martedì 23 ottobre 2018

LA FINZIONE RELATIVISTA

LA FINZIONE RELATIVISTA
La maggior parte della gente non è sincera nel suo relativismo. A livello di pancia continuano a pensare di avere ragione. Guardateli mentre educano i loro bambini o quando criticano un collega.

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Growth is good. Through history, economic growth, in particular, has alleviated human misery, improved human happiness and opportunity, and lengthened human lives. Wealthier societies are more stable, offer better living standards, produce better medicines, and ensure greater autonomy, greater fu...

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lunedì 22 ottobre 2018

QUEL SAPERE NEMICO DEL SENSO

QUEL SAPERE NEMICO DEL SENSO
Ciò che risulta troppo piccolo a occhio nudo, come le molecole e gli atomi, lo ingrandiamo, ciò che è troppo grande, come le formazioni nuvolose, i delta dei fiumi, le costellazioni, lo rimpiccioliamo. E quando abbiamo ricondotto ogni cosa entro il raggio d’azione dei nostri sensi, lo ancoriamo. Questo fissare le nostre conoscenze lo chiamiamo sapere. Per tutta l’infanzia e la gioventù ci sforziamo di stabilire la giusta distanza dalle cose e dai fenomeni. Leggiamo, impariamo, facciamo esperienze, correggiamo. Poi un giorno arriva per ognuno il momento in cui sono state definite tutte le distanze necessarie, sono stati stabiliti tutti i sistemi fondamentali. È proprio allora che il tempo comincia a fluire più rapidamente. Non incontra più nessun ostacolo, tutto è fissato, il tempo inonda impetuoso le nostre vite, i giorni scompaiono a gran velocità e, prima che ce ne rendiamo conto, abbiamo quaranta, cinquanta, sessant’anni… Il senso ha bisogno di pienezza, la pienezza ha bisogno di tempo, il tempo ha bisogno di opposizione. Il sapere è distanza, è immobilità, è nemico del senso.
Karl Ove Knausgård

A che serve il multiverso?

A che serve il multiverso?

