lunedì 22 giugno 2015

Una teoria del cazzeggio

L'uomo, come  molte altre specie animali, dedica molto tempo al gioco, ovvero ad un'attività in cui, in un ambiente sicuro, impara a muoversi nel rispetto di regole date. E’ un allenamento quanto mai prezioso per affrontare preparati la vita adulta, ovvero quella che si svolgerà all’esterno del “recinto sicuro”.
Ora, si può giocare a scacchi, a nascondino ma si può anche “giocare a parlare", ovvero a cazzeggiare.
Il cazzeggiatore dimostra di dominare le regole del linguaggio e per lo più a questo fine si cimenta su tematiche poco serie.
Tuttavia, capita spesso - spessissimo - che eserciti le sue abilità acrobatiche su argomenti seri, e qui la funzione del gioco cambia leggermente, in questi casi ci si allena a "violare" con classe una regola sociale prevalente.
Mi spiego meglio: cazzeggiando su argomenti "seri" si è autorizzati a dire cose che in un contesto serioso ci attirerebbero mille guai. In un certo senso si è sempre giustificati poichè possiamo sempre far passare per ottuso chi ci critica nel merito. Il critico, in questi casi, molto semplicemente “non capisce" l'aria di cazzeggio che pervade la conversazione in corso. Non c'arriva, è limitato, non è brillante (come noi cazzeggiatori).
L'abilità del cazzeggiatore consiste nel barcamenarsi tra i diversi livelli del linguaggio affinché l'opinione espressa sia sempre messo al riparo da ogni critica grazie alla produzione di un abile tono semiserio che pur facendo passare un messaggio squalifichi in anticipo ogni possibile obiezione. In questo modo puo' "partecipare al dibattito" restandone fuori.
L'umorismo è l'esito inevitabile del cazzeggio.
L'umorismo allena alla comunicazione indiretta, al messaggio obliquo, alla creazione di codici personali, alla creazione di un meta-linguaggio comprensibile solo agli “amici”. I “nemici”, quando intervengono nel merito per difendersi perché magari si sentono chiamati in causa, intervengono per definizione fuori luogo: dimostrano di non avere senso dell'umorismo.
nerd, per esempio, sono le classiche vittime degli umoristi: la  tendenza autistica conferisce loro un solo livello di comunicazione, un po’ come i robot, e ciò li rende facili prede di chi invece è abile nell'esprimersi su molteplici livelli.
Forse esagerando si puo' dire che l’umorismo è un residuo del dogmatismo passato. Se ieri chi criticava un dogma commetteva  peccato, oggi chi si attarda a criticare l'idea sottesa ad una "battuta" viene additato come “privo di senso dell'umorismo”, il che è la massima scomunica del nostro tempo. Cosicché nei talk show della TV capita spesso di vedere il povero politico beota di schieramento avverso a quello per cui simpatizza il conduttore costretto a primi piani col riso forzato mentre viene messo alla berlina dal “satiro” di turno ingaggiato dagli autori e fatto esibire a pochi metri da lui. In questa morra l'umorismo è sempre vincente e la capacità di infliggere danni asimmetrica.
Non voglio con questo dire che non esistano sedi dove “l’idea sottesa ad una battuta” non possa essere discussa apertamente e in modo serio, tuttavia il momento umoristico resta un limbo corazzato per definizione, impenetrabile ad ogni dissenso, monologante nella sua essenza. Proprio come i dogmi: criticarli si puo’, chi dice il contrario sbaglia, purché lo si faccia nelle sedi opportune. Per esempio nelle segrete stanze del Concistoro o dei tinelli di casa propria.
L'ipocrita è particolarmente simpatetico all'umorismo. E si capisce, il mondo della comunicazione polisemica, il mondo dalle mille uscite di sicurezza è l'acqua in cui nuota da sempre. Ed sono le stesse acque in cui si esercita l'umorista.
Nell’umorismo l’uomo si allena ed esibisce le sue potenzialità nel produrre ipocrisie (esercizio quanto mai fruttuoso allorché si tratterà di cavarsela nella "seria"). In entrambe le attività è preziosa la capacità di creare un linguaggio ellittico, multistrato, dove tutti i livelli si mescolino in modo apparentemente incongruo. Una matassa che solo gli adepti sanno sbrogliare. Dobbiamo saper tenere un discorso che in realtà sono più discorsi contemporanei con destinatari diversi.
Il riso è la palestra principale dove si allena l' Homo Hypocritus.
Siamo molto legati a chi ci fa ridere perchè sentiamo che con lui si apre un canale di comunicazione privilegiata fatta con un codice esclusivo, intimo. Con chi condivide il nostro senso dell’umorismo possiamo “cospirare” al sicuro. Vuoi far innamorare una donna? Falla ridere!
La buona fama del riso è recente, nella storia è sempre stato visto con sospetto dai moralisti; a partire da Aristotele per lo più lo si considerava prerogativa dell'arrogante, dello sprezzante, del superbo. Ridere in pubblico era esecrabile. Oggi invece viene invece  considerato un appannaggio del "simpatico". Perchè questa completa inversione di rotta? Forse oggi un bene come quello della "fiducia" è meno prezioso visto che lo garantisce dall’alto lo stato. L’umorismo, infatti, con le sue mille ambiguità, la sua mancanza di trasparenza, mette sempre a rischio la produzione comunitaria di fiducia reciproca.
Chiudo con il dato fondamentale delle ricerche sul riso: l'80% dei nostri sorrisi non si materializzano in contesti comici bensì in contesti socializzanti. Chi parla, per esempio, ride molto di più di chi ascolta (negli spettacoli comici avviene il contrario).  In sintesi: secondo Rod Martin il riso è in prima istanza una vocalizzazione socializzante (ricerca di complici) e non una reazione a situazioni comiche. Le donne ridono molto di più degli uomini (il 126% in più), si ritiene sia un segno di sottomissione; per contro gli uomini sono fonte di riso molto più delle donne, pensate solo a chi era il buffone della classe quando eravate al liceo.
P.S. Per approfondire rinvio alla tag "humor" del blog Overcoming Bias.
 P.S. Teorie alternative:
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=bjWnJGGQYro]

