martedì 7 ottobre 2014

La mia ragione

Forse non esiste un’ unica concezione di cosa debba intendersi per “ragione”, forse non esiste un senso univoco per il termine “ragionevole”. L’ inattesa vaghezza del concetto di Ragione a volte è causa di fraintendimenti prolungati. Per chiarire meglio l’ ambiguità di fondo prendo in esame una situazione ricorrente e per molti versi illuminante.
Ora, immaginate due persone perfettamente razionali poste di fronte al medesimo dilemma con il dovere di scegliere tra due comportamenti alternativi. C’ è chi si sorprende nel venire a sapere che questi due individui potrebbero prendere decisioni differenti: la razionalità è unica, come possono due decisioni differenti essere entrambe razionali?
In un certo senso anche un bambino comprende che una possibilità del genere esista ma chissà se tutti ne afferrano la portata. D’ altronde basterebbe considerare che un metodo è razionale quando è chiaro e distinto. Ora, come è mai possibile che lo stesso metodo (“chiaro e distinto”) applicato al medesimo problema (formulato in modo altrettanto chiaro e distinto) porti a conclusioni differenti?
decisor
L’ esigenza di precisare cosa debba intendersi per “decisione razionale” è diventata impellente dopo questa discussione. Ne approfitto allora per dare la mia versione dei fatti (e dei concetti).
Innanzitutto il decisore ha sempre delle preferenze, si tratta dei suoi gusti soggettivi.
In gelateria io scelgo il pistacchio e tu il cioccolato, questo mica significa che io sono razionale e tu no! Piuttosto, come amano esprimersi gli economisti, tutti e due “massimizziamo la nostra funzione di utilità”,  cio’ non toglie che la nostra funzione di utilità sia differente, e quindi anche i nostri comportamenti. Semmai, una persone è irrazionale quando agisce senza “massimizzare” la propria utilità.
E questa è la parte che capisce anche un bambino. Fermandoci qui tutto sarebbe banale.
Vediamo allora di rendere più interessante la faccenda introducendo le decisioni prese in condizioni d’ incertezza (sono il 90% delle decisioni che ci riguardano). Qui c’ è un fattore ulteriore da considerare; la decisione in condizioni d’ incertezza si compone infatti di tre elementi: preferenze, intuizioni e calcolo. I primi due sono elementi soggettivi, il terzo è oggettivo. Chi ha voglia di annoiare potrebbe ripetere la tiritera: la preferenza dipende dalla nostra natura, l’ intuizione dal nostro vissuto, il calcolo dalla nostra ragione. Ma lascio subito da parte le definizioni astratte e torno al mio esempio della gelateria. Riassumiamo:
1. Il gusto che sceglierò una volta posto di fronte al bancone della gelateria dipenderà ovviamente dalle mie preferenze (elemento soggettivo).
2. Ma - per amore di discussione e per introdurre l’ elemento aleatorio - poniamo che ci siano gusti che non conosco affatto e che mi vengono descritti a parole utilizzando un lessico vago ed evocativo (è molto difficile descrivere un gusto senza far riferimento ad altri gusti). Sulla base di queste astratte spiegazioni tenterò di intuire se il gelato oggetto della descrizione potrebbe essere di mio gradimento e quanto. Non ho altra via che l’ intuizione per assolvere a questo compito. Importante: poiché le intuizioni sono soggettive, le decisioni di due persone razionali con i medesimi gusti potrebbero anche essere diverse perché diverso potrebbe essere il loro modo di ridurre quelle parole vaghe in termini di sapore al palato!
3. Infine c’ è la parte oggettiva: il calcolo. Poniamo che esistano in merito degli studi ben fatti dai quali emerge, applicando un calcolo statistico rigoroso ad un database accurato, che individui con il mio profilo psicologico posti di fronte alla medesima scelta tendono ad affermare, a posteriori, che il loro gusto prediletto proposto dalla gelateria è il gusto X, dopo viene quello Y eccetera.
Ricapitolando: chi decide razionalmente tiene conto di preferenze personali a cui applica le proprie intuizioni per poi rettificare il tutto sulla base dei calcoli effettuati grazie ai dati oggettivi via via disponibili.
Da una realtà così descritta veniamo spinti a tre considerazioni fondamentali 1) poiché i dati oggettivi disponibili (studi) possono cumularsi nel tempo – vengono prodotti sempre nuovi studi – cosicché io sono chiamato a continue rettifiche nelle conclusioni; 2) poiché le preferenze divergono, l’ esito della decisione muterà a seconda delle preferenze del decisore; 3) quand’ anche le preferenze siano simili, varieranno le intuizioni, ovvero il punto di partenza di ogni decisione razionale in regime d’ incertezza, cio’ implica che anche con preferenze simili due decisori razionali in possesso dei medesimi dati oggettivi ma di esperienze differenti, potrebbero deliberare diversamente; 4) anche le esperienze si cumulano contribuendo a variare di continuo le conclusioni.
Ritengo che il punto 3) sia quello cruciale, e anche quello che si fatica di più a comprendere. Nel gergo “bayesiano” viene sintetizzato con l’ espressione “i decisori possiedono “a-priori” differenti”.
E’ per questo che quando si discute dello studio X o dello studio Y è sempre sottointeso che stiamo discutendo “al margine”. Ovvero, anche qualora lo studio sia valido e fondato su dati oggettivi inappuntabili, l’ interlocutore razionale è chiamato a “rettificare”, magari anche di poco, la propria opinione, mica a “cambiarla di segno” radicalmente. Tutto cio’ ha delle conseguenze perché dove l’ interlocutore si situerà nello spettro delle opinioni possibili su quel tema alla fine della discussione dipenderà unicamente da dove si trovava all’ inizio.
La bottom line potrebbe essere: tutte le discussioni serie si fanno sempre e solo al margine.
Proseguendo al discussione potremmo scoprire che – con alcune assunzioni intorno alla buona fede e alla stima reciproca - due interlocutori razionali, pur potendo attestarsi su posizioni differenti, sono “condannati” a raggiungere un accordo completo su qualsiasi questione (e non parlo di un accordo che abbia per oggetto il loro disaccordo).
***
Pensierino finale: la razionalità che ho descritto qui sopra in modo semplicistico è la razionalità bayesiana (ovvero la razionalità scientifica applicata alle scelte incerte). Per una descrizione più rigorosa ma pur sempre intuitiva si puo’ seguire questo link. Chi invece è interessato alla radice soggettivista nel calcolo delle probabilità puo’ seguire quest’ altro link

SIAMO DAVVERO TANTO STUPIDI?

Platone reputava l' uomo un "animale razionale" e considerava ogni attacco alla sua razionalità come un attacco all' umanità stessa.
Ebbene, ci sono pochi dubbi, viviamo tempi in cui la razionalità umana viene attaccata di continuo e su tutti i fronti.
Tanto per fare i nomi di qualche intellettuale di vaglia.
Daniel Kahneman ritiene che l' uomo giudichi sia con l' intuito che con la ragione ma è la prima facoltà a prevalere di gran lunga.
Jonathan Haidt pensa che la nostra ragione sia come un minuscolo omino alla guida di un gigantesco elefante; a volte riesce miracolosamente ad indirizzare la bestia ma quando questa vuole andare da qualche parte non c' è modo di fermarla.
Daniel Sperber ritiene che la ragione non serva a cercare la verità ma a vincere nelle controversie dialettiche; al limite è una facoltà da esibire per innalzare il proprio status agli occhi altrui.
