giovedì 14 dicembre 2017

DEFINITIVO ESTETICA - 2 SAGGI. Approccio antropologico: L’istinto artistico - Approccio estetico: La funzione del critico.

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RIASSUNTINO

Arte e antropologia: con l'arte cerchiamo di impressionare gli altri in cerca di alleanze potenti. Sprechiamo per segnalare che possiamo permettercelo. L'arte è un effeto collaterale della competizione sessuale.

Arte per il filosofo estetico. L'arte è il luogo della bellezza. Con l'arte descriviamo l'indescrivibile- In questo senso la bellezza non è una proprietà degli oggetti (qualcosa di descrivibile) ma un'esperienza da fare. In questo senso sta negli occhi del fruitore e nella sua cultura. L'uomo che ama il bello è necessariamente "bello".

L’istinto artistico

L’uomo fa arte da sempre.
In Europa le prime pitture rintracciate sulle caverne risalgono a 30.000 anni fa.
Le prime incisioni rupestri africane almeno a 40.000 anni fa.
In Sudafrica i corpi umani venivano decorati con colori rosso e ocra già 100.000 anni fa.
Ma l’arte è anche un cosiddetto “universale” dell’uomo: tutte le culture umane del pianeta producono arte. Lo fanno ora e lo hanno sempre fatto.
Si dipinge, si scolpisce il legno, si acconciano i capelli, si tatuano i corpi, si decorano le abitazioni, si fa musica o poesia. Qualcosa si fa sempre e ovunque.
Vale la pena di capire di cosa stiamo parlandoquando parliamo d’arte.
Non sappiamo nemmeno bene se la capacità di produrlae sia un adattamento o uno scarto di altri adattamenti.
Che differenza c’è? L’essere bipedi, per esempio, è un adattamento. La capacità di leggere è invece uno scarto residuale (deriva come effetto collaterale della visione, dell’abilità linguistica e della capacità di manipolare strumenti).
Steven Pinker, per esempio, ha sostenuto che l’arte è uno scarto: non serve a niente di utile per la sopravvivenza.
Ma l’arte è universale, e poi è anche “costosa”. Evidentemente ha una funzione sua propria, forse non è proprio uno scarto.
In sintesi, l’arte è sia inutile che costosa (in termini di tempo ed energia). Il fatto che esista in modo tanto pervasivo richiede quindi una spiegazione non banale.
Cosa sia esattamente l’arte è una questione che lascerei da parte, Walter Gallie sostiene che si tratta di un concetto “essenzialmente contestato”. Qui do per assodato che esista e che la gente ne usufruisca.
L’unica lasca definizione che azzardo è quella di arte come “qualcosa di speciale” in grado di calamitare l’attenzione e il godimento dell’uomo.
Dicevamo che l’arte è essenzialmente inutile, unospreco.
Ma come puo’ la natura tollerare gli “sprechi”?
Non dovremmo migliorare le nostre difese contro l’attacco dei leoni anziché gingillarci scolpendo il legno?
Lo psicologo Geoffrey Miller ci avverte che, mentre la selezione naturale aborre lo spreco, laselezione sessuale lo esalta.
L’animale-uomo, come tutti gli altri animali, preferisce accoppiarsi con chi “”si puo’ permettere di sprecare il suo tempo”.
Il valore non risiede tanto nello spreco in sé, quanto nel segnale noto come “surplus di sopravvivenza”.Chi fa arte in un certo modo segnala un “surplus di sopravvivenza”.
Perché il pavone ha una coda così imponente e appariscente quando quella stessa coda segnala la sua presenza ai predatori e oltretutto lo intralcia quando fugge nel bosco?
Ma il pavone ha una coda simile proprio perché una coda simile lo mette in pericolo.
Sta dicendo alla pavoncella: “vivo nel pericolo eppure sono qui, evidentemente possiedo enormi doti di sopravvivenza, e le trasmetterò ai tuoi figli se sarai così gentile da accoppiarti con me”.