Carissimo, tutte le volte che discuto con te si va a parare sempre lì: l’esistenza di Dio. Non so perché ma nemmeno con i preti il tema ricorre tanto spesso. In realtà  una risposta posso immaginarmela: come è possibile infatti osservare la volta celeste senza un pensiero alla creazione? La cosmologia è una disciplina dove il miracolo della matematica si disvela in tutta la sua pienezza lasciandoci attoniti, annaspiamo così in cerca di spiegazioni. Per altro verso la tua mentalità è quella dello scienziato  moderno e quindi restia ad accogliere un’ipotesi razionale di Dio. Come è giusto che sia sei sempre a caccia di alternative, e il tuo genio, in questo senso, è prodigo di offerte. Ma poiché c’è un punto particolare in cui ci incartiamo di continuo, qui vorrei prenderlo di petto per trattarlo un po’ più a fondo.
Partiamo allora dai fatti, una roba su cui è difficile non concordare. Secondo i tuoi stessi  colleghi, le condizioni richieste per l’esistenza della vita nel nostro universo sono molto-molto-molto-molto particolari (fine tuning). Ci sono cioè tutta una serie di parametri fisici che devono assumere valori ben precisi da ricomprendersi in un intervallo estremamente ristretto, e devono farlo contemporaneamente. Se per esempio la costante di gravitazione differisse anche solo di 1/10 alla quarantesima rispetto al suo valore standard tutto crollerebbe. Una roba del genere vale anche per grandezze quali la massa dei protoni, la forza nucleare debole e quella forte, la forza elettromagnetica, i valori entropici nella fase iniziale dell’universo, eccetera.
Ora, per un credente come me è del tutto istintivo interpretare questo stato di cose come indizio dell’esistenza di un progettopresente sin dall’inizio. Ma tu, caro amico cosmologo, hai sempre avuto la risposta pronta su questo punto: un’alternativa atea in realtà esiste e si chiama “universo multiplo”.
A questo punto urge chiarimento: il fatto che un universo compatibile con la vita sia tanto improbabile supporta davvero l’esistenza di molteplici universi? In caso affermativo, questa singolare ipotesi entrerebbe in legittimaconcorrenza con quella teistica.
La cosa migliore per portare a casa una risposta attendibile all’enigma è farsi aiutare da un logico di professione con una certa dimestichezza nel calcolo probabilistico, propongo di interpellare il filosofo Mike Huemer– ateo convinto ma non sospettabile di professione ideologica – che fortunatamente dedica il suo saggio “Self-Locating Beliefs” proprio a questi temi.
Mike Huemer mi piace perché anziché impantanarsi nel gergo filosofico professionale ragiona per analogie comprensibili a tutti. Per soppesare l’ipotesi del multiverso  ne propone diverse tra cui mi permetto di estrapolarne  tre rilevanti. Partiamo con la prima. (1) Immagina allora, carissimo, di essere un condannato a morte che attende l’esecuzione a cura di un plotone di fucilieri scelti. Dopo essere messo al muro il capitano ordina di fare fuoco, i soldati sparano ma tu ti ritrovi ancora vivo: tutte le pallottole partite dalle canne ti hanno solo schivato.  Questo evento è così improbabile che la tua testa si metterà subito al lavoro per cercare una spiegazione plausibile dell’evento. Penserai subito che c’è sotto qualcosa, una cospirazione ordita per salvarti la vita. Poi però qualcuno ti riferisce un’ipotesi alternativa: altrove nell’universo potrebbero esserci trilioni di trilioni di plotoni di esecuzione, pertanto la tua sorte non è poi così improbabile: numeri elevati rendono tutto più probabile. Tra tante esecuzioni che una sia andata storta è del tutto normale, non c’è quindi bisogno di pensare a complotti e cospirazioni.
Ovviamente un ragionamento del genere è strampalato: quand’anche esistano miliardi di esecuzioni in giro per l’universo cio’ spiegherebbe il fatto che una possa andare male ma non che questa debba essere proprio la tua. L’evidenza che devi spiegare riguarda te stesso, non una persona qualsiasi. In altri termini, il fatto che su Alpha Centauri stiano fucilando un poveraccio non influenza le probabilità che chi ti sta sparando manchi il bersaglio.