Secondo molti commentatori del lavoro di Benjamin Libet l' atto "riflessivo" stesso è un' illusione, così come pure quella coscienza che dovrebbe ospitare la ragione: le nostre decisioni sono frutto di un mero istinto che precede la coscienza.
Naturalmente, non manca la spiegazione evolutiva di questa "stupidità diffusa": il cervello dell' uomo si sarebbe formato 30000 e rotti anni fa rispondendo ad esigenze ben diverse da quelle che abbiamo oggi. Poiché operiamo con la stessa "macchina" in un contesto del tutto differente, non c’ è da stupirsi se andiamo incontro ad una serie di inconvenienti.
Da ultimo, il mio amico virtuale Ettore Panella si mostra scettico sulle prestazioni cognitive dell' homo sapiens: noi non saremmo in grado di "ragionare", al limite possiamo giusto "razionalizzare". Lo cito perché il presente post è anche frutto di una sua fruttuosa provocazione.
La conclusione comunemente accettata stabilisce che l' uomo medio è zeppo di bias cognitivi e non puo' farci granché.
C' è chi ha timidamente notato, nella speranza di salvare la ragione, che gran parte di questi errori si compenserebbero dando origine a forme di razionalità collettiva ("winsdom of the crowd"?. Purtroppo, i nostri errori non sarebbero errori qualsiasi, bensì errori sistematici, ovvero incorreggibili. Noi sbagliamo a senso unico indirizzando male anche il gruppo a cui apparteniamo.
Certo che se tutto cio' fosse vero non mancherebbero elementi di preoccupazione. Pensate ad un governante consapevole di tutti questi limiti cognitivi a carico dei suoi sudditi. Non vi sembra pericoloso? Le politiche paternalistiche si sprecherebbero, e con tanto di supporto scientifico a giustificazione.
C' è da chiedersi se è rimasto qualche sparuto elemento a difesa della razionalità.
Facciamo un passo indietro, il discredito è calato sulla razionalità umana allorché si è cominciato a volerne testare la reale consistenza.
Di solito si sottoponeva ad un campione casuale di studenti un problema fornendo in modo chiaro tutti i dati necessari per ricavare la soluzione corretta, dopodiché si verifica  se la presenza di un innocuo  "trucchetto" induceva risposte irrazionali.
La risposta era di solito affermativa. Negli otto punti che seguono cerco di valutare questi esiti in modo eterodosso rispetto all' interpretazione corrente.
dumb
***1. Il duro mestiere della cavia***
Ci si potrebbe chiedere come mai un individuo posto nelle condizioni sopra descritte dovrebbe rispondere in modo corretto ai quiz che gli vengono sottoposti.
In fondo scovare la risposta giusta implica un calcolo, magari un calcolo faticoso, meglio sparare a caso o quasi e passare alla cassa per intascare il “compenso cavie".
Per evitare questi inconvenienti sperimentali bisognerebbe fissare una sostanziosa ricompensa per chi risponde correttamente. Ma poiché questi esperimenti hanno senso solo se reclutano le masse, c' è da chiedersi  quanto sarebbe oneroso un lavoro affidabile? Di sicuro parliamo di costi proibitivi.
No, la cosa è improponibile.
Si potrebbe, in alternativa, interrogare solo dei soggetti esperti , ovvero ferrati nel dominio coperto dalle domandine di laboratorio. Anche costoro soffrono dei noti limiti di ragionamento? In fondo parliamo di gente che si guadagnano da vivere proprio operando nel ramo in cui viene interrogata.
Buona idea, quando si è realizzato un progetto di questo tipo l' irrazionalità delle cavie è crollata.
L' economista John List, con l' aiuto dei suoi amici psicologi, ha dedicato molte energie ad esplicitare questo punto.
***2. Intelligenza vs. Razionalità***
Ma c' è un' altra obiezione più profonda e riguarda la natura della nostra razionalità.
La domanda cruciale è questa: intendiamo tutti la stessa cosa quando parliamo di razionalità? Forse no.
Forse cio' che si mette alla prova nei test convenzionali, più che la razionalità, è l'intelligenza.
Ma che differenza c' è tra razionalità e intelligenza?
Anziché dilungarci in definizioni astratte forse è meglio fare un esempio proponendo un test classico, il cosiddetto "Linda's problem".
L' esaminatore esordisce raccontandovi una storiella semplice semplice:
...Linda è una giovane donna che lavora in banca; si impegna molto nel suo lavoro ma ha anche una vita sociale attiva, le sono sempre stati a cuore i diritti delle donne, sente come sua questa battaglia e recentemente si è avvicinata ad un' associazione che si dedica a queste tematiche e bla bla bla....
Dopo aver raccontato la storiella vi propone due affermazioni:
1) Linda è un consulente finanziario di banca;
2) Linda è un consulente finanziario di banca e una femminista.
Vi viene infine chiesto quale ritenete essere l' affermazione più probabile.
La maggioranza delle persone sceglie “2” ma la risposta esatta è “1”. Infatti, le persone ricomprese da “2” sono solo un sottoinsieme delle persone ricomprese da “1”, di conseguenza “1” sarà per definizione sempre più probabile di “2”.
Da questo errore ripetuto più volte nel tempo si inferirebbe che le persone sono sistematicamente irrazionali.
Chi obbietta dice invece che una lacuna del genere è compatibile con la razionalità.
Evidentemente ci sono concezioni differenti di razionalità.
Di sicuro il problema è ben posto e chi risponde "2" sbaglia; ma sbaglia perché è un soggetto irrazionale?
Per capire cosa potrebbe essere successo dobbiamo mettere in evidenza il "trucco" che ha deviato molte risposte: il quesito ci fornisce una lunga introduzione al personaggio di Linda che ci trae in inganno poiché è del tutto irrilevante per risolvere il quiz proposto alla fine.
Ma nella nostra realtà quotidiana se qualcuno ci parla facendo delle premesse articolate, evidentemente è perché ritiene quelle premesse rilevanti ai fini del discorso che segue. Presumere che le cose stiano in questi termini è del tutto razionale per noi. Eppure,  nel caso del quiz, tutto cio'  ci ha indotto in errore.
Evidentemente, chi ha sbagliato non è riuscito ad astrarsi dal mondo per concentrarsi sul quiz, la sua realtà quotidiana ha continuato a vivere dentro di lui anche mentre veniva testato in laboratorio attraverso quiz semplici e asettici.
In conclusione direi questo: per risolvere correttamente il "Linda's problem" (così come molti altri esperimenti mentali) noi dobbiamo IMMAGINARE correttamente la situazione che ci viene descritta e poi CALCOLARE la soluzione finale.
I soggetti che rispondono scorrettamente possiedono in modo integro le loro facoltà di CALCOLO, quello che non riescono a fare bene è IMMAGINARE la situazione che viene loro descritta.
Non ci riescono ma del tutto anche se è una situazione particolarmente semplice.
Anzi, forse non ci riescono proprio perché è fin "troppo" semplice, la realtà con cui sono abituati a fare i conti è molto molto più complessa.
I soggetti che rispondono in modo sbagliato dicono di accettare le semplici premesse poste dall' esaminatore. Che ci vuole? Sono premesse elementari e chiare! Ma in realtà non riescono ad accettarle poiché dentro di loro le ritengono inverosimili (nella realtà non esistono problemi con premesse tanto semplici). E' questo che li induce in errore, non la supposta irrazionalità.
