Padre Piero Gheddo è morto l’altro giorno, leggerlo ed ascoltarlo mi ha illuminato.
Non che fosse un rigoroso teoreta, era un missionario del PIME, eppure era depositario di intuizioni originali e talvolta spiazzanti.
Da lui ho imparato a conoscere un po’ meglio l’ Asia e l’ Africa, i continenti della povertà.
Posso ben dire che il mio interesse sul tema Vangelo&Ricchezza è stato innescato dal suo ascolto.
Quanto segue è il mio pensiero, non il suo, per carattere e senso di responsabilità i giudizi sferzanti gli erano estranei. Ma si tratta comunque di idee maturate nella sua ombra.
Da lui ho imparato che nel Vangelo non c’è una condanna della ricchezza in se stessa, ma il biasimo per l’uso distorto che l’uomo, nel suo egoismo, può farne a danno degli altri.
Non so se questo sia del tutto vero, so però che l’azione di Gheddo mi sembrava improntata a questo principio.
Presso molti cattolici vigeva allora il mito marxista secondo il quale chi si arricchisce lo fa sempre a spese degli altri.
Papa Francesco viene da quella schiatta, per altro maggioritaria, specie in ambito missionario. Avete presente padre Alex Zanotelli? Non aggiungo altro.
Ecco, Gheddo rappresentava per me il contrario, anche se mai si sarebbe posto in opposizione, tutte le opere erano preziose.
È chiaro che se la rapina viene vista come un metodo per arricchirsi, l‘elemosina diventa il metodo sovrano per aiutare il prossimo.
La strada maestra scelta da padre Gheddo mi sembrava diversa: condannava l’elemosina per puntare sulla cultura.
Se ci si arricchisce solo spogliando il prossimo, si aiuta il prossimo solo spogliandosi volontariamente (elemosina), oppure spogliando il ricco-cattivone che ha turbato per primo l’armonia universale (rivoluzione). Elemosina e rivoluzionesono amiche fedeli, e non di rado le abbiamo viste comparire sugli emblemi di certo cristianesimo missionario “deviato-ma-non-troppo”. Tra gli stracci del pauperista si nasconde sempre un coltello.
I cripto-catto-marxisti avevano allora individuato il nemico nella colonizzazione e nel mercato.
Padre Gheddo scuoteva il testone: la storia africana è piena di sfruttamento e rapina ben prima che arrivassero i bianchi; la ferocia tra comunità tribali era la norma, e questo anche (e soprattutto) in assenza di moneta e mercato. Il problema sta altrove.
Un padre Gheddo qualunque non avrebbe mai potuto scuotere il paradigma pauperista, era troppo consolidato, Marx lo ereditava addirittura dagli antichi e da Platone innanzitutto: “risulta impossibile che virtù e grandi ricchezze stiano insieme”.
E a loro volta gli antichi, prima di trasmetterlo a Marx, lo avevano tramandato ai libri sacri. E’ per questo che la base platonico-marxista ha attecchito così bene nel mondo missionario cristiano.
Ma oggi anche i missionari dovrebbero avere imparato una volta per tutte nche i libri sacri hanno un contenuto religioso, non scientifico. Che è ora di staccarsi dal mito dell’elemosina.
Di certo lo aveva capito padre Gheddo.
Se i libri sacri non fanno che raccomandare l’elemosina come rimedio sovrano alla povertà, è perché era allora del tutto assente l’idea di produzione.
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Gli antichi consideravano la guerra come un buon affare per il più forte: procurava bottini.
Vero: ma poi non restava loro che azzerarli con il consumo. Finché non incontravano uno più forte di loro.
Il lavoro era disprezzato, l’occupazione considerata roba da schiavi. Amavano piuttosto il lusso e lo spreco, che vedevano come unica forma di “investimento”.
E’ chiaro che in un mondo del genere il ricco spoglia il povero per divenire quel che è.