In questo caso il trucco di  moltiplicare gli eventi per giustificare l’improbabile non funziona.
Altra analogia (2). Lanci una moneta dieci volte e fai dieci “teste” consecutive.  Ma aspetta, ecco un’ulteriore informazione: qualcuno nella stanza accanto sta lanciando come te una moneta. Questo ha reso più probabile la tua impresa? No, e non è questione di numeri. Allo stesso modo il fatto che miliardi e miliardi di persone lancino insieme a te una moneta non sembra agevolare il quasi-miracolo delle dieci teste consecutive.
Siamo nella stessa situazione precedente: la moltitudine spiega al massimo che qualcuno farà dieci teste consecutive ma non che le farai tu, ovvero l’evidenza che devi spiegare.
Le due analogie precedenti sembrano invalidare il ragionamento sottostante all’ipotesi dei molti universi: in questi casi l’esistenza di molte situazioni simili alla tua non spiega cio’ che di singolare ti sta capitando. Ciò significa allora che il fatto di ritrovarci vivi nell’universo non è reso più probabile  dal fatto che esistano molti universi? Non affrettiamo conclusioni, ci sono infatti anche analogie più favorevoli al multiverso.
Veniamo alla terza analogia (3): apri gli occhi e ti ritrovi a vivere sulla terra. Come giudichi questa evidenza? E’ forse resa più probabile dal fatto che nel nostro universo esistano molti pianeti simili alla terra? Bè, direi di sì: quanti più pianeti simili alla terra esistono, tanto più è probabile che io mi sia svegliato proprio in un posto del genere.
Questa volta ipotizzare una moltiplicazione dell’evento di base rende l’evidenza disponibile decosamente più probabile.
Ma che differenza c’è allora tra (1), (2) e (3)? In tutti e tre i casi, in fondo, cerchiamo di spiegare l’improbabile ipotizzando che certe premesse a eventi unici siano presenti in gran quantità (si tratti di esecuzioni, di lanci o di pianeti).
Provo a rispondere: in (1) l’esperienza che ho io, ovvero quella di sopravvivere alla fucilazione, è fondamentalmente diversa da quella che avrebbe un “io” destinato a soccombere.
In (2) la cosa si ripete: l’esperienza di fare dieci teste consecutive è qualitativamente diversa da quella di fare una serie anonima.
Ma in (3) le cose sono molto diverse: tra la mia vita su Terra1e la mia vita su Terra2 non ci sono grandi differenze. In realtà, per quanto ne so, non sarei mai in grado di distinguerle in senso qualitativo.
Ora torniamo a bomba: l’ipotesi dei molti universi assomiglia più a (1), a (2) o a (3)?
Di primo acchito direi a (3), tra “pianeti” e “universi” in fondo c’è una certa affinità. Ma poiché, come abbiamo appena visto, la forza che distingue (3) da (1) e (2) sta nel fatto che io potrei esistere su uno qualsiasi dei tanti pianeti gemelli della Terra, occorre chiedersi se lo stesso si possa dire quando si ragiona in termini di universi. Ebbene, poiché le condizioni per ospitare la vita sono così particolari la quasi totalità dei “tanti” universi sarà sterile, tuttavia è anche possibile pensare che i “tanti” universi siano così tanti che un numero ristretto di loro accolga la vita e che quindi io possa pensare di trovarmi in uno di loro. In questo caso l’ipotesi dei molti universi diverrebbe un’alternativa concreta all’ipotesi di Dio.
C’è ancora qualcosa da aggiungere, però: difficile coniugare il materialismo con l’ipotesi dei molti universi, te ne sei accorto? Per il materialista ogni individuo è solo un oggetto fisico e se un oggetto fisico è “qui” non puo’ essere “lì”. E’ una questione di molecole. L’ oggetto fisico può esistere solo nell’universo in cui si trova, se esisti in questo come potresti immaginarti altrove? L’ipotesi del “multiverso” pensata dal materialista, dal punto di vista logico, si apparenta più a (1) e (2) che a (3) non potendo così  competere con quella divina.
Personalmente non sono materialista, quindi sono propenso a vedere l’ipotesi del multiverso e quella di dio sullo stesso piano. Se scelgo la seconda è solo per la sua maggiore semplicità, un tema su cui qui non mi soffermo. Tuttavia, se continuerai a professarti materialista, carissimo, prevedo per te qualche problema nel contrapporre l’idea dei “molti universi” a quella di un Dio creatore.

