso. Poiché non si possono intervistare gli animali, vale la pena di concentrarsi su quelle condizioni in cui le persone segnalano cambiamenti nella felicità o si suicidano e di confrontarle con le esperienze degli animali d'allevamento.
Nell'uomo l'abitudine assorbe quasi tutto. E' un potente ammortizzatore delle condizioni esterne. ma questa è una regola base del nostro apprendimento: quando ci viene ripetutamente inviato un segnale, soprattutto se è molto frequente e non è cambiato di recente in intensità o durata, cessiamo di sperimentarlo in modo consapevole. Noi notiamo solo le novità. Ci abituiamo anche al dolore e alla sofferenza, persino a forti shock del sistema. In letteratura questo è noto come il paradosso della disabilità, in base al quale la maggior parte delle persone con disabilità grave riferisce di avere una qualità della vita buona o decente, anche quando agli osservatori esterni la loro sembra una vita indegna di essere vissuta. Il consenso nelle ricerche sulla felicità è che le persone abbiano un livello generale abbastanza stabile di felicità-base a cui rimbalzano regolarmente dopo qualsiasi cambiamento in positivo o in negativo. In un famoso studio di Brickman, i paraplegici vittime di incidenti e i vincitori di lotteria hanno riportato livelli simili di felicità prima e dopo il "grande evento" della loro vita.
Passiamo alla storia: il consenso tra gli storici è che mentre la schiavitù causava stress e sofferenze estreme, il tasso di suicidi da parte degli schiavi è sempre stato decisamente basso.
Passiamo alla medicina. Analizzando il profilo psicologico dei pazienti in cure palliative con cancro terminale, solo un trascurabile numero era da considerarsi a rischio suicidio. E anche chi ha scelto alla fine questa strada funesta, per quanto presentasse menomazioni funzionali e fisiche, dolore incontrollato, consapevolezza di essere nella fase terminale della propria vita e depressione, segnalava comunque come fattore scatenante della scelta la paura di perdere la propria autonomia e di essere un peso per gli altri.
Tirando le somme, talvolta gli uomini decidono che le loro vite sono intollerabili e si suicidano. Ma è interessante notare che questo fatto non lo vediamo mai in altri animali. Le uniche osservazioni aneddotiche credibili sono relative ai delfini, si tratta di bestie molto intelligenti che possono suicidarsi non respirando. Tuttavia, se gli uomini in condizioni estremamente miserabili non scelgono il suicidio, penso sia lecito ipotizzare che la vita di un animale di allevamento valga comunque la pena di essere vissuta.
La preferenza per la vita è tenace in qualsiasi essere vivente. La letteratura scientifica e gli esempi storici tratti dalla schiavitù e dalle malattie terminali suggeriscono che ci abituiamo praticamente a tutto. L'adattamento edonico è una forza travolgente. La vita dei nostri antenati era molto molto dura. Brutale, direi. Per questo anche in condizioni che le persone dei paesi avanzati etichetterebbero come "molto peggio della morte", l'evoluzione ha fatto in modo che si continui a preferire la vita. Non solo si sopravvive ma si vuole farlo in tutta coscienza. I bambini che giocano nelle discariche africane non sono poi molto meno felici dei bambini che giocano nei soggiorni europei.
Questo significa che gli animali, non importa quanta sofferenza provino, preferiscano vivere? Una risposta certa non c'è ma dopo quanto detto propenderei per il sì. Se le cose stessero così gli allevamenti aggiungerebbero felicità al mondo. Se non ci fossero ce ne sarebbe un po' meno: gli animali allevati possono vivere una vita degna e noi possiamo mangiarli a cuor leggero. Il caso più infernale è quello dei polli ma, essendo uccelli, anche il loro cervello segue una linea evolutiva ben differente dal nostro. Questa distanza aumenta i dubbi di una loro coscienza, cosicché anche il loro caso puo' rientrare in quello più generale.
Ma la scelta carnivora è ostacolata da altri due fattori: salute e ambiente.
Privare della carne un bambino puo' essere problematico ma contenere il consumo degli adulti dà dei benefici in termini di salute. Per fortuna, almeno per quanto riguarda gli adulti, si tratta di un'opzione personale. S'informano e scelgono per conto loro. Ognuno scelga come morire.
Ma la carne inquina, è un fatto. Gli allevamenti emettono gas serra. Ma il problema è collettivo e si affronta razionalmente tassando le esternalità, non con scelte etiche personali o stili di vita che oggi hanno tutta l'aria dell'esibizionismo moralista. Tuttavia, è anche vero che in assenza di politiche fiscali adeguate, la scelta personale puo' pesare.
Personalmente penso che mangiare carne sia lecito: 1) il problema della coscienza è ostico e indebolito dall' "argomento insetti",1) agli animali è comunque corretto applicare un'etica utilitaristica, 3) gli allevamenti sembrerebbero aumentare la felicità nel mondo anziché diminuirla. Resta il problema ambientale, ma qui l'impegno politico è comunque preferibile all'impegno dietetico.