Nell’Antico Testamento molti passaggi evocano questa cultura. In Maccabei, per esempio, si dice: “non vale la pena sudare nei mestieri quando con scorribande brigantesche si può avere tutto”.
In realtà le guerre sottraggono braccia al lavoro, e come ogni altra forma di rapina fanno inaridire le fonti da cui si alimentano.
Anche la ricchezza che procurano è caduca, sappiamo per esempio che Roma e gli altri grandi Imperi del passato rimasero nell’insieme poveri, con giuste delle fiammate di sfarzo estemporaneo.
Occorsero più di 4 secoli perché considerazioni di ordine borghese e utilitaristico soppiantassero l’ideale eroico del guerriero magnanimo.
I chissà quanti ne occorreranno per riformare le teste di molto mondo missionario.
La sorella gemella della guerra e la schiavitù. La sua grande diffusione potrebbe far pensare che si tratti di un buon affare, e invece non lo è: “lo schiavo trascura i buoi, non cerca pascoli idonei per le greggi, non rivolta le zolle con attenzione, non fa il conto dei semi, non compie i lavori di sarchiatura e rimandatura…”
Per marxisti, antichi, Bibbia e certi missionari la forza è tutto. Trotsky lo spiega: “se la costrizione va contro la produttività significa che ci siamo messi in un vicolo cieco… ma questo è solo un pregiudizio compagni!”.
Per capire come mai la schiavitù ha avuto tanto successo dovremmo rivolgerci alla psicologia più che all’economia. Ignazio Silone lo ha fatto: “il senso di soddisfazione sociale nasce dal confronto con altri uomini e non con le cose ossia dal sentirsi superiori. In questo senso guerra e schiavitù funzionano eccome”.
Nei paesi poveri il mito marxista, il mito della guerra, il mito della schiavitù, il mito dell’elemosina è solo durato (e in molti dura ancora) più a lungo che altrove.
I missionari alla Zanotelli hanno contribuito non poco nel perseverare.
Purtroppo questa longevità è all’origine della povertà. In questo senso il periodo post-coloniale ha fatto più danni di quello coloniale.
E non necessita nemmeno che ci siano guerre, schiavi o comunismo realizzato per fare tanti danni. Basta la mentalità. Padre Gheddo lo aveva ben chiaro.
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Senza colpevolizzare nessuno, ci faceva notare la pigriziadesolante dei poveri, il loro passare gran parte del tempo in chiacchiere.
I missionari gesuiti già scrivevano: “è somma è l’ infingardaggine e l’abborrimento della fatica in quasi tutti i popoli sudamericani, un male che si osserva anche in altri moltissimi popoli selvaggi dell’Africa”.
In genere la donna è molto più occupata e laboriosa dell’uomo. Gli uomini parlano, le donne lavorano.
Se i classici latini dichiaravano disonorevole e vile il lavoro degli operai, i poveri africani sembrano aver assimilato quella cultura alla perfezione.
Nell’antica Roma come in Centro Africa il numero di giorni festivi è spropositato. Praticamente metà dell’anno. La Guinea Bissau è il paese con più feste al mondo, e se ne vanta. Ma è normale quando l’ideale è “lavorare poco”.
Proverbio di Santo Domingo: “lo stupido lavora e il furbo fa festa”. Il clima non sembra esattamente luterano.
Il ricco dei paesi poveri ama lo sperpero. Chi si arricchisce con mezzi anti-economici non è risparmiatore, il suo motto è: il denaro è fatto per essere speso!
Dove c’è povertà manca il senso dell’economia, del risparmio, dell’investimento. Non è colpa delle incertezze, è colpa della cultura. E’ vero in Niger come nella Roma imperiale.
Domina la bambinesca e primitiva esibizione delle ricchezze: dicono a tutti che sei un guerriero valente. Per Le Goff le società della rapina sono anche le società dell’apparenza.
Don Milani notava che i suoi contadini spendevano più per addobbare la camera da letto che per la lavatrice elettrica. Si lamentava delle risorse sperperate nelle feste di matrimonio.