Gli evoluzionisti lo chiamano “principio dell’ handicap”. La produzione di bellezza, negli uccelli, deriva essenzialmente dall’esibizione maschile di un handicap per destare ammirazione e riconoscimento nella femmina.
La femmina, a sua volta, deve possedere la virtù del discernimento. Deve sapere, per esempio, che le splendide macchie blu sulla coda del pavone, depotenziano l’handicap qualora l’uccello viva in un bosco zeppo di fiori blu, questo perché anziché segnalarlo come preda lo mimetizzano. Le macchie rosse, invece, lo potenziano. Diciamo che le macchie rosse sono più belle di quelle blu.
Presso gli uomini le cose sembrano andare un po’ diversamente: l’arte non è un monopolio dei maschi, così come l’apprezzamento dell’arte non è un monopolio delle femmine.
Su altri punti l’analogia regge: anche noi siamo molto attenti nella scelta del partner e le energie investite per farsi scegliere o per scegliere correttamente non sono affatto sprecate.
Ma l’esibizionismo artistico degli uomini va ben oltre il corteggiamento, è un modo per impressionare l’altro in senso lato.
Un esibizionismo generico di buone attitudini: salute, energia, vigore, coordinamento, e molte altre doti che ricadono nei cosiddetti “indicatori di attitudine”.
Sherazad usa la sua arte del racconto per dilazionare la sua esecuzione, ed eventualmente scamparla. Spesso usiamo l’arte per intimidire i nostri avversari. Le gang urbane utilizzano i lorograffiti per marcare il territorio. Il comico utilizza il suo spirito per umiliare il disturbatore. Ci sono molte ragioni per cui impressionare l’altro giovi.
Disclaimer: non è importante che una persona sia conscia di usare l’arte in questo modo, l’unica cosa che conta è che l’arte funzioni se usata in questo modo.
Naturalmente quella di cui sto parlando è solo unafunzione dell’arte, ce ne sono anche altre.
Per esempio: l’arte è anche un modo per rappresentare la bellezza inducendo piacere in chi ne fruisce, oppure è un modo per esprimere i propri sentimenti.
Diciamo che l’arte come esibizionismo è l’arte/animale mentre l’arte come rappresentazione della bellezza è l’arte/spirituale.
Le due funzioni non si escludono a vicenda, anzi,  tendono a mescolarsi ma possono essere distinte,tra poco vedremo come.
Sia come sia, l’istinto dell’arte risiede più nell’esibizione mentre la civiltà dell’arte risiede più nella rappresentazione/espressione.
Poniamo che Daniele ami l’arte con un approccio istintuale mentre Roberto privilegi un approccio civile. Daniele è sedotto dal lato animalesco dell’arte mentre Roberto da quello più spirituale.
Daniele e Roberto tenderanno ad apprezzare nell’opera cose differenti. Come individuarle?
L’opera ha proprietà intrinseche legate alla percezione diretta. In un quadro, per esempio, tutto quel che è visibile sulla tela (i colori, il disegno, la tessitura…) costituisce una proprietà intrinseca.
Ma l’opera possiede anche proprietà estrinseche, ovvero tutto cio’ che non percepiamo in modo diretto. Per esempio, la storia dell’artista, quante ore sono state necessarie per realizzare l’opera, se l’opera è un originale, il valore dei materiali utilizzati, gli strumenti impiegati…
Daniele tende ad interessarsi delle proprietà estrinseche mentre Roberto a quelle intrinseche.
Quando Daniele scopre che il pittore suo amicocopia pedestremente i quadri di cui si vanta, si mostra sorpreso (negativamente). A Roberto la cosa non interessa, i quadri che ha davanti dopo la “scoperta” sono esattamente quelli di prima.
Daniela sprezza lo scrittore accusato di plagio con prove schiacciati. Roberto è indifferente alla cosa, a lui interessa solo la bellezza, non la fonte.
E’ chiara allora l’analogia tra Daniele e la pavoncella: anche lei sarebbe estremamente interessata qualora scoprisse che la coda del suo corteggiatore fosse posticcia.
