lunedì 18 dicembre 2017

Quinto passo: Dio è un modello (e ci insegna a vivere)

Quinto passo: Dio è un modello (e ci insegna a vivere)

Abbiamo visto che probabilmente esiste un Dio, che probabilmente coincide con il Dio cristiano e che è un Dio d’amore. Un Dio del genere probabilmente cistarà vicino facendosi uomo  e allevierà la nostra condizione. Ma noi cosa possiamo fare noi per lui?
Essenzialmente una cosa: per “risarcire” Dio dei nostri peccati siamo tenuti a vivere una vita perfetta.
Non ci riusciremo mai – e infatti Gesù l’ha fatto al nostro posto – tuttavia dobbiamo pagare il nostro debito per quanto possiamo, dobbiamo mostrare di fare quanto in nostro potere.
Come vivere una vita perfetta? Il primo problema èinformativo: dobbiamo sapere molte cose. Possiamo arrivare a comprendere cio’ che è dovuto, in fondo la morale di base è comune a tutti gli uomini dotati di ragione, ma ci sfugge necessariamente tutto cio’ che è lodevole.
Innanzitutto ci sono dei particolari insidiosi anche nella morale necessaria: uccidere è sbagliato. Ma uccidere un feto? E uccidere un agonizzante? La Rivelazione ci puo’ illuminare su particolari tanto insidiosi.
Detto questo è comunque logico chiederci: ma perché non basta pagare il “giusto”? Perché si rende necessario il “lodevole”? Perché insomma Dio ci impone degli obblighi ulteriori rispetto a quelli della morale di base?
Ci sono essenzialmente due motivi comprensibili dalla ragione umana: uno esistenziale e uno comunitario.
Motivo comunitario: condividere dei valori realizza un coordinamento. Se non vi fidate della dottrina cattolica consultate pure la teoria dei giochi.
Imponendo un giorno comune per la festa, per esempio, si coordinano le relazioni comunitarie.
Da quanto detto si scorge la natura politica della religione cristiana.
Per fare un parallelo: comprendiamo bene che ungoverno politico bandisca l’omicidio ma perché mai dovrebbe imporci di guidare tenendo la destra? Non ha nessun contenuto morale un comando del genere, eppure è imposto in modo coercitivo. La risposta in questo caso è evidente: per realizzare un coordinamento, ovvero la funzione primaria dei governi politici.
In questo senso bisogna ammettere che quando i cristiani non sono maggioranza nella comunità, e da quando la laicità si è fatta strada, viene in parte meno questo motivo “politico” legato al “lodevole”.
Ce n’è però un secondo, il cosiddetto motivo esistenziale: puntare in alto rende più soddisfacente la nostra vita. Il piacere dei sensi non è tutto, occorre che l’uomo si senta realizzato per vivere una vita appagante. Se non vi fidate della dottrina cattolica consultate pure la scienza psicologica.
Se l’impegno che ci viene richiesto domanda un investimento non banale in termini di energie personali, la nostra personalità fiorisce. Difficile sentirsi realizzati limitandosi a non uccidere il fratello, molto più facile esserlo aiutando lo sconosciuto o compiendo un gesto eroico.
Ogni buon genitore, d’altra parte, impone ai figli doveri che oltrepassano la comune morale. Fare l’elemosina in favore dei bambini africani non è un dovere in senso stretto ma il buon genitore abitua così il figlio alla magnanimità d’animo e a perseguire mete elevate che vanno al di là dello stretto indispensabile e danno un senso più compiuto alla propria esistenza…
Si noti che molte azioni di coordinamento sono pressoché arbitrarie: tenere la destra equivale a tenere la sinistra, cambia poco. Questa arbitrarietà fa sì che la ragione umana stenti ad individuarle. Anche per questo diventa decisivo che a fissare la regola sia una voce autorevole, in modo da realizzare “conoscenza comune”. In poche parole, si rende necessaria una rivelazione divina. Noi sappiamo che rubare è sbagliato ma non sappiamo il giorno in cui andare a messa o fare digiuno.
Questa esigenza di una voce autorevole è sentita sia dalla ragione che dalla religione storica. Nella religione cristiana, per esempio, Dio ha parlato all’uomo (si è rivelato) più volte.
Nel Credo si dice chiaramente che Dio si è rivelato all’uomo attraverso i Profeti.