Poi, come al solito, sbagliava tutto pensando che la cosa fosse un portato della società borghese: no, è un portato di una cultura arcaica ignara del concetto di investimento.
In Burkina Faso la gente è sempre impegnata in cerimonie: iniziazioni, matrimoni, funerali. Roba che dura giorni, eh.
In Amazzonia quando nasce un bambino moglie e marito devono astenersi da ogni attività per otto giorni.
Quando padre Gheddo dovette costruire un ponticello in Uganda lo sconforto lo prese, ricordo le sue parole: “qui tutto è difficile e lento nell’esecuzione…”
I poveri sono congenitamente privi del senso della puntualità, ne parla con dovizia di particolari il tedesco Arthur Koester in un suo spassoso passaggio sui russi (che non riesco a reperire).
In Guinea-Bissau non c’è la minima ansia per il tempo che scorre, la resistenza passiva al lavoro e l’assurdo prestigio attribuito all’ozio meravigliano il visitatore.
Le principali fonti di ricchezza degli “aristocratici” improduttivi e spendaccioni di questi disgraziati paesi: la guerra e la politica, i bottini e gli abusi amministrativi.
In questa cultura arcaica la frode è spesso motivo di orgoglio, il proprietario aristocratico – ancora nel nostro sud – si faceva vanto di essere imbrogliato dai suoi fattori: significava che li ha scelti furbi e capaci.
E anche qui il parallelo tra cultura dei poveri e cultura arcaica prosegue: anche preso antichi l’ideale era vivere oziosi (cioè negli studi, nella politica e nei divertimenti).
Il nostro meridione ha mostrato a lungo gli stessi vizi di mentalità presenti in modo macroscopico nei paesi sottosviluppati.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, degno erede di quella cultura, alla domanda “che mestiere fa?” rispondeva “il Principe”.
Con tale spirito non si poteva coltivare che la cultura letteraria, la quale, a sua volta, a chi non riusciva a vivere di rendita, non offriva altri sbocchi che le cosiddette professioni liberali; si era così avviati al tribunale, alla medicina, al notariato o a prete.
In tale milieu l’eloquenza e la retorica diventano centrali ed occupano la giornata del gentiluomo, tutto ciò che non è materia di disputa diventava trascurabile: agricoltura, arti, commercio, scienze naturali.
I membri di questo ceto, poco attratti dal lavoro produttivo e impossibilitati a fare tutti l’avvocato o il medico, finiranno col gonfiare la burocrazia dello Stato.
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Abbiamo quindi visto la santa alleanza tra certe ideologie moderne – come il marxismo – e mentalità arcaiche tipiche del mondo classico: per entrambe la ricchezza si “arraffa”.
I racconti di padre Gheddo fanno cogliere immediatamente il nesso, eppure il mondo delle Missioni è spesso caduto nella trappola della propaganda comunista che ha chiamato “capitalistica” un’economia feudale e latifindista sopravvissuta, per esempio, in vaste aree dell’America Latina.
Padre Gheddo è stato tra i pochi a mantenere un esemplare lucidità su questo punto. Per lui l’allucinazione marxista e la rapina nobiliare marciavano insieme grazie ad una solida base condivisa.
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Ma il mondo dei poveri così come lo si evince dalle testimonianze di Gheddo ha un ulteriore marchio di fabbrica: il primato della politica.
Le cose si ottengono solo grazie alla politica, ovvero attraverso il lamento piazzaiolo, Il laio e il piagnisteo, possibilmente chiassoso. Il rito delle prefiche viene universalizzato.
Già per il sociologo Pellicani ovunque il sottosviluppo è generato dal prevalere dell’interesse politico su tutti gli altri.
L’abbondanza di leggi, osservava già il Verri, possono forse allontanare taluni delitti ma non mai animare dell’industria. In Africa non fanno né l’una né l’altra cosa.
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Il povero fatica a vedere le cose per quello che sono.