ABUSO DI MATEMATICA

Che tra gli economisti si abusasse della matematica lo sospettavo, ma che la cosa avvenisse anche nella fisica mi coglie di sorpresa. Si tratta però di due fenomeni ben diversi. Mi spiego meglio.
Nessuno ha idea del perché la matematica funzioni così bene nel descrivere la natura. Miracolo. Qualcuno se ne approfitta, però. Vediamo come e perché.
Grazie al "miracolo" di cui sopra possiamo formulare teorie precise in termini di assiomi matematici e poter prevedere il futuro. Storicamente, le teorie della fisica non sono nate così, tuttavia questo è un buon modo di pensare al ruolo della matematica. la sua utilità è straordinaria. Per esempio, se una teoria ha incoerenze interne è sbagliata, questo i fisici lo hanno imparato subito. La cosa ci fa risparmiare un sacco di tempo!
Ma ecco l'abuso. C'è infatti chi arriva a pensare che, poiché cio' che esce dagli assiomi viene derivato "necessariamente", allora anche le leggi di natura siano "necessarie", cioè inevitabili. Certo, una volta che hai scritto degli assiomi, allora qualsiasi cosa tu possa derivare da questi assiomi può essere considerata una conseguenza inevitabile. Ma qui andiamo oltre, la matematica non si limiterebbe a descrivere bene la natura ma si identificherebbe con essa. E' un modo per risolvere il "miracolo" della matematica: se matematica e natura coincidono non c'è nulla di strano che la prima "descriva" perfettamente la seconda, sono la stessa cosa!! Senonché, gli assiomi stessi non possono essere dimostrati, non non sono inevitabili, di conseguenza non sono inevitabili nemmeno le leggi derivate da essi.
Questa confusione non è innocua. È l'errore che sta dietro certe sicumera dei teorici delle stringhe, i quali pensano di essere sulla buona strada solo perché sono riusciti a creare una struttura matematica per lo più coerente. Che questa struttura sia coerente è ovviamente necessario ma non è certo sufficiente per avvalorare la loro teoria.
Un'altra sfortunata conseguenza delle incomprensioni sul ruolo della matematica si riflette nel proliferare di teorie sul multiverso. Se la tua teoria genera contraddizioni, infatti, puoi sempre accomodarla semplicemente eliminando alcuni assiomi di partenza finché l'inconveniente svanisce nel nulla. Ma eliminare degli assiomi non è una strategia scientificamente fruttuosa perché si finisce con teorie magari "bellissime" ma ambigue e comunque poco utili a fare predizioni. Tuttavia, è una soluzione a basso sforzo per chi vuole sbarazzarsi di certe "brutture" che non ci fanno quadrare i conti. Ebbene, è proprio da questi vizietti che provengono le teorie del multiverso: sono teorie che servono per quadrare i conti senza incrementare in nulla la capacità predittiva delle teorie tradizionali.
In qualche modo un numero crescente di fisici si è convinto che le idee intorno al multiverso sono buone teorie scientifiche, mentre nei fatti occorrerebbe che le si consideri per quello che sono: del tutto inutili. A meno che non si voglia essere maliziosi buttandola in filosofia: l'ipotesi del miltiverso è la migliore alternativa al teismo.

giovedì 12 dicembre 2019

PERCHE' LA COSTITUZIONE NON LEGITTIMA NESSUNO.