Questa Rivelazione assume la sua pienezza con la vita di Gesù. Nell’insegnamento di Cristo e nell’ insegnamento della Chiesa di Cristo i doveri del buon cristiano si sono estesi a dismisura.
L’amore che ci ha insegnato Gesù va ben al di là dei dieci comandamenti. Con lui molti atti eroici diventano un dovere. La preghiere e l’adorazione devono essere continue. Alcuni obblighi, come quelli sessuali e famigliari non sembrano immediati ma sembrano piuttosto eccedere i doveri individuati dalla ragione: se l’adulterio appare a tutti come una scorrettezza, non è così per i rapporti pre-matrimoniali. E’ chiaro che il messaggio di Gesù non è solo strettamente etico ma comunitario: Gesù è il fondatore di una comunità armoniosa (la Chiesa).
L’ universalità del comando divino fa sì che molte situazioni speciali non saranno disciplinate al meglio. Per esempio: non TUTTI i precetti matrimoniali si attagliano a TUTTE le coppie. In alcuni casi il divorzio sarebbe la soluzione migliore.  Tuttavia, l’azione complessiva di questi comandi renderà la comunità più prospera.
Non si puo’ negare che sul punto da noi esaminato ci siano approcci differenti, in particolare se si confrontano cattolici e protestanti.
Lo standard morale dei cattolici è molto elevato (pensiamo solo al celibato dei preti), e richiede un contenuto di misericordia altrettanto elevato. Lo standard protestante è più basso e puo’ permettersi maggior rigore.
Poiché l’insegnamento più proficuo consiste nell’esempio, l’insegnamento divino ci viene impartito fornendoci un esempio vivente: Cristo.
L’esempio è ancora più necessario quando l’obbiettivo è quello di illustrare la perfezione, e non un semplice schemino dei doveri (come nel caso dei dieci comandamenti).
Ma ogni comunità ha i suoi costumi e le sue tradizioni, cosicché ogni insegnamento deve essere rimodulato in conformità a quei costumi e a quelle tradizioni. E’ a questo che serve una Chiesa, ovvero il corpo di Cristo che vive sempre nella contemporaneità del credente. La Chiesa reinterpreta continuamente la rivelazione divina mantenendo l’unità dell’insegnamento originario.
Questa considerazione razionale trova un riscontro nel Credo cristiano allorché si accenna ad un’ unica Chiesa Cattolica (universale) e Apostolica (discendente da Cristo).
Ma c’è un’altra funzione demandata alla Chiesa. Noi siamo deboli. A volte conosciamo cio’ che è giusto ma non riusciamo a realizzarlo. Per esempio, sappiamo che lo zainetto di marca non è necessario per nostro figlio, che è meglio investire altrove per lui e che è giusto respingere i suoi capricci; ma poi ci ritroviamo in un contesto in cui tutti hanno lo zainetto di marca e cediamo. Ecco, la Chiesa è anche un luogo di reciproco aiuto, una comunità dove si puo’ crescere al meglio sempre esposti agli esempi più elevati. Chi ha detto che per crescere non occorre un insegnante ma un villaggio?… La Chiesa è quel villaggio.
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Quarto passo: Dio è misericordioso (e si carica i nostri peccati)

Quarto passo: Dio è misericordioso (e si carica i nostri peccati)

Abbiamo visto che probabilmente esiste un Dio, che probabilmente coincide con il Dio cristiano e che è un Dio d’amoreUn Dio del genere probabilmente cistarà vicino facendosi uomo. Ma cosa farà peralleviare la nostra condizione?
Come reagisce Dio al peccato dell’uomo? Come reagisce nel vederlo combattere con i suoi limiti? Reagisce facendo il suo bene (ovviamente). Cerchiamo di sviscerare le implicazioni di quanto detto nei passi precedenti su questo tema.
Dio è misericordioso e perdona. Ma cos’è il perdono esattamente?
Il perdono annienta il male. Ora, c’è un male oggettivo e un male soggettivo. Solo il secondo è “colpevole” in senso stretto.
Se non ti pago per un’impossibilità sopravvenutacompio nei tuoi confronti un male ma non ricade su di me una colpa soggettiva.
Se invece non lo faccio perché spero tu ti sia dimenticato del mio debito, compio una mancanza colpevole in senso soggettivo.
La prima situazione comporta un danno oggettivo, questo non significa che la cosa passi in cavalleria. Di solito, in casi del genere, parliamo di “colpa oggettiva”.