Personalmente mi sento di avallare questa interpretazione.
Nella mia esperienza capita spesso di proporre "esperimenti mentali", proprio per la loro semplicità. Ho continue conferme di quanto si diceva: persone che riconosco come più lucide e brillanti di me nel prendere la decisione giusta in mille contesti, faticano poi a calarsi in giochini molto semplici. Mi sono sempre fatto delle domande in proposito.
Ci vuole una buona dose di "autismo" per calarsi in problemi artificiosi, così come ci vuole una grande sensibilità a tutti i fattori per prendere la decisione più corretta nella vita reale. Difficilmente "autismo" e "sensibilità" riescono a convivere nella stessa persona.
Recentemente mi è capitato di proporre il "Linda' s problem" ad un conoscente che stimo per la sua capacità di riflettere.
Mi ha dato la risposta sbagliata. Niente di strano.
Si è giustificato dicendo: ho scelto "2" perché di solito ritengo più informato colui che su una certa questione mi fornisce più dettagli. E in effetti nella realtà è proprio così, purtroppo nell' esperimento mentale di Linda un' assunzione del genere è del tutto gratuita.
Insomma, il mio amico non è riuscito a concentrarsi sul problema facendo piazza pulita della realtà che vive tutti i giorni, ovvero dei meccanismi che adotta comunemente per risolvere i problemi sul lavoro o in famiglia.
Avrebbe dovuto concentrarsi sulla fredda logica deduttiva applicandola ai dati di partenza, ha invece fatto irrompere la tipica logica induttiva con cui soppesa le sue esperienze al fine di metterle a frutto.
La logica induttiva ha disturbato quella deduttiva portandolo all' errore. Cio' non toglie che la sua logica deduttiva sia solida, è solo disturbata indebitamente da quella induttiva allorché si ritrova in situazioni artificiose come quelle di laboratorio. Ma nella realtà la logica induttiva non disturba affatto, anzi integra in modo imprescindibile le capacità di calcolo.
In conclusione, il mio amico ha fornito sì la risposta sbagliata ma nella realtà di tutti i giorni è probabilmente molto più razionale dell' "autistico solutore ideale" del Linda's problem.
Avete presente quei "soggetti molto intelligenti che fanno cose molto stupide"? Sono familiari un po' a tutti. Ecco, questi tipi rientrano senz' altro nell' elenco dei "solutori ideali".
Il "solutore ideale" deve avere doti di calcolo e capacità di astrazione (immaginazione). A lui non è richiesto né di saper saggiare l' affidabilità dei dati di partenza né di fissare obbiettivi congrui.
Ma cosa significa tutto cio'? Un esempio lo chiarisce bene.
Se la maestra dice: "Pierino va a far la spesa con 10 euro nel portafoglio..." noi non siamo tenuti a questionare sull' affidabilità di questa informazione. E' così punto e basta, lo dice la maestra.
Se la maestra poi dice "... quanto ha speso Pierino al mercato?" l' obbiettivo dello sforzo a cui siamo chiamati è semplice: rispondere a questa domanda. Noi non siamo tenuti a fissare uno scopo, lo fa per noi la maestra e non si discute. Non ci resta che "calcolare".
Eppure, saggiare l' attendibilità dei dati ricevuti e fissare obbiettivi congrui sono competenze importanti nella vita reale, sono altresì competenze che impegnano la nostra ragione.
E torniamo allora alla distinzione tra "intelligenza" e "razionalità". Ora dovrebbe essere più chiara.
Di solito pensiamo che i limiti della persona intelligente con "tratti autistici" siano legati alla sfera emotiva e a quella relazionale.
Le cose non stanno proprio così, tanto è vero che i limiti che sto evidenziando non sono né di natura emotiva, né di natura relazionale. Sono limiti legati alla razionalità, sono limiti cognitivi.
Una persona puo' essere intelligente ma possedere una razionalità estremamente limitata. Ecco spiegato il caso tanto comune dell' "intelligentone che fa cose stupide". Non si tratta di "stupidità emotiva o relazionale", un concetto del genere sarebbe un ossimoro. Si tratta di stupidità in senso stretto, ovvero di deficienze cognitive.
A volte, quando pensiamo all' "intelligentone" imbranato pensiamo anche che sia in quelle condizioni per la sua scarsa esperienza di vita: ha una tale passione per i libri che non esce mai dalla sua camera; è chiaro che appena fa un passo fuori inciampa. Sottointeso: ma lascia che si abitui...
Le cose non stanno proprio così poiché, come abbiamo visto, l' intelligenza puo' anche non essere collegata con la razionalità: l' esperienza non aiuta quei soggetti che non hanno gli strumenti cognitivi per soppesarla.
Ci sono casi estremi, per esempio quelli legati alla "lucida follia".
Di cosa si tratta? Abbiamo detto prima che la persona intelligente ha una grande capacità di astrarsi, sa IMMAGINARE molto bene il problema che gli viene proposto. Ebbene, il "folle lucido" ha una facoltà d' IMMAGINAZIONE potentissima, al punto che ne ha perso il controllo. Per quanto lucido non potrà mai essere considerato "razionale", tanto è vero che lo bolliamo come "folle".
Tuttavia, non vorrei essere frainteso: l' intelligenza resta una facoltà importantissima anche nella vita di tutti i giorni, specie dei NOSTRI giorni. E il senso comune lo sa bene, tanto è vero che tutti noi in fondo in fondo speriamo che i nostri figli abbiano un IQ elevato piuttosto che ridotto. Non siamo affatto indifferenti alla cosa.
Se devo proprio fare un nome di chi si è occupato di queste faccende, mi spendo per Keith E. Stanovich. Mi è stato molto utile leggere alcuni dei suoi lavori. Per lo sporco lavoro sul campo faccio i nomi di Ralph Hertwig e Gerd Gigerenzer.
***3. Il fascino dell' irrazionalità***
Discutendo per questioni di lavoro è difficile che l' altro faccia ammissioni contro il proprio interesse. Non ti sorprendi molto della cosa. In fondo vale anche per te: perché mai dovrei darmi la zappa sui piedi?
Nei forum virtuali capita invece di parlare con gente di cui non sai nulla e non saprai mai nulla. In un caso del genere difficile ipotizzare la presenza di interessi meritevoli di tutela: dici la tua e togli il disturbo. Eppure, anche qui, e forse più ancora che sul lavoro, non è facile trovare gente intellettualmente onesta.
In genere le persone virtuali che incontri hanno le loro fisse. Capisci subito che costoro non cambieranno mai idea. Neanche di fronte a fatti innegabili. Neanche di fronte a dimostrazioni geometriche.
Ti viene subito voglia di solidarizzare con chi definisce l' uomo un essere fondamentalmente irrazionale e in preda a ideologie. Anzi, le ideologie ti corazzano ancora più che gli interessi.
Ma c' è una semplice osservazione che manda in crisi l' ipotesi dell' uomo irrazionale. Basta infatti osservare che avere un' ideologia è bello.
E' bello professare un' ideologia, avere una fede. Ti riempie la giornata, costruisce la tua identità, ti realizza come persona, ti appaga, ti rende felice e compiaciuto.
Sono tutte cose positive e io potrei (razionalmente) decidere di sacrificare qualcosa pur di ottenerle. Cosa c’ è di più normale che pagare un prezzo per avere un bene? Potrei allora, per esempio, decidere di sacrificare la mia razionalità, perché no?