PERCHE' LA COSTITUZIONE NON LEGITTIMA NESSUNO.
La Costituzione italiana è forse il "contratto" che tiene assieme gli italiani?
Contratto de che? Io non ho firmato nulla!
Fa niente, dicono con sussiego i teorici del contratto sociale, è il "contratto" che gli individui avrebbero firmato in certe condizioni ipotetiche. Per quello sono state usate le virgolette, cosa ti credevi? Solo così, infatti, possiamo immaginare una società giusta.
Bè, in questo caso le cose cambiano. Anche se una resta ferma: i "teorici del contratto sociale" sono dei gran paraculi: il loro approccio li esenta dalla ricerca di prove empiriche a sostegno. A loro basta e avanza essere persuasivi sostenendo che "le persone avrebbero accettato se...". E' facile prevedere che chi dissente da loro difficilmente "avrebbe accettato". Ma loro hanno la risposta pronta. Leggete e la scoprirete.
Tanto per cominciare osserverei che si tratta comunque di un approccio lontano dal senso comune: in genere sono le promesse che uno fa a vincolarlo, non quelle che "avrebbe fatto se...". La violenza è legittimata solo dai fatti, non dalle ipotesi.
Ma un contrattualista potrebbe invitarti a lasciar perdere le promesse e considerare piuttosto questa analogia: supponiamo che un paziente incosciente sia stato portato in ospedale bisognoso di un intervento chirurgico. In circostanze normali, i medici devono ottenere da lui il consenso informato. Ma nel nostro caso non puo' darlo. Che fare? E' giusto presumere che acconsentirebbe alla procedura di salvataggio se fosse in grado di farlo. E' il nostro caso! Dobbiamo immaginare "cosa avrebbe risposto se...".
Non proprio, l'analogia zoppica: I cittadini di un determinato paese non sono né tramortiti né mentalmente incompetenti. Nel caso trattato, invece, l'ottenimento del consenso era impossibile. Inoltre, anche ricorrendo al consenso ipotetico del malato, questo deve essere comunque informato ai valori e alle credenze filosofiche che la persona professava nella sua vita. Per esempio, il medico curante, a causa della sua familiarità con il paziente, potrebbe essere consapevole che il paziente ha forti obiezioni religiose a subire certi trattamenti.
A questo punto interverrebbe con foga Thomas Nagel: ma quando un sistema rigorosamente volontario è irrealizzabile, un'approssimazione diventa accettabile. Ad esempio, proseguirebbe Nagel, potremmo presumere che le parti dell'accordo ipotetico siano più informate, più eque e più razionali delle persone reali. Persone del genere troverebbero un accordo che noi possiamo inferire facendo appello appunto alla ragione, un po' come inferiamo le risposte che ci avrebbe dato il paziente in coma facendo appello alla sua vita vissuta.
Avete notato che le parti del contratto "nageliano" sembrano tutte fatte con lo stampino? Ma se perdiamo per strada le differenze perdiamo le persone stesse. Le persone ragionevoli possano avere persistenti differenze religiose/filosofiche. Perché no? Troppo facile pensare ad un accordo chiuso tra gemelli identici. Lo stampino di Nagel è qualcosa di più di un'approssimazione. L'identità abolisce la diversità. La ragione è sempre incarnata in una vita concreta.
Ma i contrattualisti sono degli inguaribili ottimisti: per loro, non solo l'accordo verrà chiuso, ma sarà anche di un certo tipo. Devo ammettere che anch'io mi mostrerei fiducioso quando sono esentato dal fornire ogni prova a riguardo. D'altronde, i contrattualisti non fanno alcun serio sforzo per dimostrare che i sistemi politici reali si avvicinano in qualche modo al loro modello. L'omissione si spiega con il fatto che, in realtà, nessun governo soddisfa le loro condizioni di legittimità. Oppure, guardando le cose in altro modo, tutti le soddisfano! Il che è ancora peggio come vedremo.
Quando, per esempio, Nagel si chiede come sarebbero ripartite le risorse in una società ideale fa i due casi estremi: egalitarismo completo e zero ridistribuzione. Il modello contrattualista, a quanto pare, ricadrebbe in questo ampissimo intervallo. Non ha null'altro da aggiungere. Grazie al cazzo. Il contrattualismo, in sintesi, "dimostra troppo", dimostra tutto! Tutto potrebbe essere coerente con il contrattualismo, anche la dittatura di Bokassa. D'altronde il contrattualismo nasce proprio per giustificare razionalmente la tirannia: senza il tiranno la nostra vita sarebbe breve e crudele. Ricordate?
John Rawls, di gran lunga il contrattualista più famoso del nostro tempo, è ancora più ottimista e vago del contrattualista medio. Descrive a lungo come anche persone con differenti concezioni religiose arriverebbero ad aderire al suo modello specifico (che vedremo dopo). Persino gli utilitaristi, secondo lui, dovrebbero unirsi entusiasti alla sua proposta. Purtroppo, non fornisce ragioni sul perché questo dovrebbe succedere. Spiega, spiega, spiega... e non argomenta mai.
Ma faccio una concessione a Nagel e Rawls: si sono concentrati sui principi di giustizia distributiva, un'area, lo ammetto, altamente controversa. Forse avrebbero avuto più successo se si fossero limitati a confutare, che ne so, l'anarchismo. Tuttavia, è difficile che la legittimità di un governo prescinda dal contenuto delle sue politiche.
Analogia: immagina che un individuo desideri imbiancare la sua casa di bianco, ma l'imbianchino gliela dipinge di verde. Che senso ha affermare che l'imbianchino ha sbagliato colore - capita - ma era comunque legittimato nella sua opera? Nessuno. Sarebbe stato meglio che l'imbianchino non avesse mai messo mano ai pennelli.
Anche nella confutazione dell'anarchia il contrattualista porta un contributo trascurabile.
Ma il contrattualista è messo male anche rispetto al razionalista puro e semplice il quale, almeno, potrebbe dire che gli uomini in disaccordo con la sua società ideale si sbagliano. Sarebbe comunque un modo coerente di presentare la sua proposta. Il contrattualista no, non puo' nemmeno fare questo! Il suo modello, infatti, si fonda sul consenso generale, a prescindere dagli errori di valutazione dei singoli. Sono loro stessi ad aver stabilito come condizione di legittimità che tutte le persone ragionevoli concordino su un determinato contratto sociale.
Propongo adesso alcune analogie per pensare meglio l' idea di contratto ipotetico.
Analogia (1). Immagina che un datore di lavoro si avvicini a un potenziale dipendente con un'offerta di lavoro del tutto equa, ragionevole e attraente, magari anche generosa. Se il lavoratore fosse pienamente informato, razionale e ragionevole, accetterebbe l'offerta di lavoro. Tuttavia, il datore di lavoro non ha il diritto etico di costringere il potenziale dipendente ad accettare!