I poveri mancano di realismo, non fanno i conti con i fatti. Pensando che le loro recriminazioni siano sufficienti a dissolverli.
La Chiesa Missionaria, in molte su parti, spesso ha rinforzato questo vizietto, anziché combatterlo.
Come? Sostituendo all’ideale del progresso quello di una dubbia Santità, magari della santità monastica.
Il passaggio dalla Santità all’eroismo e dall’eroismo alla rivoluzione cruenta è stato del tutto naturale.
Troppo spesso i valori spirituali sono stati trasmessi in termini mistico contemplativi anziché nelle formulazioni razionali tipiche della Tradizione.
Su questo fondamento irrazionale attecchì bene l’ideologia marxista, grazie soprattutto ai suoi aspetti utopici.
Nei paesi sottosviluppati sono pochi coloro che fanno i loro calcoli in termini di costi ed i ricavi. Un carattere tipico dei poveri è l’incapacità di concepire il domani. Non mi meraviglia visto che il missionario di turno – l’uomo destinato dalla Provvidenza – parla loro di “ragione e calcolo” come di qualcosa “… che ha sconvolto il mondo e distorto i rapporti sociali”.
Padre Gheddo osserva sconsolato: “la fertilità aumenta con la povertà, l’ignoranza, insufficiente nutrizione, la disoccupazione, la mancanza di interessi e di impegni nella società…”
Dove latitano realismo e razionalità prevalgono miti e ideologia.
E con l’ ideologia ecco proliferare i missionari trasformati in “professorini” e “dottrinari”, ovvero uomini con la mente rivolta all’utopia e incapaci di cambiare idea anche di fronte all’evidenza.
La mentalità mitica ed ideologica porta all’abuso della parola che si presta ad alimentare il sogno. Per questo le popolazioni arretrate amano perdere molto tempo in chiacchiere e discorsi ampollosi.
Figli del barocco, amanti del complicato, del vistoso e del ridondante. Chi ha avuto la terribile esperienza di ascoltare dall’inizio alla fine un discorso di Fidel Castro sa cosa intendo.
Ma il vero mito che hanno i poveri e quello dell’autorità. Per loro l’anarchia è il peggiore dei mali. In Zambia ci si inginocchia davanti alle Mercedes dei capi.
Il povero che conta solo sull’elemosina ha già perso la sua dignità e a lui non resta che inginocchiarsi e implorare.
Se il principe sbaglia è colpa dei cattivi consiglieri. Da qui sembra trarre origine quella specie di sacralità dello stato.
In Africa un figlio non può costruire una capanna migliore di quella di suo padre, lo disonorerebbe, e l’onore è tutto. Perciò si perpetua nei popoli sottosviluppati una povertà contenta e superba.
Come una passività conservatrice, del resto, per tornare al nostro parallelo, gli antichi proverbi non insegnavano forse larassegnazione?
Un altro mito deleterio è il mito del popolo. E qui la figura di Papa Francesco sembra uscire dagli anni più bui delle missioni sudamericane.
Per Settembrini il populismo significa essenzialmente che gli ultimi saranno i primi. Il tutto si fonda sulla vecchia visione sanfedista – e quindi reazionaria – per cui il vero popolo è quello analfabeta e senza scarpe che gli intellettuali corrompono.
Parliamo di uno sviluppo aberrante di taluni concetti religiosi che favoriscono l’attitudine al sogno e alla vociante rivendicazione.
Un esemplare di questa aberrazione fu Don Milani, il quale riteneva che voler bene al popolo significasse renderlo consapevole della propria superiorità rispetto al borghese.
Il mito del Popolo implica il mito della cultura proletaria. Ma la cultura proletaria non esiste, lo sapevano bene sia Bukowski che Pajetta: “ma qual è l’estetica del povero? L’estetica del povero è il brutto”.
Appiccicato al mito del Popolo e della cultura popolare sta sempre il perniciosissimo mito della rivoluzione.