Molti sono irritati dal ragionare in termini di “colpa” e “perdono”: non si sentono affatto alla stregua di “colpevoli” che devono risarcire, e nemmeno intuiscono la sensatezza della dottrina del “peccato originale”. Costoro dovrebbero ragionare meglio sul concetto di “colpa oggettiva”.
Comunque li capisco, ma questa irritazione non deve essere di ostacolo alla fede. Nei ragionamenti che qui conduco sul “peccato originale da risarcire” utilizzo la canonica terminologia fondata su “colpa” e “perdono” ma nulla osta a che questo doppio pilastro sia sostituito dalla diade più comprensibile di “limite” e “dono”. In altri termini: la dottrina del “peccato originale” puo’ essere compresa anche come dottrina del “limite originale”. Postulare che l’uomo sia una creatura limitata non dovrebbe irritare nessuno.
Il concetto di “limite” si avvicina molto a quello di“colpa oggettiva”, ovvero di “peccato originale”.
Sia il Dio che ci riscatta dalle nostre colpe che il Dio che ci innalza oltre i nostri limiti è un Dio buono. Chi preferisce la seconda immagine non avrà alcun problema a riconvertire tutto secondo quello schema.
Ma torniamo a noi.
La compensazione di una  mancanza – ora torno al gergo della colpa – ha quattro componenti:pentimento, scuse, risarcimento e penitenza.
Il perdono consiste nel trattare il colpevole (oggettivo o soggettivo) come se non avesse mai commesso la sua colpa.
Il perdono indebito, ovvero esercitato in mancanza di una delle quattro componenti, è a sua volta una mancanza di rispetto verso il peccatore poiché lo degrada implicitamente a bambino. Il perdono indebito attenta alla dignità dell’uomo. Il perdono indebito è un po’ come il dono consegnato a chi lo disprezza.
Tutti noi manchiamo verso Dio direttamente o indirettamente, è nella nostra natura. Nel primo caso lo trattiamo male non rendendogli merito, nel secondo maltrattiamo una delle sue creature. Nessuno di noi conduce una vita perfetta.
Analogia: se colpisco tuo figlio danneggio anche te ed è giusto che mi scusi anche con te.
A cio’ si aggiunge il peccato originale, ovveroun’eredità gravosa che ci mette in ogni caso nella condizione di non avere il diritto di accedere ad una condizione privilegiata rispetto a quella presente.
Il peccato originale ci rende colpevoli in modo “oggettivo”, e questa non è un’ ingiustizia, molto spesso registriamo ed accettiamo condizioni del genere come giuste. L’asse ereditario non è costituito solo da attività e nessuno lamenta questo fatto come “ingiusto”.
Se un ragazzo fuma come una ciminiera prima della pubertà, questo incide sui suoi geni in modo tale che aumenta il rischio di avere bambini obesi. E’ solo uno stupido esempio. Noi dobbiamo la vita ai nostri genitori, e se questa vita non è perfetta non riscontriamo in questo una grande ingiustizia, non è una vicenda in cui ha senso processare un colpevole perché colpevoli in senso soggettivo non ce ne sono. Ereditiamo il buono e il cattivo accettando tutto quel che viene di buon grado. Anche l’eredità materiale ci spetta solo se accettiamo i debito del de cuius.
Dio dunque è generoso e ci perdona facendosi carico dei nostri peccati e delle nostre colpe (oggettive e soggettive).
Ma come è possibile espiare un peccato per conto terzi?
Un’analogia spiega bene il ruolo di Gesù nelle nostre vite.
Supponiamo che dietro pagamento anticipato io mi impegni a pulire la tua casa. Supponiamo poi che abbia speso il compenso ricevuto ma omesso di fare il mio dovere a tempo debito. Ora che mi appresto ad eseguirlo mi capita un incidente che mi impedisce oggettivamente di rimediare al mio ritardo (ipotizzo un misto di colpe oggettive e soggettive). Tu t’incazzi. Giusto. Poi trovi un terzo che adempie gratuitamente ai miei doveri. Quali saranno i tuoi sentimenti nei miei confronti? Qualora io mi penta delle mie mancanze,  qualora io mi scusi, qualora io faccia tutto quanto è nelle mie possibilità per aiutare il terzo e qualora io gli renda onore per la sua generosa offerta, tu potresti anche perdonarmi. O no?