Altra analogia (2): non è consentito al medico di imporre con la violenza un certo trattamento, anche qualora sia irragionevole rifiutarlo.
Intuizioni contrastanti possono essere tratte da un' analogia (3) più problematica. Un naufragio ha bloccato un certo numero di persone su un'isola finora disabitata. L'isola ha una scorta limitata di selvaggina che deve essere preservata dall'estinzione. I naufraghi devono razionare attentamente il diritto alla caccia. Tuttavia, un passeggero rifiuta di accettare tale limite. Sembra plausibile che gli altri possano intervenire con la forza nei suoi confronti.
Differenze tra le varie analogie. Nel caso del contratto di lavoro assistiamo al sequestro di una risorsa vitale - il lavoro del dipendente assunto con la forza. Nel caso dell'isola, invece, sulla risorsa contesa è plausibile attribuire un diritto collettivo. Qual è l'analogia più pertinente? L'ipotetico contratto sociale è chiaramente più simile al caso del contratto di lavoro. Lo stato, infatti, rivendica per se una parte dei guadagni di tutte le persone, qualcosa che fino a tale rivendicazione è chiaramente di pertinenza dei singoli. Ciò che l'ipotetica teoria del contratto fornisce, quindi, è una morale doppia in cui il governo gode di privilegi da cui le persone sono escluse. Esattamente come nel caso fatto il datore di lavoro godrebbe di privilegi ingiustificati nei confronti del lavoratore.
Discuterò ora un contratto ben preciso, quello ideato da John Rawls. Lo studioso escogita uno scenario ipotetico, quello della "posizione originale", in cui gli individui chiudono un accordo sui principi di base per governare la loro società. Si presume che questi individui siano motivati ​​esclusivamente dall'interesse personale, ma siano anche "disincarnati", ovvero privi ​​di ogni conoscenza circa la loro condizione nel mondo reale. Questa situazione è nota come il "velo dell'ignoranza".
Secondo Rawls le persone in questa posizione originale selezionerebbero due principi da mettere alla base di ogni società: 1) massimizzazione della libertà individuale + 2) massimizzazione della condizione materiale di chi sta peggio.
Sempre secondo Rawls, l'accordo chiuso sarà equo perché, nella posizione originale, nessuno è in grado di tramare per favorire la sua condizione particolare. Ogni aspetto arbitrario verrà tralasciato per far emergere una specie di "ragione disincarnata". Sarà insomma un modo per "equalizzare" la fortuna e neutralizzare così la lotteria dei talenti.
Ma un simile accordo verrebbe davvero chiuso? Dubitare è lecito. Rawls presume che, una volta che tutte le inclinazioni particolari e tutte le caratteristiche individuali siano eliminate, le persone razionali si lasceranno convincere dagli stessi argomenti. Il disaccordo, per Rawls, è dovuto interamente a fattori come l'ignoranza, l'irrazionalità e i pregiudizi creati dalla propria condizione specifica.
Purtroppo, nella storia delle idee c'è una larga evidenza fattuale che contrasta con questo assunto. Anche al di fuori della filosofia politica, i filosofi svolgono dibattiti interminabili in epistemologia, etica e metafisica, alcuni dei quali sono millenari. Pensare ad un accordo finale sembra irrealistico. Una diagnosi più plausibile di disaccordi filosofici così diffusi e persistenti è che gli esseri umani sperimentino intuizioni soggettive differenti, e che sia inconcepibile una "ragione disincarnata". In ogni ragionamento i partecipanti hanno sempre un irriducibile "a priori" che riflette la loro vicenda personale.
Considera, per esempio, un disaccordo di particolare interesse, quello tra anarchici e sostenitori della legittimità di un governo. Non c'è motivo di pensare che questo disaccordo evapori una volta che i contendenti siano posti dietro il velo dell'ignoranza. Gli anarchici non sono in disaccordo con i non-anarchici per un qualche interesse particolare, non è che qualcuno stia manomettendo a proprio vantaggio i principi morali. Le due fazioni sono semplicemente separate da un'intuizione etica diversa.
Per validare il suo contratto ipotetico Rawls non fa altro che definirlo "equo". Ma perché un contratto equo dovrebbe essere valido?
Esempio: immagina che Susanna faccia un'offerta per comprare l'auto di Giovanni. Data la condizione dell'auto l'offerta è del tutto corretta. Tuttavia, Giovanni si rifiuta di vendere. Ha forse agito in modo immorale perché non ha chiuso un contratto equo? Non direi. Altro esempio: immagina che Giovanni vinca alla lotteria, sarebbe equo che dia anche a Susanna. Ma è moralmente obbligato a chiudere un simile accordo con lei? Non direi.
Come mostrano questi esempi, il fatto che un accordo ipotetico sia equo non crea un obbligo ad agire, né crea un diritto etico alla coercizione. Ma Rawls replica che i suoi principi di giustizia si applicano solo ai problemi di autorità politica. Una risposta assai debole. Le dimensioni dei soggetti non mutano la natura dell'accordo. Se il datore di lavoro è una SNC o una multinazionale non muta le conclusioni sopra raggiunte.
Siamo alle solite, Rawls non fa un passo fuori dalla gabbia dove si è infilato se non dice chiaramente che gli uomini con la pettorina "stato" posseggono uno status morale superiore. Cosa che, evidentemente, non potrà mai dire.
Torniamo all'assunto centrale di Rawls: i ragionamenti morali sono validi se non vengono influenzati dall'interesse personale e dalle inclinazioni particolari del soggetto. Ma se si tolgono interessi ed inclinazioni cosa resta? La ragion pura? Io non riesco a concepirla tutta sola in una dimensione platonica. Se a un masochista piace soffrire applicherà la sua ragione a questa sua preferenza. Nel ragionamento etico rientrano sempre delle informazioni almeno in parte soggettive. Ma Rawls ha fatto sparire il soggetto! La sua posizione originale incarna solo alcune condizioni necessarie per l'affidabilità del ragionamento normativo, non condizioni sufficienti poiché la ragione pura non è mai sufficiente nemmeno a muovere un dito.
Detto questo, occorre aggiungere che dalle premesse poste da Rawls non discendono necessariamente le sue conclusioni, ovvero il contratto che ho descritto sopra. La contro evidenza è corposa: ci sono una marea di filosofi che hanno raggiunto conclusioni alternative eliminando dal loro ragionamento passioni, inclinazioni e interessi. Questi filosofi abbracciano convinti utilitarismo, egalitarismo, libertarismo o anarchismo senza violare i vincoli tanto cari a Rawls.
Passo e chiudo.