Nel mondo dell’arte/animale, nella concezione dell’arte come istinto, nella visione dell’arte-esibizionista le proprietà estrinseche sono importanti: l’arte è essenzialmente un atto dell’artista, una testimonianza delle sue doti, della sua tecnica, delle sue capacità.
Sono queste cose – per Daniele – a fare ladifferenza.
Se un lavoro è anche aderente allo standard ma troppo “facile” da realizzare (come un dipinto ricalcato da una foto), Daniele tende a svalutarlo, almeno in rapporto ad un lavoro simile realizzato in condizioni che richiedono una tecnica artistica molto più ostica da dominare.
Più o meno consciamente Daniele si chiede sempre quanto sia stato difficoltoso realizzare una certa opera, anche se questa domanda prescinde dalle proprietà intrinseche dell’opera.
Daniele non andrebbe mai a visitare un museo in cui sono esposte i poster dei grandi capolavori,Roberto lo farebbe con entusiasmo.
Ma Roberto è una persona talmente rara che musei del genere non esistono.
Un giorno Letizia – amica comune di Daniele e Roberto, nonché scultrice – invita i due a vedere la sua nuova opera nel suo atelier.
Quando entrano, sul piedistallo principale viene esibita una scultura dal materiale friabile, una presenza delicata, dalla forma avvolgente e sinuosa punteggiata da minuscoli spuntoni uniformemente distribuiti su tutti i profili e dai colori tenui che variano dal rosa all’arancio, e il cui viluppo la fa somigliare  ad una conchiglia.
Bella, dice Daniele, sembra una creatura marina, mi richiama il mondo esoterico delle conchiglie.
Ma infatti è una semplice conchiglia, dice candidamente Letizia, l’ho raccolta Domenica aVarazze quando sono stata giù con Gino, le ho dato giusto una spolverata per togliere i residui di sabbia.
L’ammirazione di Daniele cala, quella di Roberto no. Roberto rimane estasiato e chiede di andare subito a Varazze.
E’ normale che sia così: a Daniele interessa molto la produzione dell’opera, esattamente come alla pavoncella.
La sua è una concezione animalesca dell’arte, non spirituale. Intende andare oltre la semplice percezione.
In Daniele risuona il nostro istinto per l’arte, in Roberto – ancora fisso a rimirare la conchiglia – l’istinto è stato soppiantato dalla civiltà dell’arte.
Daniele apprezza l’originale, non ama l’arte industriale, l’arte troppo derivativa. Usa l’arte per valutare l’artista più che per trarne un piacere estetico. A Daniele piace quel pittore, quel musicista, quello scultore. E’ un fan degli artisti più che dell’arte. Per lui la firma conta.
Per Daniele dall’opera deve emergere l’abilità, la tecnica, le doti dell’artista.
Gli artisti sanno che molto del loro pubblico è costituito da Daniele e dai suoi simili, anche per questo utilizzano spesso tecniche difficili che lasciano tutto sommato inalterata la qualità percettiva dell’opera. Fanno qualcosa che gli altri non riuscirebbero a fare, per loro è importante. Per loro, come per Daniele, l’arte deve essere raraprima ancora che bella.
Daniele, per esempio, preferisce ascoltare la musica in sala di concerto. E’ un evento unico (raro). In camera sua sarebbe più a suo agio: suoni sparati direttamente nel cervello con un’acustica perfetta, zero tossicchiamenti, niente poltroncine scomode, niente vicini molesti, niente abbiocchi, solo esecuzioni iper-selezionate e perfette.
Ma per Daniele l’esperienza originale conta troppo per rinunciare al contatto diretto con l’artista.
Un disco, in teoria, lo puoi ascoltare e riascoltaremille volte, questo toglie la sensazione di unicità.
Ovviamente, quando si tratta di musica, Robertonon si muove da casa sua, non è mai andato ad un concerto. ha una collezione di dischi che ascolta e riascolta.
La persona più simile a Roberto che io conosca èGlenn Gould, un vero docetista. Un giorno si trovava in platea a godersi un magnifico Richard Strauss diretto da Herbert von Karajan… cedo a lui la parola: “… la musica era così bella che ho lasciato la poltrona per andare nell’attiguo studio di registrazione e ascoltarmela in cuffia…”.