Mankiw


I TUOI DEBITI E I MIEI RISPARMI

Il commercio internazionale è visto da molti come la continuazione della guerra con altri mezzi, ovvero una specie di arena dove le nazioni combattono tra loro lasciando sul campo morti e feriti, alla fine il deficit commerciale equivale ad una sconfitta, l’avanzo ad una vittoria. Questa confusione dimostra meglio di ogni altra cosa l’enorme distanza tra scontro bellico ed incontro economico e vanifica le molte energie profuse dagli  economisti per chiarire  meglio i termini della questione.

Avere un deficit commerciale con il paese X viene interpretato come il segno che noi siamo i "perdenti" nella relazione, che dobbiamo reagire e prendere provvedimenti.
Per capire cosa c'è di sbagliato in questa conclusione, considerate alcuni dei molti deficit commerciali bilaterali che gestisco personalmente. Ogni volta che la mia famiglia va a cena fuori, il ristoratore riceve dei soldi e noi riceviamo un pasto. Nel linguaggio economico, la famiglia Mariani ha un deficit commerciale con quel ristorante. Ma questo non ci rende dei “perdenti”. Dopotutto, ce ne andiamo a stomaco pieno. Certo, se ogni ristorante dove mangio diventasse mio cliente sarebbe meglio, puo’ darsi che addirittura avrei con lui un avanzo commerciale. In ogni caso non c’è nulla di drammatico nel fatto che non lo sia, tanto è vero che io non sento affatto l’esigenza di uscire a cena solo in quei ristoranti a cui fatturo. Posso gestire deficit commerciali persistenti con i ristoranti perché gestisco eccedenze commerciali altrove. Chiaro?
Ma se la nazione ha un deficit commerciale complessivo? Molti ritengono che in questo caso gli altri si stiano approfittando di noi. Si arriva perfino ad invocare dazi, sostegno alle esportazioni e, come estrema ratio, autarchia.
Per vedere quanto sia forzata una conclusione del genere, considero ancora la mia famiglia. La nostra bilancia commerciale complessiva è la somma di tutti i nostri saldi commerciali bilaterali con tutti gli altri: ristoranti, supermercati e così via. Il risultato finale è uguale alla differenza tra il nostro reddito e la nostra spesa. Se la nostra bilancia commerciale complessiva è positiva, stiamo spendendo meno di quanto guadagniamo, il che significa che stiamo risparmiando. Se la nostra bilancia commerciale complessiva è negativa, stiamo spendendo più di quanto guadagniamo: stiamo cioè realizzando un risparmio negativo.
Se un deficit commerciale rappresenti un problema dipende dalla nostra spesa: è prudente o dissoluta? Quando una famiglia prende un prestito per comprare un'auto, ha un deficit commerciale, ma non deve essere motivo di preoccupazione, a patto che possa permettersi l'auto che sta comprando. Alla fine conta solo il reddito, ovvero il PIL.  Lo stesso ragionamento si applica ai paesi. Le nazioni hanno  deficit commerciali quando le loro spese per consumi e investimenti, sia privati che pubblici, superano il valore dei beni e dei servizi che producono. Se vuoi veramente ridurre un deficit commerciale, il modo per farlo è abbassare la spesa, non demonizzare i tuoi partner commerciali.
L’ Italia ha un enorme debito, in PIL che cresce poco e non gestisce la sua moneta. Però ha un avanzo commerciale: possiamo consolarci? Possiamo tirare un sospiro di sollievo?
Difficile. Se la produttività è bassa e il debito enorme NONOSTANTE l’avanzo commerciale cio’ significa che siamo messi malino. Alla fine l’unica cosa che conta veramente è il PIL, così come quando vado in banca a chiedere un prestito, quel che mi chiedono è la busta paga.
Ma allora cosa intendono i politici quando dicono che non c’è da preoccuparsi? Anche voi avrete ascoltato uscite di questo genere: “il nostro debito è elevato ma gli italiani risparmiano come tante formichine, non siamo come la Grecia…”. Ebbene, a me un politico del genere, anziché rassicurare, fa paura, lo ammetto: evidentemente ha in mente di saldare i SUOI debiti con i NOSTRI risparmi. E’ un po’ come se dicesse: “sono alle strette ma qui vicino a me ho un bel limone succoso da spremere”. Ecco, quando la pressione fiscale è oltre il quaranta per cento la prospettiva non è rassicurante. E se penso a forme di prestito forzoso peggio mi sento.

sabato 20 ottobre 2018

Non avveleniamo il “pasto gratis”! SAGGIO


Non avveleniamo il “pasto gratis”!