mercoledì 11 dicembre 2019

COSA SALVARE DI QUESTO LIBRO.

COSA SALVARE DI QUESTO LIBRO.
La tesi della Mazzucato secondo cui il governo sarebbe la vera forza propulsiva dell'innovazione moderna è alquanto azzardata, sebbene una sua versione più modesta sarebbe difendibile. La tecnologia militare, per esempio, è stata spesso utile per successivi sviluppi civili. Certo che alcuni dubbi restano: ma se il governo è così bravo a innovare, perché raramente si "innova"? Quando si tratta di entrare nelle sabbie mobili della pubblica amministrazione, la stagnazione è la regola.
A me comunque il libro sembra pieno di non sequitur: una cosa è cercare di capire come un governo potrebbe funzionare meglio e apprendere eventuali lezioni osservando i casi di successo. Altro è dedurre dal fatto che qualcosa nelle politiche governativa ha funzionato, il fatto che occorra aumentare la spesa pubblica. Unire automaticamente le due cose non ha molto senso. Dovremmo forse fare più guerre perché la tecnologia militare ha delle ricadute positive su quella civile? Se l'effetto che cerchiamo è sovrastato dagli altri, inutile cercare di produrlo.
Ad ogni modo, elenco 6 punti che, secondo me, indeboliscono la tesi centrale della Mazzucato e lasciano perplessi.
1) L'evidenza portata è aneddotica. Tra l'altro, anche nei casi specifici, in reste proliferano ricostruzioni alternative a quelle della Mazzucato.
2) Viene fatta una distinzione troppo netta tra innovazione e implementazione/diffusione/commercializzazione dell'innovazione. I privati avrebbero un ruolo solo nella seconda fase, la più marginale. Non sottovaluterei però la cosa, senza la "seconda fase" internet sarebbe oggi poco più di un telex utilizzato per comunicare tra università o ministeri. In fondo anche l'URSS era un paese altamente innovativo, senonché abortiva regolarmente tutte le idee concepite per mancanza della "seconda fase". Nel caso specifico del web, è con il pc (IBM), i chip (INTEL) e i vari sistemi operativi (WINDOWS) che si è rivoluzionato il mondo.
3) Lo stato spende il 50% del Pil, che abbia un ruolo nell'innovazione (come ovunque) non stupisce. Consideriamo per un attimo la frontiera prossima ventura, quella dell'Intelligenza Artificiale: ora che esistono forse per la prima volta player privati con risorse adeguate (Google, Facebook, Amazon, Musk...) il pallino sembra decisamente passato di mano. C'è poi da dire che l'investimento statale spiazza in buona parte quello del privato, per il quale diventa più conveniente stare alla porta.
4) La ricerca produce esternalità, specie la ricerca di base. Nessuno nega che lo stato debba avere un ruolo importante in questo settore. La Mazuccato da questo punto di vista è molto meno eretica di quel che vorrebbe essere.
5) Decidiamoci: o stato assistenziale o stato innovatore. La Mazzucato sembra volere la botte piena e la moglie ubriaca. Ma con la tassazione necessaria per fare tutto si è innovativi quanto Cuba o l'Unione Sovietica.
6) Lascio per ultimo il punto per me più importante: anziché contrapporre stato e privati sarebbe meglio contrapporre "metodo di mercato" e "metodo statalista". Il primo è imperniato su competizione e prezzi, il secondo su monopolio coercitivo e finalità politiche. Se lo stato è presente in imprese che si sottopongono a competizione e rischio di fallimento, allora accetta il metodo di mercato e la cosa puo' anche in parte funzionare poiché viene scongiurato lo statalismo. Esempio, l'ENI è un'impresa in cui lo stato è presente ma è anche un'impresa che compete e presenta i suoi bilanci agli investitori: deve stare sul mercato, non puo' dar troppo retta alla politica e ai suoi obiettivi contingenti. Altro esempio (visto che si parla di ricerca), le università pubbliche americane competono con quelle private sullo stesso piano. Non hanno nessun privilegio sul trattamento del personale o in tema di regolamentazione. Anche per questo sono tra le migliori del mondo.
#Amazon

confutare l'ipotesi meta atea

https://www.facebook.com/jasonfbrennan/posts/10207223839029930

vedii commenti di kevin vallier

"Meta-ateismo" di George Rey sostiene che la maggior parte dei credenti si limita a credere di credere, in realtà non crede ma è atea. L'autore porta diverse prove a supporto della sua tesi.

Ad ogni modo non è una tesi sorprendente poiché gli stessi credenti - con la teoria del peccato - sono consapevoli di quanto sia fragile la loro tesi. Il fatto che i loro comportamenti siano spesso incongrui puo' essere spiegato con la dottrina del peccato più che con l'ipotesi del meta-ateismo.