Guarda caso i paesi che hanno avuto una antica tradizione di libertà non sono rivoluzionari. Se c’è un popolo moderno e insieme amante delle tradizioni questo è il popolo inglese, e lo stesso dicasi del popolo svizzero – buon ultimo nel concedere il voto alle donne.
Irrazionalità, anarchia di fatto, utopia e violenza sono invece tipici dei popoli rivoluzionari, quello boliviano per esempio, che ha conosciuto il 190 rivoluzioni in 160 anni di esistenza.
Se i popoli tradizionalmente liberi sono moderatamente conservatori è perché la loro condizione li ha resi più disposti ad accettare la realtà, e quindi ad accettare l’esistenza di una diseguaglianza di fatto tra gli uomini.
L’unica eguaglianza che pretendono è quella dei diritti, ovvero quella della dignità personale.
Ma in certi ambienti missionari – su cui vedo ancora padre Gheddo scuotere silenziosamente il testone – la “partecipazione allo stesso corpo e allo stesso sangue di Cristo” deve livellare anche socialmente ed economicamente chi partecipa.
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Molti missionari cristiani d’impostazione “classica” accusano di “individualismo” le moderne società, e ciò sembra dipendere da una certa nostalgia per il villaggio medievale.
L’individualismo sembra invece prerogativa del mondo rimasto sottosviluppato.
Esempio, guardiamo al nostro Sud: badare ai fatti propriera considerato come la condizione fondamentale del vivere onesto.
Nei poveri c’è spesso un antistatalismo perverso: l’eredità di un cattivo governo crea odio verso l’autorità dello Stato, tutto cio’ impedisce la collaborazione, frena l’economia e crea povertà. Poveri e improduttivi, essi tenderanno a chiedere tutto allo stato.
Si può essere così un paese sostanzialmente socialista, con interventi pesanti dello stato in economia, ed al tempo stesso estremamente individualista, in cui l’autorità, lo stato, appaiono sempre in veste di nemici.
Quando lo stato non pensa al bene pubblico ma elargisce elemosine, la sua presenza si fa invasiva e, al contempo, la lotta tra i derelitti per accaparrarsi l’elemosina rende tutti delle iene.
Il triste destino del missionario tradizionale è spesso quello di divenire un imprenditore dell’invidia. L’invidia è un sentimento tipico dei paesi poveri. In Guinea-Bissau, tanto per dire, nessuno deve emergere sugli altri, nessuno può arricchirsi. L’invidia si istituzionalizza nell’odio di classe. Se c’è stato un missionario sempre attento a scansare insidie del genere, questi è stato padre Gheddo.
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Forse il missionario alla Zanotelli farebbe bene a notare che il ricco delle società moderne è ben diverso da quello delle società antiche. Oggi la vita di un imprenditore, di un banchiere, di un manager è molto più impegnata di quella di un operaio o di un contadino.
I grandi lussi – si pensi alle costose Cattedrali medievali che potevano contenere tutta la popolazione della città o ai superbi palazzi rinascimentali – appartengono al passato più che al presente.
Lo spreco di oggi – che chiamiamo consumismo – è fatto perlopiù dall’uomo comune, il che significa che nella società moderna la ricchezza ha raggiunto per la prima volta nella storia la massa degli uomini.
Il missionario alla Zanotelli – reso immune dalla sua bontà per antonomasia – a scuola non studia una sola pagina di storia dell’economia, dopodiché quando cede ad uno spazio pubblico non parla che di economia confondendo bellamente il capitalismo con l’economia antica, feudale, o al massimo mercantilistica.
Padre Gheddo, al contrario, su questi temi ci andava con i piedi di piombo, faceva capire che il problema della povertà risiede innanzitutto nei poveri stessi, che la radice ultima di povertà e ricchezza era la cultura più che la sopraffazione. Una cultura pauperista che, ahimé, i poveri condividevano spesso con molti di coloro destinati al loro aiuto.