Lettera aperta ad un amico ambientalista.
Carissimo, sul tema dell’ambiente abbiamo sempre litigato, tuttavia sappi che riconosco le tue buone intenzioni e so bene che sei mosso da una spinta morale genuina. Ma direi di più, da un vero e proprio desiderio di bellezza! Odi gli economisti che continuano a ripeterti in modo ottuso: “non esistono pasti gratis”. Tu sai invece benissimo che esistono eccome i “pasti gratis”: il nostro pianeta è per noi un dono gratuito, così come è uno spettacolo completamente gratuito quello che offre a tutti il sole mentre cala tra le brume generando mille riflessi che neanche il più geniale artista saprebbe immaginare. Quanto più questi doni vengono apprezzati, tanto più si vorrebbe preservarli, e tu sei tra queste anime sensibili. Ma poiché anch’io aspiro ad essere della compagnia diventa necessario un chiarimento nel merito.
L’OBIEZIONE
Conosco a memoria la tua fondamentale obiezione all’economia del nostro tempo, la riassumerei così, dimmi se sbaglio: la continua crescita della ricchezza richiede massicce emissione di biossido di carbonio, ma, come tutti sappiamo, l’atmosfera si sta riscaldando proprio a causa di questo pernicioso effetto collaterale. Incentivando una crescita continua del benessere materiale dei popoli  e spingendo al massimo i motori dell’economia di mercato globale  finiremo per sacrificare l’ambiente in cui tutti viviamo. Con una formula icastica proposta da quel Papa Francesco che tanto ti piace (tranne quando parla di Cristo) possiamo ben dire che la nostra è, a lungo termine, “un’economia che uccide“: uccide prima il pianeta e poi i suoi abitanti.
Insomma, tu ti rappresenti il rapporto tra ricchezza e qualità dell’ambiente come un compromesso: o uno o l’altro. Ma i miei dubbi che le cose stiano proprio come tu dici sono sempre stati forti, soprattutto quando osservo che la ricchezza: 1) ci difende meglio dai disastri ambientali, 2) agevola la scoperta di soluzioni ai guai ambientale e 3) sensibilizza alla causa verde.
Una disamina articolata del dilemma che prenda in considerazione tutti i feedback tra ambiente ed economia l’ho trovata nel saggio di Bas van der Vossen e Jason Brennan “L’obiezione del cambiamento climatico alla crescita economica”. Te ne raccomando la lettura. I due, sulla base di quanto appena detto, si chiedono se il pericolo ambientale consigli di rettificare o di rafforzare il percorso intrapreso dalla civiltà occidentale da almeno due secoli.
UTOPIA
Da tempo l’ ONU – che tu vedi come un baluardo della scienza-  si è posto su questi temi obbiettivi ambiziosi, come per esempio quello di “stabilizzre le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera a un livello tale da prevenire pericolose interferenze antropogeniche con il sistema climatico”.
Peccato che le temperature continueranno a salire per almeno altri 50 anni qualunque cosa si faccia. In altri termini, i livelli di carbonio attualmente nell’atmosfera rendono già oggi tutto quel che si vorrebbe prevenire  inevitabile.
IL VERO DILEMMA
Una volta appurato che la stabilizzazione non basta, la reale domanda  da porsi riguarda il fatto se sia sensato agire con una radicalità sufficiente per abbattere le emissioni. La questione, insomma, è “ come” organizzare la vita su un pianeta più caldo e non “se” il nostro pianeta sarà tale.
Oggi la crescita delle emissioni è da imputare soprattutto ai paesi in via di sviluppo, per questo il dilemma povertà/ambiente è così pressante: cose come infrastrutture, assistenza sanitaria, istruzione, trasporti e tempo libero, così come la disponibilità di frigoriferi, lavatrici e aria condizionata, sono essenziali per risolvere i problemi della povertà nel mondo. Tuttavia, nello stesso tempo,  rischiano di pregiudicare il clima futuro.
LE PROPOSTE VERDI
Sul punto la tua posizione e quella dei tuoi amici, mi è sembrato di capire, non è univoca. Alcuni chiedono che la crescita economica dei paesi in via di sviluppo si fermi. Altri che continui ma sia controbilanciata da una decrescita della nostra. Altri ancora spingono per pesanti investimenti in produzione di energia pulita in modo da avere la botte piena e la moglie ubriaca: meno povertà senza danni per l’ambiente.
Chi paga, quindi? Nel primo e nel secondo caso si mira a imporre i costi a popolazioni diverse, mentre nel terzo caso si lascia aperta la questione.
Tra poco affronterò una per una le varie proposte, purché sia chiara la natura comparativa della scelta. Cioè, non possiamo sostenere una certa politica senza chiederci se i costi che impone (riscaldamento/mancata crescita) siano accettabili alla luce delle alternative disponibili.
L’EQUIVOCO DA DISSIPARE