E’ dunque una situazione che l’intelletto umano comprende e trova ragionevole: un’aiuto gratuitoche innesca una sequela di comportamenti opportuni che potrà poi chiudersi con un perdono divino.
Ma quale forma prende il risarcimento che il Dio Figlio elargisce al Dio Padre?
In generale potremmo ritenere che si manifesti con il vivere una vita perfetta.
E’ di fatto qualcosa di molto vicino alla dottrina della redenzione esposta sia nell’ Epistola agli Ebrei di San Paolo che nel Nuovo Testamento, ma anche da San Tommaso.
Il Credo parla di un Battesimo per il perdono dei nostri peccati. Con il Battesimo noi ci incardiniamo su quella via che – grazie all’azione della Grazia – ci porterà al superamento dei nostri limiti naturali (il cristiano, con San Paolo, direbbe: “al perdono delle nostre colpe attraverso la Croce”).
All’uomo non resta che pentirsi, scusarsi e fare penitenza, e per quanto gli è possibile dovrà ancherisarcire il suo Salvatore, magari con la stessa moneta con cui è stato riscattato: ovvero vivendo una vita il più possibile ad imitazione di Cristo. Così facendo il cerchio si chiuderà con un perdono ed una chiamata in Paradiso dell’ ex-colpevole (o ex-limitato).
Se parliamo di “misericordia” è proprio perché – pur in presenza di scuse, pentimento e risarcimento conto terzi –  il risarcimento fornito in prima persona è necessariamente insufficiente, cosicché per parificare la bilancia della Giustizia occorre un atto di Misericordia. Tuttavia, come appena visto, si tratta di una misericordia perfettamente sensata, che non ha nulla di scandaloso.
Da notare, quindi, che questo processo di perdono non è un atto dovuto poiché non coincide con un dovere obbligatorio da parte di Dio. In esso si esplicita invece la sua santità, ovvero la sua inclinazione a compiere tutto il bene, anche quello non strettamente dovuto, qualcosa che abbiamo già visto per giustificare la creazione dell’universo. Lamisericordia divina, insomma, è un atto eroico anche se facilmente comprensibile dall’intelletto umano.
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Ha ah ah…

Ha ah ah…

Sono convinto che la maggior parte degli illustri filosofi che ha scritto trattati sul riso e sul comico non ha mai visto un bambino ridere
Max Eastman
L’uomo è proprio una bestia strana, ogni tanto erutta una sequela di asmatici singulti ritmici e di grugniti sincopati volti a segnalare un picco di piacere. Contorce poi in modo spasmodico la sua faccia deformandola e ansimando quasi fosse in preda all’ angoscia.
Non è angosciato. Sta ridendo.
Il riso è in lui un comportamento innato e inconsapevole.
Impariamo a ridere ben prima di imparare a parlare o a cantare.
In tutte le culture il riso si presenta con modalità molto simili e le “traduzioni” non servono.
Il riso è un atto involontario: il cervello si mette in azione da solo. Un po’ come il respirare.
Anche se lo pratichiamo di continuo, qualsiasi sia la funzione del riso noi non la conosciamo intuitivamente, dobbiamostudiarla.
In questo senso le speculazioni abbondano: Platone, Aristotele, Cartesio, Darwin… tutti hanno detto la loro.Sbagliando!
Molti – specie gli antichi – hanno creduto alla teoria della superiorità: il riso come forma di derisione dall’alto in basso. Un modo per sentirsi superiori.
E il solletico?
E come si spiega poi che noi non ridiamo affatto quando incontriamo chi ci chiede l’elemosina?
Per Freud ridiamo per scaricare una tensione nervosa che si accumula nel cervello. Ma l’energia nervosa di cui parla Freud non sembra esistere. Nel nostro cervello non esistono processi “idraulici”. Taluni ormoni, per esempio il cortisolo, potrebbero essere un equivalente a cio’ che un tempo si chiamava “energia nervosa”, sia come sia le risate non dissipano affatto queste presenze.
Per Kant e Schopenhauer ridiamo quando le nostre attese sono violate. Ma perché dovremmo produrre suoni? Perché poi la risata è utilizzata socialmente?
Robert Provine è forse lo studioso contemporaneo che è andato più a fondo del problema.
E’ partito da alcune osservazioni empiriche.