martedì 10 dicembre 2019

LA RIVOLTA CONSUMISTA

LA RIVOLTA CONSUMISTA

Alzate un po' la testa e rendetevi conto dell'anno che abbiamo vissuto. Il 2019 volge al termine costellato di rivolte, spesso violente, in tutto il mondo: Libano, Cile, Spagna, Haiti, Iraq, Sudan, Russia, Egitto, Uganda, Indonesia, Ucraina, Perù, Hong Kong, Zimbabwe, Colombia, Francia, Turchia , Venezuela, Paesi Bassi, Etiopia, Brasile, Malawi, Algeria ed Ecuador...
Ma che sta succedendo? A cosa dobbiamo tanto casino?
Forse è solo un caso. Cosa c'entrano le proteste di Hong Kong per una legge sull'estradizione con il movimento di indipendenza della Catalogna - o con rabbia per gli aumenti delle tariffe del metrò a Santiago? Mera coincidenza.
Ma questa spiegazione non mi piace, anche perché mi costringerebbe a chiudere qui.
Altra ipotesi: grazie al web l'informazione è passata ormai saldamente nelle mani della massa e questo di fatto fertilizza le contestazioni per almeno 4 motivi:
1) Disporre di tanta informazione ci fa credere di sapere tutto e svaluta l'autorità tradizionale.
2) Un tempo era difficile trovare qualcuno che dicesse pubblicamente "il Re è nudo". Oggi ce lo diciamo da mane a sera, i canali per farlo non mancano.
3) Se la combiniamo grossa sappiamo che la nostra esibizione avrà come platea il mondo intero, il che vellica il nostro narcisismo.
4) Coordinarsi per scendere in piazza da impossibile è diventato una cavolata. Basta far circolare un paio di messaggini (su social che neanche la NASA potrebbe intercettare).
Manifestare e contestare è talmente facile e divertente che farlo è quasi un passa tempo per giovani annoiati. Non proprio le pietre dal cavalcavia ma quasi.
Molte delle proteste, per esempio, sono iniziate con aumenti dei prezzi o delle tasse. I consumatori, raccolti online, sono la classe sovversiva del ventunesimo secolo, proprio come lo erano gli operai di fabbrica nel diciannovesimo. Ciò spiegherebbe la quasi universale mancanza di interesse dei manifestanti per il potere o per la rivoluzione vecchio stampo, i programmi o le ideologie - gli obiettivi tradizionali della politica insomma. Il pubblico erompe in politica con la mentalità del consumatore digitale che mette un veto. Sente di poter dire no. Tutta la sua furia implacabile è investita in quell'atto di negazione.
Dovremmo evitare di confondere l'innesco con la causa prima. Per le quattro ragioni elencate sopra il rapporto tra popolo e autorità oggi è tettonica: la minima pressione può rilasciare enormi energie distruttive. Basta la percezione di un abuso da parte di un un governo centrale remoto per far partire la scossa fatale.
Viviamo in un mondo in cui tutti sono consapevoli di tutto. Questo crea potenti effetti di contagio: i manifestanti in una nazione possono imparare da quelli di un'altra. La capacità di eludere la soppressione, il coordinamento tramite applicazioni crittografate come Telegram, l'evocazione di flash mob che mandano nel caos aeroporti o distretti commerciali disperdendosi prima ancora che la polizia intervenga, quando funzionano vengono imitati in tempo reale da un capo all'altro del mondo. L'effetto è quello di un reality show moralistico in cui i tanti "Davide" sparsi ovunque si ammirano a vicenda per come hanno potuto beffare il loro "Golia". I manifestanti sudanesi e algerini che hanno rovesciato due dittatori ottuagenari si sono prestati l'un l'altro le immagini e gli slogan vincenti.
Ma come finirà tutta questa ondata di rivolte?
La versione ottimista è che si tratti di un fenomeno virale culminato in novembre, quando almeno otto insurrezioni di strada significative rombavano contemporaneamente (Bolivia, Catalogna, Cile, Colombia, Hong Kong, Iraq, Iran e Libano - con Francia, Paesi Bassi, Nicaragua e Venezuela a fuoco lento sullo sfondo). Che le circostanze locali siano democratiche o dittatoriali, prospere o povere, la moda della rivolta è quasi obbligatoria. La corsa virale continuerà fino a quando la rete non verrà distratta da un nuovo messaggio.
Parliamo di rivolte partite da condizioni iniziali che variano selvaggiamente. Francia e Cile, tanto per dire, sono democrazie ben funzionanti con poca corruzione, eppure le proteste sono state notevoli per la loro violenza e atti vandalici. L'Algeria era governata da una dittatura corrotta. Negli ultimi due decenni, le cricche settarie che gestiscono il Libano hanno distrutto un'economia un tempo prospera, aumentato la povertà e rovinato le infrastrutture. Nei "30 anni" che - a loro dire - hanno scatenato l'indignazione dei cileni, il loro paese è diventato il più ricco dell'America Latina, con il tasso di povertà più basso in assoluto. Sia come sia, un po' ovunque, i rivoltosi hanno mostrato una singolare mancanza di chiarezza sui loro obiettivi. L'indifferenza verso l'ideologia e i programmi rientra bene in una fascinazione consumistica. La pura negazione - un odio per il sistema e le élite che ingrassa - ha preso il posto della dottrina politica.
Ma passiamo all'ipotesi pessimistica, secondo la quale la perdita di controllo sulle informazioni sarà fatale al sistema dei governi moderni: la diffusione virale delle rivolte vivrà allora un processo a cascata e spingerà inesorabilmente verso un punto di caos massimo a cui seguirà una riconfigurazione. In parole povere, il vecchio regime sarà rovesciato, ma a questo punto la casualità prenderà il controllo e ciò che emergerà dopo è impossibile da prevedere. Esempio: una specie di congresso di Vienna delle élite del ventunesimo secolo, in cui i metodi cinesi di controllo delle informazioni saranno adottati a livello globale con punizioni dure ai trasgressori.
Anche una riforma strutturale che avvicini il popolo alle élite è perfettamente possibile. Ma trovo difficile vedere come ciò possa essere realizzato, fintanto che il pubblico si rintana nel mutismo tipico del consumatore rifiutandosi di articolare richieste da vero attore politico. Raramente si ottiene ciò che non si chiede. La riforma dipende dalla volontà dei manifestanti di abbandonare la negazione per la pratica politica.
I manifestanti, da parte loro, sono sempre più innamorati della rivolta e coinvolti dalla gioia esistenziale di colpire un sistema che odiano profondamente. Ad Hong Kong, per esempio, i loro "quattro punti" sono una cortese richiesta al governo di auto-abolirsi. Niente verrà accolto. Gli insorti di strada per lo più comprendono questo, e questa comprensione ha qualcosa di tragico. E' come se pensassero: "non possiamo smettere, non possiamo arrenderci, perché se lo facciamo, non ci sarà comunque futuro per noi". A Hong Kong e altrove, la rivolta è diventata una necessità, indipendentemente dalle conseguenze. La crisi globale dell'autorità sembra precipitare verso un punto di non ritorno: quando la sottomissione al governo viene percepita come autodistruzione, una logica fatale è quella di tirare dritto fino all'apocalisse. Da lì, qualcosa di imprevedibile rinascerà.