Tutti, a parole, sembrano abbastanza d’accordo che i maggiori sacrifici non ricadano sui poveri della terra, tuttavia molti – e a volte mi sembra di poterti ricomprendere nel novero – partono da un assunto errato nei loro ragionamenti, non sembra cioè che abbiano molto chiara la relazione complessa tra ricchezza e ambiente. Per costoro la terra, se rispettata, fornisce condizioni climatiche ideali e un ambiente adatto all’uomo. Sotto inteso: è stata l’industrializzazione a rovinare questa armonia.
La realtà è piuttosto diversa: senza tecnologia (e quindi crescita economica) la maggior parte della Terra è un posto inospitale per noi. Senza tecnologia, molti posti risultano troppo freddi e molti altri troppo caldi. Ciò che nella gran parte dei casi rende la Terra vivibile è proprio la tecnologia. La nostra capacità di vivere bene in tutto il mondo deve quasi  tutto alla tecnologia e alla ricchezza che abbiamo saputo ottenere spremendo le risorse del pianeta.
Quando le persone sono povere, non solo hanno maggiori probabilità di soffrire di fame o le malattie, ma la loro capacità di far fronte alle intemperie e ai disastri meteorologici è anche molto indebolita, non è un caso se le morti legate alle condizioni meteorologiche siano diminuite drasticamente nel secolo scorso, e questo nonostante la popolazione sia cresciuta. Tali morti, infatti, sono circa un cinquantesimo rispetto a 80 anni fa. I costi dei disastri naturali sono  aumentati perché siamo più ricchi ma il pedaggio in termini di vite umane si è abbassato. La logica sottostante sembra chiara,  se i paesi sono ricchi, i costi economici dei disastri tendono a salire ma è molto meglio, ovviamente, essere ricchi e avere la villa danneggiata piuttosto che essere poveri e perdere tutto quello che hai, ovvero la tua baracca; questo anche se la baracca si presenta a livello statistico come una perdita economica minore.
Conclusione: la ricchezza ci consente di affrontare meglio tempeste e terremoti. Le persone ricche possono avere consumi strampalati che molti condannano come “mero spreco”, ma sono anche persone più “propense” a sopravvivere ai disastri. Sono meglio attrezzate per evitarli, vivono in case più robuste, hanno sistemi di allarme migliori e ricevono un aiuto migliore nel momento del bisogno, tanto è vero che il rischio di morte per fattori ambientali è molto più alto nei paesi poveri.
Altro vantaggio del mondo ricco: è un mondo in cui più menti possono applicarsi a problemi di alto livello (tipo il riscaldamento globale). Altrove, purtroppo, i bisogni di base assorbono l’intero potenziale cognitivo disponibile in loco.
QUANTUM
Certo, anche procedere sulla solita strada senza  badare all’ambiente produce inconvenienti, su questo hai ragione, nessuno lo nega. Ma come quantificarli? Sentiamo William Nordhaus: “per dare un’idea dei danni nel caso in cui si stia  fermi… fino al 2095 si stimano circa 12 trilioni di dollari, ovvero il  2,8% della produzione globale, per un aumento della temperatura globale di 3,4 ° C sopra i livelli del 1900”. Tradotto: un po’ come sospendere la produzione per sei mesi in un secolo (oggi la crescita media mondiale è oltre il 4% all’anno). In sé non è molto, è come arrivare alla meta secolare sei mesi dopo. Al contrario, fermare la crescita per salvare il clima condannerebbe miliardi di persone a “povertà e malattie per un futuro indefinito” (sempre parole del neo-Nobel).
Ricapitolando: il cambiamento climatico ci fa star peggio, la crescita economica ci fa star meglio. Ciò che dovremmo fare dipende dalla potenza relativa di queste due forze contrapposte, tenendo sempre a mente che se la crescita non viene intralciata dalle tue politiche predilette l’abitante  medio della Terra, entro il 2095, sarà tanto ricco quanto il tedesco medio o il canadese medio di oggi.
Chiuderei questa sezione con un’immagine eloquente: i Paesi Bassi e il Bangladesh sono entrambi in larga parte sotto il livello del mare ma nei Pesi Bassi nessuno teme un innalzamento del livello dei mari come invece accade in Bangladesh. Il medesimo fenomeno che passa inosservato nel primo paese sarebbe funesto  per il secondo. Perché? Perché gli olandesi possono proteggersi: sono ricchi! Ok?
DISTRIBUZIONE
Tuttavia, tu come molti ritieni che un’ulteriore crescita economica – con relativo inquinamento – non sia necessaria nei paesi poveri poiché quanto abbiamo già oggi in tasca, se opportunamente redistribuito, basterebbe a risolvere la piaga sella povertà mondiale. In altri termini, ci serve solo riallocare le risorse che già abbiamo.
Solo qualche osservazione in merito, primo: il congelamento della produzione mondiale ai livelli attuali non fermerà il riscaldamento globale (vedi sopra).