Primo, noi ridiamo in compagnia, quasi mai da soli. E’ il motivo per cui alla TV le risate sono preregistrate.
Secondo, la risata è una vocalizzazione, un suono. In questo senso è una forma di comunicazione.
Terzo, chi parla ride molto di più di chi ascolta (50% in più). Si tratta quindi di una forma di comunicazione attiva.
Da queste semplici osservazioni ne ricaviamo che il riso non sembra affatto una reazione psicologica, bensì un messaggio.
La mamma tocca il suo bambino che sorride. Lo tocca ancora e lui ride sempre di più. Tra i due si è instaurata una comunicazione. Con un estraneo le cose sarebbero andate diversamente.
Anche altri animali ridono: tutte le grandi scimmie, per esempio. Più le specie sono geneticamente simili, più le loro risa si presentano simili.
***
La risata segna i confini tra gioco e serietà. Questo è quanto ci dice la scienza oggi.
Se rido e poi faccio una faccia terribile, il bambino riderà. Ma senza la risata inaugurale la reazione sarebbe stata ben diversa.
Riso e gioco sono inseparabili.
Il gioco ci serve ad esplorare il mondo, e la risata segnala che siamo in questa fase.
Il gioco è un’attività senza scopo (diretto), un’oasi che il riso contrassegna e presidia.
Noi giochiamo anche da soli ma ridiamo solo in presenza degli altri, poiché solo in questo caso dobbiamo comunicare la nostra volontà di giocare.
Nelle altre specie la risata è sostituita da altri comportamenti: il cane tende le zampe anteriori in modo parallelo alzando il didietro. Alcune scimmie spalancano la bocca in modo scomposto, altri animali si agitano compiendo movimenti esagerati e non necessari.
Noi sorridiamo, ridiamo, ci agitiamo in modo scomposto, facciamo facce, emettiamo versi acuti.
A volte ridiamo per avvisare: il bambino colpisce il suo pari e poi ride.
A volte ridiamo per rassicurarci: se un bimbo ci colpisce ridiamo per capire se lo fa per gioco.
Quando il confine del gioco è certo ridiamo meno: non si ride giocando a Monopoli o ad altri giochi da tavolo con regole chiare.
C’è risata solo quando c’è un qualche pericolo: un doppio senso fa ridere se è su una materia delicata, per esempio il sesso.
Il cattivo umorismo spesso si caratterizza per essere “troppo” innocuo.
La prima volta che ho sparato con il fucile il rinculo è stato tremendo. Ho reagito ridendo un po’ istericamente. Sono cresciuto in una cultura dove non si spara, dove pensare alle armi induceva pensieri di morte e di tragedia. Forse con la mia risata volevo scacciare i demoni e dire  “tutto bene, tutto tranquillo”.
Se vostra mamma inciampa e cade a terra, lei sarà la prima a ridere. Non potete essere voi a farlo per primi – anche se vi rendete conto subito che è illesa – poiché far scadere a gioco una realtà che potrebbe essere seria non vi verrebbe perdonato.
Gli umoristi sono dei virtuosi del riso. E’ un po’ come se si sfidassero ad indurlo legandosi le mani con dei vincoli ben precisi.
Innanzitutto, si avvalgono di astrazioni come le parole o le immagini, non vi faranno mai il solletico!
In secondo luogo, emetteranno pochi segnali espliciti: per esempio non rideranno mai.
Il riso, avendo una funzione sociale, è contagioso: a risata corrisponde risata in segno di intesa. Ebbene, l’umorista non userà mai il trucchetto del contagio per indurre al riso.
L’umorista crea un mood, una connessione particolare con il suo pubblico. La connessione punta alla serietà per virare senza preavviso verso la comicità.
Segnare il confine tra gioco e serietà in modo “invisibile” è un virtuosismo in cui gli umoristi sono maestri. Per questo l’umorismo varia da cultura a cultura, perché si avvale di sfumature.
***
Ma l’ironia ha un suo lato oscuro.
La risata è un atto involontario, e questo ci rende “trasparenti”. In un certo senso abbiamo ragione di temerla.
Inoltre, se uno non studia la scienza della risata non ha ben chiare le funzioni del riso. Ma questa ignoranza, abbinata con l’involontarietà del gesto, puo’ essere strategica nelle relazioni sociali.