IL NAZIONALISMO DIFESO

Ecco i miei appunti sulla base dei quali vorrei scrivere qualcosa su questo libro.
1) Contrariamente alle teorie di John Locke e altri, la legittimità politica non deriva dal consenso ma richiede innanzitutto che le persone abbiano un senso di comunanza. Questo deriva da tradizioni comuni e cultura condivisa. Mi riferisco a linguaggio, religione, festività, codici morali, narrazioni sociali, l'idea di un antenato comune ecc. Senza questo senso di comunanza, uno stato degenera in tirannia o in anarchia.
2) Lo stato-nazione è un'unità naturale di governo. Cercare di estendere il governo oltre i suoi confini naturali è un esercizio futile di imperialismo. Lo stato-nazione, sebbene chiaramente non sia una condizione sufficiente per garantire la libertà individuale, è comunque una condizione necessaria.
3) Oggi il modello di stato liberale si fonda sull'idea di azienda. Ieri si fondava invece sull'idea di famiglia, l'enfasi era sui legami di lealtà reciproca ancorati da un atto iniziale di consenso, ma sostenuto da un senso di mutua appartenenza e di dovere reciproco di trasmettere a un'altra generazione un'eredità che ci è stata lasciata dai nostri genitori e dai loro antenati. Nel primo modello siamo incoraggiati a chiederci in ogni momento se l'accordo è al servizio dei nostri interessi e a liberarci se cessa di esserlo. Il secondo modello ci incoraggia invece a rimanere fedeli anche di fronte alle avversità e a rifiutare l'impulso di iniziare tutto di nuovo.
4) Il nazionalismo è da mettere in relazione all'emergere della tolleranza religiosa, poiché il trattato di Westfalia del 1648 segnava la svolta dell'Europa dall'ideale di una monarchia universale - un'aspirazione cristiana dai tempi dei romani - a favore di una diversità di disposizioni costituzionali e religiose in diversi stati. Lo stato nazionale è stato il terreno fertile su cui fiorirono costituzionalismo e governo limitato.
5) All'origine delle libertà moderne potrebbe esserci proprio lo stato-nazione. Considera la tradizione occidentale di governo limitato, libertà individuale e elezioni aperte. Storicamente, istituzioni libere apparvero e persistettero in stati nazionali come l'Inghilterra, i Paesi Bassi e la Scozia, paesi costruiti su una lingua e religione nazionali, con una storia di accantonamento delle differenze interne per combattere i nemici comuni. Anche John Stuart Mill sosteneva che non è un caso che esistano istituzioni libere in tali paesi: "è in generale una condizione necessaria per le istituzioni libere che i confini del governo debbano coincidere con quelli delle nazionalità".
6) Gli stati nazionali indipendenti hanno interesse a promuovere un ordine internazionale fondato sugli stati nazionali stessi. Un tale ordine massimizza la possibilità di auto-determinazione collettiva e stabilisce una vitale competizione/imitazione tra le nazioni, ognuna delle quali cerca di raggiungere il massimo sviluppo delle sue capacità.
7) Problema. I nazionalisti affermano che qualcosa è "naturale" mentre in realtà è profondamente artificiale. Le "nazioni" sono per la maggior parte delle creature del XIX secolo: penso alla Germania o all'Inghilterra. In principio erano comunità immaginarie che esistevano tra i letterati ma mai nel popolo. La "comunanza" provata, per esempio, nelle trincee della prima guerra mondiale fu, in linea di massima, il risultato della propaganda.
8) Quando uno stato-nazione prende decisioni che altrimenti potrebbero essere prese da individui emerge chiaramente come il "consenso" sia superato dalla "comunanza". Un grave difetto. Ma il nazionalista potrebbe sostenere che un tentativo di governo multinazionale - come l'Unione Europea - sarebbe ancora peggio. Gli stati-nazione, indipendentemente dal fatto che siano emersi in modo naturale o artificiale, per lo meno offrono la "comunanza" e questo li autorizza ad avere l'ultima parola rispetto a regole dettate dall'esterno. Può darsi che al di sotto del livello nazionale ci siano altre unità politiche ma solo lo stato nazione è in grado di opporre una seria resistenza all'internazionalismo.
9) Per secoli, la politica delle nazioni occidentali è stata caratterizzata da una lotta tra due visioni antitetiche dell'ordine mondiale: un ordine di nazioni libere e indipendenti, ciascuna che persegue il bene politico secondo le proprie tradizioni; e un ordine di popoli uniti sotto un unico regime di legge, promulgato e mantenuto da un'unica autorità sovranazionale. I sovrani imperiali del mondo antico vedevano come loro compito, nelle parole del re babilonese Hamurabi, "portare i quattro quarti del mondo all'obbedienza". Quell'obbedienza, dopo tutto, era ciò che garantiva la salvezza dalla guerra, dalla malattia e dalla fame. Eppure, nonostante gli ovvi vantaggi economici di una pace egiziana o babilonese, la Bibbia nacque da una profonda opposizione a quella visione. Per i profeti di Israele, l'Egitto era "la casa della schiavitù" e non risparmiarono parole nel deplorare lo spargimento di sangue e la crudeltà implicate nella conquista imperiale e nel modo imperiale di governare. La nazione del popolo eletto rappresentava invece la salvezza.
10) Problema. Hazony omette quegli aspetti della Bibbia ebraica (e, direi, la tradizione ebraica in senso lato) che vede gli esseri umani creati a immagine di Dio, l'idea per cui i nostri obblighi morali si estendono a tutti, La Bibbia ebraica parla non solo degli ebrei, ma anche dell'obbligo ebraico di accogliere gli estranei. I testi successivi, tra cui il Talmud e le opere di filosofi come Maimonide, discutono a fondo della gamma appropriata e grado di universalismo vs. nazionalismo. Non si può avere un resoconto accurato della Bibbia o del giudaismo senza includere entrambi gli elementi.
11) L' opposto del nazionalismo è l'imperialismo. Forse la versione neo cons puo' plausibilmente essere vista come imperialista. I neo vedono l'America come la nazione cardine, che sostiene la pace e la prosperità del mondo. Il termine Pax Americana è positivo dal loro punto di vista. Tuttavia, non credo che questa distinzione venga accettata da tutti, specie a sinistra. La sinistra chiede a noi di imparare dalle culture del Terzo Mondo e non fanno che scusarsi nei loro confronti. Questa gente non si riconoscerebbe come imperialista anche se poi, quando c'è da decidere sul serio, non lesina interventi armati in ogni parte del mondo.
12) Il nazionalismo è ingiustamente incolpato delle due guerre mondiali. La prima è stata il risultato di trame imperiali, la seconda è stata provocata da Hitler, che era (principalmente) un imperialista-espansionista.
13) Nel libro ogni progetto internazionale è bollato come imperialista, dagli open border libertari agli accordi climatici. Non che accordi del genere debbano essere evitati ma richiedono una trattazione tra stati-nazione senza giurisdizioni internazionali. E' chiaro che in questi casi lo stato-nazione rompe quando vuole.
14) Le guerre universali nascono da un'ideologia internazionalista. Nel caso della Guerra dei 30 anni, era la teoria dell'ordine cattolico universale. Nel caso delle Guerre Nepoloniche, la teoria del nuovo liberalismo universale francese. E, nelle due guerre mondiali, un tentativo di due imperatori tedeschi (il secondo piuttosto grottesco) di rendere la Germania il Signore della Terra.
15) Nell'idea liberale stanno i semi dell'universalismo, ovvero quel progetto di dominio mondiale che ci ha condotto, per esempio, alla guerra in Iraq. C'è una linea che unisce Mises e Hayek con i neoconservatori degli ultimi decenni. Stabilire la democrazia in Egitto o in Iraq sembra fattibile ai liberali poiché presumono che la ragione umana sia ovunque la stessa e che un impegno per le libertà individuali e i mercati liberi sorgerà rapidamente una volta che i benefici saranno stati dimostrati e gli impedimenti rimossi.
16) Anche l'integrazione di milioni di immigrati dal Medio Oriente sembra facile per i liberali, perché credono che praticamente tutti vedranno rapidamente i vantaggi del nostro mondo e lo accetteranno. I conservatori, per contro, riconoscono che l'assimilazione su larga scala può avvenire solo quando entrambe le parti sono fortemente motivate ad ottnerla. Quando tale motivazione è debole o assente, i conservatori vedono un pericolo nell'immigrazione, con conseguente odio e violenza reciproci.
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The Virtue of Nationalism