In questi casi lo psicologo parla di "irrazionalità razionali". Ma adottare un comportamento del genere è perfettamente razionale. Anche nel senso classico del termine.
Forse dobbiamo rivalutare gli "ottusi" che incontriamo in rete, hanno solo dato via la loro razionalità per avere altri beni, probabilmente più preziosi. facendo questo si dimostrano ancora più razionali di noi. Forse.
Ecco allora un' altra ipotesi in cui i bias cognitivi dell' uomo sono solo apparenti.
Ma come si puo' dimostrare un' ipotesi del genere?
Un modo ci sarebbe. Visto che parliamo di "dar via" la propria razionalità, allora dovrebbe/potrebbe valere la legge della domanda e dell' offerta: quanto più si alza il prezzo, quanto meno siamo disposti a “comprare”.
I controlli fatti confermano l' ipotesi dell' "irrazionalità razionale": noi siamo molto più ideologici quando discutiamo di politica o votiamo alle elezioni rispetto a quando facciamo la spesa al supermercato.
Essere ideologici in politica non ci costa niente. Anche votare in modo ideologico ci costa poco (gli eventuali effetti negativi saranno ripartiti su tutti). Ma al supermercato ogni "errore ideologico" lo paghiamo di tasca nostra.
Il concetto dell' "irrazionalità razionale" spesso pone sotto accusa i fedeli delle religioni: in molti casi credere a cose irrazionali non costa nulla.
In effetti non penso che si creda alle stimmate di Padre Pio adottando la stessa cura che ci mettiamo nell' analizzare i dati di borsa prima di investire i nostri pochi risparmi.
Anche per questo il nostro impegno nella fede deve essere elevato, il sola fide non converte certo il mondo che continuerà a ridere di noi.
L' economista Bryan Caplan ha elaborato il concetto di "rational irrationality" applicandolo alla politica, in particolare alle procedure democratiche.
***4. Quando il rischio ci manda in tilt***
Da più parti si ritiene che la nostra mente non sia molto a suo agio nel pensare e decidere in situazioni di rischio. Maurice Allais ha escogitato un paradosso che rende chiari i termini della questione.
La cavia è invitata  ad un doppio gioco, nel primo deve scegliere tra questi due premi a sua disposizione:
1a: 1 milione di euro certi in tasca.
ab: 1 milione di euro all' 89% - niente all' 1% - 5 milioni di euro al 10%
Nel secondo gioco deve scegliere invece tra questi due premi a sua disposizione:
2a: niente all' 89% - 1 milione di euro all' 11%
2b: niente al 90% - 5 milioni al 10%
Ebbene, la gran parte delle cavie sceglie 1a/2b.
Ma la scelta è incongrua.
La propensione al rischio puo' variare da persona a persona, cosicché noi non possiamo sapere alcune cose circa la scelta possibile di una persona coerente. Possiamo per esempio dire che sceglierà o la coppia 1a/2a oppure la coppia 1b/2b. Di sicuro non sceglierà la coppia 1a/2b.
Solo una persona incoerente potrà fare quella scelta visto che non si cambia propensione al rischio passando da un gioco all’ altro.
Oltretutto, l' errore registrato è sistematico. Ovvero, noi sbagliamo sempre scegliendo la coppia 1a/2b, difficilmente sbagliamo scegliendo 1b/2a.
La conclusione è chiara: in certe situazioni, quando siamo chiamati a decidere in condizioni di rischio, l' uomo si comporta in modo irrazionale.
Tra le ipotesi impliciti che consentono la conclusione di cui sopra c' è quella per cui l' uomo è un egoista: cerca cioè di massimizzare i premi ricevuti data la sua propensione al rischio.
In alternativa potremmo postulare che l' uomo sia un invidioso: data una certa propensione al rischio, cerca di massimizzare il differenziale tra la sua utilità e quella degli altri partecipanti la gioco.
Non mi sembra un' ipotesi forte. Anzi, mi sembra ancora più plausibile di quella dell' "uomo egoista".
Ebbene, postulando l' ipotesi dell' "uomo invidioso" prendiamo atto con sorpresa che la coppia 1a/2b, sotto certe ipotesi relative alla forma delle funzioni di utilità,  diventa coerente per molti livelli di propensione al rischio.
L' uomo non sarebbe quindi né irrazionale né egoista, sarebbe piuttosto invidioso. Un invidioso razionale, però.
La mia esperienza conferma questa ipotesi, spesso noto che gli uomini abbandonano i propri giudizi per conformarsi a quello generale. Questo è sintomo che l’ invidia fa premio sull’ egoismo: si teme, per esempio, di restare isolati nella sventura.
Tipico pensiero distorto: a parità di rendimento, anche se penso che il titolo X sia meno rischioso, compro Y perché lo comprano tutti.
Il fatto è che le statistiche di borsa confermano questa impressione: gli operatori vendono e comprano considerando la diffusione presso il pubblico di un certo titolo quale elemento in grado di abbassarne la rischiosità!
Ma forse, per spiegare casi come questi, non c' è solo l' irrazionalità umana. In altri termini, non c' è nemmeno bisogno di ripiegare sull' "uomo invidioso". La massima "mal comune mezzo gaudio" ha una sua verità indipendentemente dal sentimento dell' invidia: quando un male colpisce tutti è più facile contare su interventi esterni e su salvagenti eccezionali, magari forniti dalla politica democratica. Quando invece un male prende di mira solo voi, attorno constaterete solo disinteresse e abbandono.
Eric Falkenstein ha brillantemente risolto il puzzle di Allais in termini di invidia. In realtà è stato lo stesso Maurice Allais a mettere tutti sull' avviso affermando che "c' era qualcosa che non andava nell' assioma di indipendenza di Von Neumann e Morgenstern" (che postula appunto l' indipendenza tra le funzioni di utilità dei vari soggetti).
*** 5. Irrazionalità o razionalità occulta?***
Perché alcuni gruppi sociali si rifiutano di credere, nonostante le evidenze, al fenomeno del riscaldamento globale?
Per i teorici dei bias la risposta è chiara: irrazionalità. Un' irrazionalità dettata dall' ideologia.
Per quanto riguarda l' ideologia, ho già detto più sopra: coltivarla non è di per sé sinonimo di irrazionalità. Tuttavia, in questo caso c' è qualcosa in più che vorrei aggiungere.
Per chi fa parte di un certo gruppo, credere al fenomeno del riscaldamento globale non porta alcun beneficio diretto mentre invece accettarne esplicitamente le evidenze lo pone in urto con persone che frequenta ogni giorno. Nel secondo caso l' onere da sopportare sarebbe davvero alto.
In queste condizioni come si comporta un soggetto razionale dedito ad una puntuale analisi costi/benefici?
Ovvio, decide di non credere.
Non credere è una scelta obbligata per il soggetto razionale.
Potremmo allora dire che il gruppo ha posizioni irrazionali ma non che i soggetti che lo compongono siano irrazionali. La razionalità individuale è salva.
Per approfondire le vie imprevedibili della razionalità umana, una buona guida potrebbe essere il giurista Dan Kahan.
***6.  Irrazionalità al servizio della razionalità***
Si realizza spesso anche il fenomeno inverso rispetto a quello appena visto: talune nostre irrazionalità servono per conferire razionalità ai comportamenti di gruppo.
Faccio un esempio tratto dalla storia delle idee.
Nel pensiero economico, una delle tappe più importanti è costituita dall' elaborazione del concetto di equilibrio generale.