Le risate che facciamo consentono agli altri di investigare su di noi, sui nostri valori, sulle nostre relazioni sociali. Ma spesso noi non vogliamo affatto essere “investigati”. In questo senso la risata è nemica della privacy.
Innanzitutto il riso ci dice che considerazione abbiamo di talune  norme sociali.
I ragazzi ridono molto mentre prendono in giro una vittima. Da adulti si diventa più moderati e attenti a non violare le convenzioni. Alcune goffe violazioni ci esporrebbero a forme di ritorsione. Possiamo andare incontro a disapprovazione, censura e boicottaggio.
D’altronde, come dicevamo, l’ironia senza pericolo ha poco senso. Questo perché l’ironia serve ad “esplorare”. L’equilibrio è sottile e bisogna tener presente anche il lato oscuro.
I bambini ridono molto della cacca e dei peti, questo perché intuiscono che la materia è delicata e va indagata, sebbene con le dovute precauzioni.
Ma il concetto è generale: la situazione di pericolo è essenziale per produrre un effetto comico. L’ironia ci consente di parlarne potendo ritirarci in qualsiasi istante.
Esempio:
Io: come lo chiameresti un nero che guida un aereo?
Tu: … non lo so…
Io: Pilota! Che cosa pensavi, razzista!
Essere razzisti è socialmente proibito, ma esserlo in modo sottile ed ironico diventa accettabile.
Il confine è labile poiché non tutti condividiamo le medesime norme sociali, come sanno quelli di Charlie Hebdo. Tuttavia, pericolo e ironia sono inscindibili.
Se noi ridiamo di qualcosa, non abbiamo una grande considerazione di quella cosa, e questa potrebbe essere un’informazione sensibile da non far trapelare. Ma poiché 1) la risata è involontaria e 2) non sappiamo bene cosa segnala, le nostre difese diventano più vulnerabili.
Ridere è un po’ come mettersi a nudo. Ridendo, il nostro cervello rivela a tutti i nostri sentimenti più intimi.
Esplorare o preservare la nostra privacy? Privilegiare i benefici o il lato oscuro dell’ironia?
Ridere rivela anche una certa distanza psicologica dal soggetto del nostro riso.
Un incidente puo’ farci ridere, a patto non ci freghi nulla di chi lo subisce.
Mel Brooks diceva che la tragedia si realizza quando mi taglio il dito, la comicità quando tu cadi nel canale di scolo e crepi.
In una puntata di South Park ci si chiedeva quanto tempo dovesse ancora passare per fare battute sull’ AIDS. la distanza rilevante è anche temporale. La commedia è tragedia + tempo, diceva qualcuno.
Sul web c’è il sito dei Darwin Award che documenta le morti più stupide. Le vittime sono, e non potrebbero che essere, perfetti sconosciuti.
Si scherza amabilmente sugli stupri carcerari: “quando fai la doccia occhio se cade il sapone!”. Ovviamente lo fa solo chi è molto distante da quelle realtà.
Segnalare la propria distanza psicologica puo’ essere pericoloso, puo’ escluderci dalla compagnia. L’involontarietà della risata ci espone anche a questo ulteriore pericolo.
***
Ridere è essenzialmente pericoloso, ma non potrebbe essere altrimenti. Il riso ci serve per calibrare i vari confini sociali. Si tratta di un atto delicato che comporta continue correzioni, e solo i messaggi ironici sono correggibili.
Pensate solo alla vostra educazione sessuale. In genere vi è stata impartita dai vostri amici – o dagli adulti – a suon di battute. Perché? Perché si tratta di argomento pericoloso.
La funzione esploratoria dell’ironia puo’ essere estremamente fruttuosa, e non esiste strumento più appropriato.
Su certi argomenti il linguaggio canonico è troppo preciso, troppo perentorio, ci inchioda al già detto. In questi casi soccorre l’ironia, con la sua vaghezza, i suoi doppi sensi, la sua ritrattabilità.
Se qualcuno si offende per una nostra uscita ironica possiamo sempre replicare: “ma dài, e ridi un po’…”. La maggior parte dei terzi sarà subito dalla nostra parte. Ne uscirete illesi e con molte informazioni in più.
Il rapporto tra verità e ironia è quindi duplice: da un lato, molto spesso, la verità puo’ essere comunicata solo avvalendosi del registro ironico. Dall’altro, l’ironia è onesta: si ride involontariamente. La risata forzata si smaschera facilmente. In risu veritas, diceva james Joyce.
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