DISEGUALI E FELICI

DISEGUALI E FELICI
La Svezia ha un miliardario ogni 250.000 persone, uno dei tassi più alti al mondo. È anche uno dei paesi più diseguali in termini di distribuzione della ricchezza. La fortuna dei miliardari svedesi è equivalente a un quarto del PIL annuale. Solo nei paradisi fiscali come Cipro o Monaco i plutocrati hanno una simile posizione dominante.
Eppure, presso la popolazione i miliardari svedesi sono sorprendentemente popolari. Il serrato dibattito che c'è in America o in Gran Bretagna sulla tassazione dei super ricchi qui non esiste. La popolarità dei miliardari è in parte dovuta alla percezione che questa gente ha fatto soldi senza "sfruttare" gli svedesi ma creando multinazionali come H&M, Volvo e Spotify. Vivono anche in modo austero, occorre dirlo. Anche sulle stra più eleganti non vedi circolare auto lussuose, i ricchi mangiano Smørrebrød fianco a fianco con la gente comune.
Pochi svedesi sono desiderosi di tasse punitive sui ricchi, anche perché molti di loro sono arrivati alla conclusione che tenerseli cari è meglio. In passato non era così, qualche esempio: Kamprad fuggì in Svizzera nel 1973; Hans Rausing, il cui padre ha fondato Tetra Pak, è fuggito in Gran Bretagna negli anni '80.
Con il sostegno bipartisan, la Svezia ha abolito l'imposta di successione nel 2005 e l'imposta sul patrimonio nel 2007. Kamprad è tornata quasi subito e molti altri hanno fatto la medesima scelta.
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