Ammetto di non aver mai sentito il fascino delle teorie filosofiche legate al riso – da Aristotele a Bergson –, semmai ho trovato più convincenti quelle antropologico-evoluzioniste testate per quanto possibile sul campo.

Dalla mia ricognizione sembra
 allora che l’ipotesi più accreditata leghi a doppio filo l’umorismo con l’ipocrisia, l’esoterismo e la capacità di evadere talune norme sociali restando impuniti.

Mi spiego meglio, a quanto pare l’uomo è un essere che gioca, anche con le parole: anzi, in età adulta gioca prevalentemente con le parole e i pensieri. Possedere qualità umoristiche richiede un dominio inusitato sul linguaggio, nonché una particolare competenza sulle espressioni ambivalenti e allusive. Si tratta di doti preziose che vengono sempre buone. Un esempio: parlare contemporaneamente a Tizio e a Caio facendo passare messaggi differenti ai due destinatari - magari il primo per rabbonire un “guardiano” e il secondo per allearsi con un complice - puo’ essere una grande risorsa: la capacità di controllare le sfumature linguistiche, il saper stabilire piani differenti di comunicazione gioca in questo compito un ruolo decisivo. E guarda caso parliamo di competenze particolarmente allenate dall’uomo brillante e di spirito. Insomma, lo humor è senz’altro una risorsa sociale - noi ridiamo molto di più in contesti sociali che in contesti comici, inoltre chi parla ride mediamente di più di chi ascolta – ma non per questo è per definizione sempre cosa buona: ci si fa complici condividendo un codice anche per compiere misfatti.

Non c'è da sorprendersi se in passato i severi moralisti non avevano un grande concetto della comicità, e lo credo bene: la difficile quanto essenziale produzione di fiducia richiedeva a tutti un parlar chiaro ai limiti della piattezza, le allusioni imprecisate dell’ "umorista" erano malviste. Oggi la fiducia è prodotta invece da uno stato centralizzato che arriva ovunque con i suoi tentacoli coercitivi, e non a caso in un contesto del genere le facoltà tipiche dell’umorista sono state sdoganate fino ad un’ammirazione sconfinata.

Si dirà: va bene indagare sull’origine delle facoltà umoristiche ma questo che ci dice dell’oggi? Qualche residuo di questa origine poco nobile ancora lo sperimentiamo in un uso improprio dell'umorismo che però viene molto naturale, preciso: l'umorismo allena alla comunicazione indiretta, al messaggio obliquo, alla creazione di codici personali, alla creazione di un meta-linguaggio comprensibile solo agli “amici”. I “nemici”, quando intervengono nel merito per difendersi perché magari si sentono chiamati in causa, intervengono per definizione fuori luogo: hanno la coda di paglia, dimostrano di “non avere senso dell'umorismo”, una vera e propria bolla di scomunica nella società contemporanea. La sfumatura umoristica/ironica, in altri termini, ti mette al riparo da ogni critica: affermi tra le righe il tuo messaggio e chi ha da ridire è a priori un ottuso privo della capacità di “cogliere” lo spirito.

A questo punto c’è sempre chi richiama una distinzione tra ironia e umorismo. E’ utile farla? Forse, ma secondo me no: i due fenomeni sono senz’altro differenti ma anche molto correlati tra loro, il più delle volte laddove c’è umorismo, prima o poi salta fuori l’ironia, puoi scommetterci. Chesterton, tanto per dire, è un grande umorista ma quante stoccate riserva agli atei? Infinite. Dire che il mondo si divide tra “credenti” e “creduloni” è una raffinata e dolorosa bacchettata ai suoi nemici atei e la dobbiamo proprio a quel genio che sta alle scaturigini del suo sempre godibile umorismo.

Ho scritto un casino! Scusa, ora passo alla lettura. Grazie del link sul "nichilismo estetico".