Secondo è alquanto discutibile se la produzione attuale sia sufficiente per porre fine alla povertà mondiale. Infatti, il prodotto pro capite mondiale nel 2015 è stato di circa 16.000 dollari, ovvero pari alla soglia di povertà in USA.
Ma poi c’è una questione pratica grande come una casa: non tutta la produzione economica si presenta in  forma idonea ad essere convertita in reddito da ridistribuire lontano da dove viene alla luce. La ridistribuzione burocratizzata tra nazioni ha precedenti disastrosi che hanno bruciato ricchezza anziché trasferirla. Agire in quei termini si prospetta come l’ennesimo spreco colossale. Anche perché il programma di povertà che veramente funziona, ovvero la libera migrazione dei popoli, sarebbe poi moralmente più problematico da giustificare in presenza di una grande macchina ridistributiva.
STOP AI RICCHI
Prendo ora in esame l’ ipotesi alternativa che avanzi quando cogli le difficoltà della prima, quella per cui non dovremmo stoppare la crescita economica nei paesi poveri quanto piuttosto  nei paesi ricchi. Si presenta subito un problema non da poco a cui abbiamo già accennato: la relazione perversa tra crescita, danni ambientali e capacità di fronteggiarli. E’ proprio grazie alla spinta innovativa dei paesi di frontiera, ovvero i più ricchi, che noi abbiamo più opportunità di scoprire una soluzione definitiva al riscaldamento globale: quanto più li freniamo, tanto più questo lieto fine si farà improbabile.
Ma c’è di più. Sembra infatti che nella sensibilità su questi temi ci sia un punto di svolta allorché il PIL pro-capite del paese esaminato supera la soglia dei 9.000 dollari, a questo punto, cioè, si comincia ad inquinare meno. Motivo? Un po’ la tecnologia pulita disponibile ma soprattutto la coscienza ambientale ormai pienamente formata. L’esempio USA parla chiaro: le emissioni di carbonio nel 1900 erano 1,8 tonnellate per 1.000 dollari di PIL (anno riferimento valuta 2005). Hanno poi raggiunto un picco negli anni ’30 oscillando intorno alle 2,8 tonnellate per 1.000 dollari di PIL. Da allora sono crollate costantemente, e oggi si aggirano sulle 0,4 tonnellate per 1.000 dollari di PIL.
Potremmo sintetizzare così il concetto di fondo: la cura dell’ambiente è un bene di lusso e come tutti i beni di questo tipo è più richiesto nelle società opulente.
Conclusione: se intervieni sulla crescita dei paesi ricchi: 1) sei poco efficiente poiché i paesi ricchi inquinano già molto poco, 2) impedisci alla coscienza ambientale di formarsi in modo pieno e 3) ridimensioni la probabilità di innovare nel settore delle energie pulite.
TASSARE I RICCHI
Consideriamo ora l’ultima soluzione proposta dal movimento ambientalista di cui fai parte: ridurre la crescita complessiva risarcendo della  perdita sopportata i paesi svantaggiati. Si tratterebbe ancora una volta di tassare i ricchi e trasferire ai poveri.
Questa proposta si scontra con un fenomeno spesso dimenticato ma ben noto agli economisti: i ricchi sono impossibili da tassare. Detto in altri termini, i paesi non sono economie autarchiche, cosicché ciò che accade in uno di loro si ripercuote necessariamente sugli altri. Se un paese ricco sopporta dei costi aggiuntivi non è detto che alla fine sia lui a farsi carico della sofferenza aggiuntiva. Tanto per capirsi, se tasso Paris Hilton lei pagherà l’onere aggiuntivo chiudendo uno dei suoi hotel in Nevada (che non sapeva e non saprà mai nemmeno di avere) e licenziando tutti, non certo rinunciando alla parure di brillanti che tanto agogna.

LE TRE SOLUZIONI DELL’ANTI-AMBIENTALISMO

Tenendo sempre presente il concetto fondamentale per cui ridurre le emissioni e ridurre la crescita sono cose differenti, vediamo ora tre possibili interventi coerenti con quanto detto. Te le sottopongo, fammi sapere cosa ne pensi. 
Primo. Ridurre i sussidi ai combustibili fossili. Sembrerebbe ovvio ma se ne parla poco. Le sovvenzioni per i combustibili fossili in tutto il mondo ammontano a circa 500 miliardi di dollari all’anno. La maggior parte di questi vengono elargiti in via di sviluppo, specialmente in quelli ricchi di petrolio come il Venezuela o l’Arabia Saudita.
Secondo. Carbon Tax a tutto campo. Incentiva l’utilizzo di tecnologie meno inquinanti senza distorcere i processi economici legati al mercato e allo sviluppo.
Terzo. Favorire l’immigrazione dai paesi in via di sviluppo. Oltre ad essere il programma anti-povertà che funziona meglio, consente agli ultimi di diventare produttivi utilizzando le tecnologie più avanzate e meno inquinanti.
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Félix Vallotton Soleil couchant dans la Brume 1911