L' esimio economista ginevrino Léon Walras dimostrò matematicamente che un libero mercato, sotto certe condizioni, è in equilibrio allorché ottimizza l' allocazione delle risorse disponibili. Una fortunata coincidenza!
Successivamente, Kenneth Arrow e Gerard Debreu raffinarono questa dimostrazione.
Tuttavia, cio' non diceva ancora nulla circa la possibilità o meno che un libero mercato possa raggiungere spontaneamente il suddetto equilibrio.
Anzi, a dirla tutta Herbert Scarf dimostrò che una simile garanzia non poteva essere fornita.
Piccolo particolare: Scarf, come i suoi predecessori, ipotizzava che i prezzi di mercato fossero annunciati urbi et orbi da un banditore d' asta ad un pubblico di soggetti razionali.
Ebbene, bastò togliere questa condizione artificiosa per raggiungere risultati ben diversi.
Se si ipotizza l' assenza di un banditore ufficiale e al suo posto si considera invece la presenza di soggetti con razionalità limitata che aggiustano i loro comportamenti secondo strategie alternative, allora è possibile dimostrare che un libero mercato, oltre a possedere un equilibrio in cui viene ottimizzato l' uso delle risorse, è anche nelle condizioni migliori per raggiungerlo.
Di solito si parla di "strategie markoviane di comportamento".
La razionalità dei singoli, in questo caso, era un ostacolo al benessere collettivo e le "strategie alternative" che descrivono lo scenario ottimale, se considerate isolatamente, potrebbero anche essere scambiate da molti come "irrazionalità".
Qui l' irrazionalità, però, è al servizio di una razionalità più alta. Non mi sembra quindi che sia lecito trattarla quasi fosse un difetto da correggere. Al contrario.
Il matematico Samuel Bowels e l' economista Herber Gintis sono i due studiosi che, sulle orme di Hayek, si sono dedicati ai temi sfiorati in questo punto.
***7. La riflessione negata***
C' è chi non si limita a negare la ragione ma nega addirittura l' atto riflessivo in sè, ovvero, l' atto da cui dovrebbe scaturire la scelta razionale: noi saremmo dominati dai nostri istinti.
Qui bisogna intendersi: una scelta razionale puo' essere presa anche d' istinto ma non c' è chi non veda un legame forte tra ragione e capacità di vincere l' istinto immediato grazie ad un' attività riflessiva che scaturisce dalla coscienza.
Gli esperimenti condotti da Benjamin Libet hanno rilevato un' attività cerebrale che precede la decisione cosciente, cosicché in molti hanno concluso che la seconda potrebbe essere una mera illusione. La vera scelta è presa prima attraverso delle procedure estranee alla nostra coscienza.
In merito si avanzano di solito tre critiche:
1) Gli esperimenti di Benjamin Libet chiedono alle cavie di compiere scelte che sono ben lontane dalle scelte che compiamo comunemente. Se dobbiamo limitarci a decidere quando apporre un puntino su un foglio bianco siamo chiamati a compiere una scelta semplicissima, senza vincoli di tempo e completamente casuale. Fare una scelta di carriera o decidere se divorziare o meno è un po' diverso. Difficile pensare che lo studio dei meccanismi decisionali che riguardano il "puntino" possano dirci qualcosa di fondamentale sulle scelte autentiche.
2) Gli esperimenti di Benjamin Libet ci dicono che esiste un' attività cerebrale prima di assumere una scelta in modo cosciente. Ma da tutto cio' non si evince che la nostra scelta sia di natura istintiva. E perché mai? Anzi, quell' attività cerebrale, probabilmente, è necessaria proprio per attivare la coscienza e chiamarla a decidere.
3) C' è una relazione tra previsione e libertà che a molti sembra ostica. Secondo Libet, l' attività cerebrale che precede la scelta cosciente ci consente di prevedere quest' ultima con una probabilità intorno al 60%. In certe particolari condizioni la probabilità si alza.Cio' potrebbe significare che la nostra libertà di coscienza è condizionata ma mi chiedo chi ritenga che non esistano condizionamenti. Neanche il libertario più radicale arriverebbe a pretendere tanto! La presenza di una libertà - e quindi di una coscienza da cui scaturirebbero le decisioni razionali - deriva dal fatto che io "posso fare diversamente" qualora lo volessi, non dal fatto che la mia scelta sia prevedibile in anticipo. Esempio: è praticamente certo che io da qui ad un' ora non mi amputerò il braccio destro, tuttavia, se lo volessi fare potrei farlo. Se per esempio mi dicessero che con l' amputazione potrei salvare la vita in pericolo delle mie figlie procederei.
Alfred Mele è un filosofo da sempre impegnato a spiegare perché la scienza non ha affatto confutato il libero arbitrio e la scelta cosciente delle persone. Penso che saperlo, e quindi sapere che l' uomo puo' liberamente riflettere sulle decisioni da prendere, sia una buona notizia per chi crede che la ragione abbia un ruolo da giocare in questi frangenti.
***8. L' agguato paternalista***
Paternalismo e teorie dell' irrazionalità umana molto spesso vanno a braccetto. E' come se il governante dicesse al cittadino: "poiché non sei in grado di scegliere per il tuo bene, sceglierò io per te".
Dal truce proibizionismo alle subdole "spintarelle", il paternalismo esercita il suo magnetismo su tutto lo spettro politico, dall' estrema destra all' estrema sinistra.
E non parliamo dei cattolici, sempre pronti a far da egida con qualche decreto legge da richiedere alla politica.
La logica non fa una grinza: il cittadino/suddito non sa perseguire in modo coerente la sua felicità, non ha strumenti cognitivi adeguati per "realizzarsi" quindi, in sua vece, interviene il governante.
Ecco, quand' anche accettassimo le premesse circa l' irrazionalità sistematica dei cittadini - e nei punti precedenti ho sollevato dubbi in serie - l' argomento paternalista presenta quantomeno cinque inconvenienti.
Il primo è ovvio:
1) perché mai il tutore dovrebbe essere esente da bias?
Il secondo è legato alla prassi:
2) Il paternalismo implica élitarismo,  e l' élitarismo nel mondo moderno crea risentimento sociale; condizione tutt' altro che ideale per implementare con successo certe politiche.
Il terzo è paradossale:
2) tra i bias più comuni c' è anche quello per cui il soggetto è felice e si realizza solo se sceglie personalmente e sente sotto controllo la situazione.
Il quarto è sgradevole:
3) il paternalismo non cura i nostri bias ma anzi, ci gioca sopra, gli alimenta fino a diventare contro-producente qualora noi riuscissimo a superarli. Il paternalismo non mi educa ma mi spinge lentamente verso una condizione di dipendenza: senza il mio amorevole sorvegliante, sarò perduto.
Il quarto è filosofico:
4) il paternalismo è un attentato alla dignità dell' uomo messo sotto tutela. Il "protetto", infatti, è considerato come un eterno minorenne che bisogna far vivere in ambienti falsati e artificiosi, in sua presenza non bisogna accennare alle cose come stanno: non bisogna dire che "solo" il 15/20 dei forti fumatori viene colpito dal cancro ai polmoni, o che gran parte dei drogati esce relativamente presto dalla sua dipendenza, o che il rischio di fare incidenti da ubriachi è dello 0.009%, eccetera. Non bisogna dire niente per evitare che queste informazioni azionino l' irrazionalità dei soggetti fungendo da incentivo, al fumo, alle droghe, alla guida in stato di ubriachezza, eccetera. Ma questa campana di vetro fatta di reticenze e falsità è compatibile con la dignità dell' uomo?
Nonostante questi inconvenienti esiste un certo consenso intorno alle politiche paternaliste, è inutile negarlo. Tuttavia, la natura di questo consenso è per me dubbia.
Personalmente ritengo che molti siano favorevoli a politiche di questo tipo, non tanto perché preoccupati della sorte di chi non sa badare a se stesso, quanto perché queste politiche accomunano tutti in un unico destino.
Si torna al "mal comune mezzo gaudio" di cui sopra. Un classico bias che ci spinge a guardare con favore la figura messianica del saggio pastore/governante alla guida di un gregge da uniformare nei comportamenti al fine di essere condotto tutto in un unico ovile. Magari scomodo, magari primitivo ma pur sempre "unico".
A parte queste considerazioni, chi valuta i cinque problemi di cui come preoccupanti, si chiede poi quali alternative esistano.
Forse un' alternativa c' è: favorire la riflessione e l' introspezione. Chiamiamole pratiche di debiasing.
Se il "debiasing" fosse possibile, costituirebbe una valida alternativa al paternalismo. Non solo: quanto più il debiasing è possibile, quanto più il paternalismo da socialmente benefico diventa socialmente dannoso.
E molti psicologi ci dicono oggi che è possibile, purché si crei attorno al soggetto un ambiente gradualmente responsabilizzante che consenta la transizione dell’ “eterno minorenne” verso la maturità.
Prima, parlando di supermercati e cabine elettorali, ho fatto veder con un esempio come il libero mercato responsabilizza mentre la democrazia de-responsabilizza. Ecco, bisognerebbe trarne qualche conseguenza.
Jeremy Waldron è il giovane e promettente studioso che ha meglio elaborato filosoficamente i legami tra paternalismo e dignità dell' uomo. Bart Wilson si è invece occupato del "bias da controllo" (quello che ci fa preferire irrazionalmente l' auto all' aereo) e della libera scelta come via alla propria realizzazione. Sul "debiasing" vorrei indirizzare verso il lavoro di Keith Stanovich e Jonathan Evans.
***aggiunte***
  1. nella sezione 8, a proposito delle dipendenze sviluppate dal paternalismo, si potrebbe ricordare che l' abilità a gestirsi nel gioco è inversamente correlata con le proibizioni in materia.
  2. siamo fortunati noi cattolici ad avere l' esame di coscienza. L' introspezione è il modo migliore per superare i propri bias, e funziona! L' autore che più ha approfondito la faccenda è Richard Davidson.
  3. Una considerazione etica sul paternalismo. Il paternalismo crea il mercato nero, cosicché il paternalista puo' essere considerato oggettivamente responsabile per i danni collaterali che si creano su un mercato del genere. Una possibile replica, per esempio del proibizionista in tema di droghe: se io sono oggettivamente responsabile per quei danni tu, liberalizzatore, lo sei per i danni che si creano su un mercato libero, ovvero per i maggiori drogati che implica l' accesso facilitato alle sostanze. Il ragionamento è valido ma va completato: io mi prendo anche i meriti per la libertà che dò a quelle persone che si rovinano. Ora, facciamo il saldo, cosa vale una vita senza libertà?

Il Medioevo cristiano ha inventato anche il liberalismo

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giovedì 2 ottobre 2014

E’ concorrenza sleale quella del Comune che compila gratuitamente i bollettini TASI?

Le considerazioni che seguono sono scritte in patente conflitto d' interessi, inutile negarlo.
Tuttavia, ritengo che siano talmente cristalline da superare le giustificate remore del lettore. Inoltre, la giovanissima Rita ha girato il coltello nella piaga, e a questo punto non posso trattenermi.
Da ultimo, spero di esporre concetti sufficientemente contro-intuitivi da suscitare un qualche interesse.
tari
Giovanni va dal Giuseppe per compilare il suo bollettino TASI.
Paga la sua brava tassa: 100 euro.
Poi paga l' onorario di Giuseppe: 30 euro.
Ma non ha finito di pagare!
Deve pagare pro-quota anche l' impiegato comunale che compila gratuitamente il bollettino a Giacomo previa appuntamento. Giacomo ha ereditato – buon per lui - e la sua situazione non è immediata.
E' giusto che Giuseppe venga spremuto in questo modo?
Ammettiamo che la tassa sia giusta, quindi va pagata.
L' onorario a Giuseppe, dal canto suo, è giusto, la gente non lavora per divertimento.
Resta da capire se sia dovuto il pagamento all' impiegato comunale che compila gratis il bollettino a Giacomo.
Ho sentito molti sostenere che Giovanni avrebbe pagato comunque quell' impiegato.
Effettivamente, se l' alternativa alla compilazione del bollettino di Giacomo fosse stata per l’ impiegato quella di starsene con le mani in mano, allora ok.
Ma ammettiamo di vivere in un mondo in cui non si paga la gente per starsene con le mani in mano, ammettiamo che gli impiegati pubblici svolgano un servizio pubblico.
Qualcuno, a questo punto, potrebbe dire che anche compilando il bollettino di Giacomo l' impiegato svolge un servizio pubblico. 
Alla richiesta di spiegazioni, chi sostiene questa tesi di solito fa notare che anche per Giovanni, qualora volesse usufruire del servizio, le porte sarebbero aperte (e la coda pronta ad accoglierlo).
Un' affermazione del genere ci sta solo dicendo che il servizio è gratuito per tutti, mica che è pubblico. Grazie, ma questo lo sapevamo già.
Il fatto è che chi risponde in questo modo non ha capito bene cosa sia un “servizio pubblico”.
Un servizio non è pubblico per il fatto di essere gratis.
Se fosse così il Comune potrebbe anche fare i panettoni o le scarpe e regalarle in giro giustificandosi dicendo che svolge in questo bizzarro modo un servizio pubblico. Gli obiettori verrebbero liquidati invitandoli a raccattare un paio di scarpe e a tacere: ce n’ è per tutti! 
Evidentemente un servizio pubblico è altra cosa.
Un servizio è pubblico quando, per esempio, non  puo' essere fornito a Giacomo senza che ne benefici anche Giovanni.
In altri termini, un servizio è pubblico quando i beneficiari non sono "escludibili". 
La polizia non puo' (per la natura del suo servizio) tutelare Giovanni senza tutelare anche il concittadino Giacomo. Per contro, l' impiegato PUO' (per la natura del suo servizio) compilare il bollettino di Giovanni senza compilarlo a Giacomo. 
Ergo: il primo, quello della polizia, è un servizio pubblico, il secondo è un servizio privato.
La conseguenza è una sola: l' impiegato abbandona un servizio pubblico per dedicarsi ad un servizio privato. 
Visto che le cose stanno in questo modo, l’ impiegato (o il suo datore di lavoro) dovrebbe, come minimo, farsi pagare dal privato anziché dal pubblico (che comprende anche il povero Giovanni).
Il fatto che debba essere pagato pro-quota anche da Giovanni non sembra corretto.
Ma si giunge al paradosso se si considera che tra il pubblico rientra anche Giuseppe. 
Ebbene, Giuseppe non deve solo pagare pro-quota l' impiegato pubblico affinché fornisca un servizio privato a Giacomo. Deve anche subirne la concorrenza.
Una concorrenza che a questo punto dobbiamo chiamare "sleale".
Pensaci: già subire la concorrenza di chi – senza alcun merito in termini di efficienza - fa un prezzo pari a zero non è cosa da poco. Figuriamoci subire la concorrenza di chi, oltre a fare un prezzo uguale a zero, pretende da te di essere sussidiato nel produrre il danno che ti sta infliggendo.
E tu una roba del genere non vuoi nemmeno chiamarla "concorrenza sleale"?
Dài, almeno i cinesi delle borse Dolci&Gabanna non pretendono un contributo obbligatorio dai due stilisti. Si limitano ad un’ onesta concorrenza sleale senza eccedere troppo nell’ arroganza :-).
p.s. Naturalmente io non penso che al Comune queste cose non le sappiano, penso invece che debbano fare quel che fanno (ovvero garantire servizi privati gratuiti) per lusingare la massa votante, o per lo meno per evitare al sindaco e agli assessori la fine più naturale: il linciaggio per strada.



































mercoledì 1 ottobre 2014

Ordine naturale

Affrontando i temi della sessualità, la Chiesa Cattolica ricorre di continuo al concetto di “ordine naturale”, assume cioè che esistano delle “leggi morali naturali”. E qui purtroppo già comincia a perdere parte dell’ uditorio per cui “capire” è importante; in molti, infatti, cessano di seguirla su questo terreno poiché ritengono che “essere” (ordine naturale) e “dover essere” (legge morale) siano due realtà scollegate tra loro. E, in effetti, se tra “fatti” e “valori” ci fosse realmente uno iato, concetti quali quello di “legge morale naturale” risulterebbero oscuri.
Per la maggior parte delle persone la scienza ci dice come stanno le cose (“essere”) ma da cio’ non possiamo inferire le norme di comportamento morale (“dover essere”). Non esiste un nesso forte tra natura e morale, non esiste quel nesso sintetizzabile nell’ espressione “legge morale naturale”. Chi pone questo nesso, secondo i più, cade nella cosiddetta “fallacia naturalistica“.
In effetti, passare dall’ “essere” al “dover essere” è impresa ardua, non conosco tentativi di colmare il gap che siano andati a buon fine. Un giudizio di valore puo’ essere dedotto da premesse sono meramente descrittive. Faccio un esempio: se “il comunismo produce miseria e schiavitù”, non posso concludere che “il comunismo è un male”; devo aggiungere una premessa valoriale: “schiavitù e miseria sono un male”.
Inoltre, il comando etico non puo’ richiederci l’ impossibile; non puo’ cioè pretendere che le persone facciano cio’ che la natura impedisce loro di fare, questo è riconosciuto pacificamente da tutti; tuttavia, qui si parla d’ altro, e la cosa è resa chiara dal fatto che chi stigmatizza certe condotte definendole “innaturali”, lo fa proprio assumendo che chi le persegue puo’ adottarle e spesso lo fa. Nella diatriba sulla “fallacia naturalistica” il tema del comportamento impossibile non si pone.
Paradossalmente, chi recupera in modo inaspettato le posizioni tipiche della “morale naturale” è certo scientismo dedito a forgiare una “neuro-etica” fondata nella fisiologia dell’ essere umano: i nostri doveri sarebbero in qualche modo iscritti nel nostro cervello.
Di sicuro l’ alleanza tra Chiesa e scientismo su questo punto – come su qualsiasi punto – è problematica, devono allora necessariamente esistere vie alternative e più promettenti per difendere razionalmente il modello “naturalista” tanto caro alla Chiesa.
Quando un cattolico parla di “diritti naturali” ha in mente un concetto di “natura” ben diverso da quello che ha in mente lo scientista. Una regola, per il cattolico, è “naturale” se precede le regole “convenzionali”, ovvero le regole frutto di un accordo tra persone. E allora la questione diventa: possono esistere regole giuridiche di tal fatta?
Facciamo un esperimento mentale: ammettiamo che una qualche forza divina vi nomini giudici e conduca al vostro scranno Caino, colpevole di aver ucciso per invidia il povero Abele. Quale sarà la vostra sentenza una volta esposti i fatti in conformità al dettato biblico? Ci sono tre alternative: 1) potreste dire che Caino è giuridicamente innocente visto che il suo presunto crimine non è affatto un crimine poiché è stato commesso su un territorio in cui non vigeva alcuna sovranità convenzionale e senza “convenzioni a priori” non possono esserci regole da rispettare; 2) potreste invece condannarlo a dire tre Ave Marie visto che, per quanto detto al punto precedente, se mai Caino fosse “colpevole” lo sarebbe solo in senso morale e non giuridico; 3) potreste invece condannarlo ad una pena equa (reclusione o morte, questo è altro discorso).
Mi sembra abbastanza scontato che l’ uomo ragionevole scelga la terza opzione. Ma questo significa ammettere che esistano dei “diritti” che anticipano le “convenzioni” e quindi le sovranità ufficiali. Questa esistenza puo’ essere facilmente intuita grazie alle nostre facoltà razionali. Noi possiamo, oltre a intuire l’ esistenza di tali diritti, possiamo giusto abbozzarne il contenuto, difficile spingersi oltre. Possiamo condannare caino sulla base di queste affidabili intuizioni ma già quando si tratta di stabilire la pena i dubbi cominciano a presentarsi e le nostre intuizioni non ci aiutano più molto. In conclusione: l’ uomo razionale riconosce l’ esistenza di un diritto naturale di massima ed è in grado anche di abbozzarne il contenuto, purtroppo, quando deve affinare la sua conoscenza, la sua intuizione incontra difficoltà insormontabili e cominciano inevitabili disaccordi. 
L’ intuizione è dunque lo strumento attraverso cui è possibile verificare l’ esistenza di un diritto naturale e anche abbozzarne il contenuto. Ma come procedere oltre? A cosa affidarsi una volta che l’ intuizione cessa di aiutarci? Non resta che affidarsi alla “convenzione”? Forse no. Forse il concetto di “diritto naturale” puo’ essere sensato anche per l’ uomo razionale che intende spingersi oltre la soglia dell’ intuizione. Nei paragrafi che seguono segnalo una via che a me personalmente è sempre parsa promettente.
In passato mi sono già imbattuto nella diatriba tra “naturalisti” e “positivisti” (o “convenzionalisti”). Lo scontro esemplare l’ ho incontrato nelle materie giuridiche laddove vigeva l’ opposizione tra “diritti naturali” e “diritti positivi”.
Ci si chiedeva se potessero mai esistere dei “diritti naturali”. I “positivisti” lo negavano poiché secondo loro l’ esistenza di un diritto che potesse dirsi tale è sempre il frutto di un intervento umano. Il diritto esiste perché esiste un legislatore che lo impone come comando. Il diritto è il parto di un’ intelligenza umana, fa parte di un corpo organico di comandi che realizza il cosiddetto ordinamento giuridico. Senza un Legislatore non puo’ esistere un Diritto; per gli stessi motivi non esiste diritto finché non esiste un Legislatore. Non esiste cioè un diritto che anticipi la figura del legislatore.
Ascoltando l’ altra campana, quella a difesa dei “diritti naturali”, l’ ho travata più intonata: il diritto nasce anche a prescindere dalla presenza di governanti visto che puo’ emergere naturalmente nell’ interazione spontanea tra individui. Cosa sono quelle consuetudini che si stabilizzano nel tempo e piano piano si trasformano in diritto codificato se non “diritto naturale”? Compito del governante, quindi, non è “creare” il diritto ma “cercarlo” e portarlo alla luce. Il diritto spesso pre-esiste al legislatore, possiamo teorizzare coerentemente qualcosa del genere e possiamo riscontrarla nella storia dei popoli.
Il diritto naturale è frutto di un’ “emersione“, il diritto positivo è frutto di una “delibera“. Il diritto naturale è spontaneo (non intenzionale), il diritto positivo è artificioso (richiede un’ intenzione).
Nei paesi anglosassoni vige il cosiddetto diritto di common law, ovvero un diritto naturale che si è formato proprio nei modi descritti. Non solo dunque il diritto naturale è rintracciabile, ma, vista l’ opera di “colonizzazione giuridica” dei paesi anglosassoni, possiamo azzardarci a dire che si tratta di un diritto che fa sentire la sua voce anche nella modernità.
Ebbene, quando la teoria è tanto chiara e l’ esemplificazione pratica tanto vasta, non vedo cosa osti ad accettare il fatto che i “diritti naturali” esistono eccome.
Probabilmente oggi nessuna società avanzata conferisce un ruolo centrale alle consuetudini, almeno come fonte del diritto. Nonostante questo ci si divide ancora su cosa sia tenuto a fare il buon legislatore. E’ preferibile il legislatore che “cerca”, “scopre” e “codifica” quanto ha scoperto o il legislatore che “crea” progettando in modo coerente? Questa è ancora oggi una domanda tremendamente sensata e a seconda che si risponda in un modo piuttosto che in un altro si prende posizione nella querelle tra giusnaturalisti e positivisti..
E’ chiaro che se ha ancora senso il concetto di “diritto naturale”, ha senso anche il concetto di “dovere naturale”. Ecco allora dimostrato che la ragione laica non puo’ ripudiare a priori l’ insegnamento della Chiesa Cattolica solo perché nei suoi testi fa appello ad un “ordine naturale dei diritti e dei doveri”.
Dicevamo che il concetto di ordine naturale interpretato razionalmente è caratterizzato nella sua essenza dal fatto di emergere dal basso. Un ordine è naturale, lo abbiamo visto, quando si realizza spontaneamente nella libera interazione tra i soggetti. In questo senso è sommamente impersonale, è una conseguenza non intenzionale dei singoli comportamenti ed è quindi estraneo ad ogni progetto umano concepito dall’ alto. Non a caso, nei paesi anglosassoni, si parla di “rule of law“: la potenza della regola è tale che anticipa l’ esistenza del legislatore e si impone anche ad esso disciplinandone l’ azione. Le regole vengono prima delle delibere.
Si capisce allora come mai, nella storia del diritto, gli innamorati dell’ “ordine naturale” abbiano  un particolare rispetto per le tradizioni, esse sono il frutto di un’ emersione complessa che nessun calcolo condotto a tavolino potrebbe replicare qui ed ora, esse sintetizzano gusti ed esigenze, esse radunano la miriade di informazioni presenti in una miriade di cervelli e lo fanno in un modo che nemmeno un moderno computer potrebbe gestire. Ma oltre alla tradizione, i cultori del diritto naturale si sono sempre preoccupati di proteggere un contesto propizio all’ “emersione” delle informazioni, un contesto che favorisca la libera e spontanea interazione tra gli agenti. Senza questo prezioso oracolo sarebbe ardua una conoscenza accurata dell’ ordine naturale.
Inoltre, l’ “ordine naturale” puo’ e deve mutare seguendo il suo… “corso naturale“. Una consuetudine, per quanto radicata, non sarà mai destinata a durare in eterno. Una tradizione, nel momento in cui si fossilizza, nuoce al vivere comune anziché arricchirlo. Ma affinché i mutamenti siano correttamente indirizzati e seguano il loro “corso naturale”, occorre anche qui proteggere un contesto favorevole alla sua “emersione naturale” dal basso.
Possiamo fare un esempio che riguarda la sessualità. La cosiddetta “famiglia tradizionale” probabilmente è un’ istituzione recente. L’ uomo cacciatore era organizzato in modo diverso, più promiscuo: così come metteva in comune le risorse, metteva in qualche modo in comune anche mogli e prole. Si capisce, se le risorse vanno a tutti in pari misura è meno urgente sapere con esattezza chi sono le proprie mogli e i propri figli. Su mio figlio, chiunque sia, sarà investito sempre il medesimo quantitativo di risorse. L’ importante è avere più figli che si puo’, e infatti non mancava una gerarchia intra-clan, così come è importante difendersi al meglio dai clan rivali, magari stuprando le donne delle tribù sconfitte. Con la rivoluzione agricola e la necessità di investire a lungo termine gli uomini cominciano a differenziarsi, emerge “naturalmente” la proprietà privata e, come corollario ad essa, la famiglia tradizionale.
La “famiglia naturale (o tradizionale)”, allora, non è tale perché esiste dalla notte dei tempi. E’ tale solo perché così ce l’ ha consegnata il “corso naturale” degli eventi. Se una forza misteriosa avesse bloccato dall’ alto l’ organizzazione tipica dell’ uomo cacciatore, l’ avvento della “famiglia tradizionale” sarebbe stato ritardato se non impedito.
Ecco allora cosa differenzia le “legge positiva” dalla “legge naturale”: la prima è posta dall’ alto, da un’ intelligenza, da un governante che sovraintende alle relazioni umane. La seconda emerge dal basso grazie ai comportamenti spontanei e consuetudinari degli uomini che formano la comunità. Il governante si limita ascoprirla e a codificarla.
La legge naturale implica un procedimento di scoperta, il governante deve favorire l’ ambiente più propizio al fine che le “leggi naturali” della società segnalino nel modo più chiaro possibile la loro presenza. Chi blocca dall’ alto il fermento sociale fissandolo una volta per tutte con obblighi e proibizioni soffocanti, non puo’ dirsi un adepto della “legge naturale”.
Da quanto detto, traggo ora una prima conclusione: l’ “ordine naturale” razionalmente inteso valorizza la libertà di azione e di scelta degli agenti sociali, per questo mi risulta difficile pensare che un sistema di proibizioni possa mai essere seriamente giustificato in nome dell’ “ordine naturale”. Se un’ istituzione non è conforme all’ ordine naturale, deperirà e si estinguerà di per sé, non esiste alcuna urgenza di proibirla, mentre esiste il chiaro pericolo che una proibizione intempestiva impedisca all’ “ordine naturale” e al “corso naturale” degli eventi di emergere in modo evidente. La proibizione è invece essenziale per chi intenda realizzare un progetto umano vincendo l’opposizione altrui, e penso quindi al “positivista”, che non a caso si oppone strenuamente al concetto di “ordine naturale”.
Ma torniamo alla Chiesa Cattolica. Naturalmente la Chiesa Cattolica potrebbe sostenere che la “legge morale naturale” di cui parla è oggetto di una Rivelazione speciale di cui lei è depositaria, cosicché noi non dobbiamo “scoprire” alcunché con la nostra ragione di uomini, dobbiamo solo ascoltare le parole della Rivelazione così come ci vengono trasmesse nel suo Magistero. A questo punto, chiuso ogni discorso, non ci resterebbe che una Santa Obbedienza.
E in parte, bisogna ammetterlo, la Chiesa Cattolica dice proprio questo.
Fortunatamente, questo non è il messaggio completo che giunge al fedele. Per la parte restante, quella in cui è chiamata ad intervenire la ragione umana, vale ancora quello di cui abbiamo discusso più sopra.