Ma c’è un altra ragione per cui la performance dal vivo viene preferita: lì l’artista puo’ sbagliare. Lì si valutano le sue vere capacità.
Questa ragione sorprende Roberto al contrario: “perché mai dovrei ascoltarmi un’esecuzione conpossibili errori quando il disco mi garantisce esecuzioni perfette?”. Sarebbe da pazzi.
Il suo ragionamento non fa una piega, ma solo per chi adotta una visione convenzionale dell’arte.
Daniele, poi, non tollera quei cantanti che correggono ai sincronizzatori l’intonazione dei loro acuti. Alcuni addirittura prolungano certe note emesse dalla loro voce.
Roberto, al contrario, benedice i correttori digitali dell’intonazione. Essendo interessato alla bellezza li considera strumenti provvidenziali per ristabilire la perfezione.
Daniele ama i “generi”: dalla sonata al giallo, il genere obbliga l’artista a confrontarsi con deivincoli esaltandone la genialità delle soluzioni sempre nuove e sempre fresche.
Per Roberto i vincoli sono solo un fastidio:operare senza vincoli è molto più facile! perché mettersi da soli il bastone fra le ruote?
Daniele ama le sculture in marmo. Forse perché il marmo è un banco di prova cruciale: non ci si puo’ correggere, non si puo’ tornare indietro.
Roberto ama le sculture in plastica: la possibilità di correggere le imperfezioni non è la via più facile verso la perfezione? Come dargli torto?
Roberto non vede l’ora che i robot prendano il posto dei pianisti, in modo da ascoltare esecuzioni senza errori.
Daniele maledice quel giorno poiché consideral’imperfezione umana, a volte, come un surplus di bellezza.
Ma Daniele va oltre: per lui la presenza di robot in certi contesti è assurda, non ascolterà mai il concerto di un robot, se non per mera curiosità.
Da un lato ci riconosciamo in Daniele, dall’altro le reazioni di Roberto sono molto più lineari: non è che a Daniele interessa la gara tra pianisti? E che quindi la presenza di un robot sarebbe assurda?
Ma sì che è così: ricordiamoci che la pavoncella si accoppia con i pavoni, non con i pavoni-robot.
Spostiamo leggermente il nostro fuoco pur conservando però l’apparato concettuale fin qui elaborato: la teoria dell’arte come esibizione ha una potenza esplicativa che va oltre l’arte in senso stretto.
Un tempo, almeno in America, l’aragosta era un cibo tipicamente popolare, una specie di pasta e fagioli. Un decreto di stampo umanitario stabiliva addirittura che non poteva essere inflitto ai carcerati più di tre volte la settimana.
Con il passare degli anni l’aragosta si estinse fino a diventare un cibo raro e costoso.
Anche il nostro gusto sembra essersi estinto e rigenerato: oggi consideriamo il suo sapore estremamente raffinato.
Probabilmente Roberto non avrebbe mai cambiato i suoi gusti. Daniele sì: il cibo dei ricchi è necessariamente anche “buono” per chi da peso alle proprietà estrinseche.
Un tempo una pelle nivea era molto considerata: l’abbronzatura era tipica dei contadini che lavoravano nei campi.
Oggi apprezziamo di più i colori scuri, quelli tipici di chi puo’ permettersi vacanze eterne.
Il gusto di Daniele sulle pigmentazioni cutanee è mutato, quello di Roberto è rimasto fisso.
Un tempo, quando tutti gli oggetti erano fatti a mano, la perfezione tecnica era molto apprezzata poiché segnalava grande abilità artigianale.
Oggi la produzione industriale ci fa sembrare addirittura banali simmetria e precisione, ovvero quelle che una volta erano le stimmate della perfezione estetica.
Tutti questi cambi di paradigma estetico sono facilmente spiegabili se ci focalizziamo sulle proprietà estrinseche dell’oggetto. Quanto siano importanti lo si evince dal comportamento di Roberto – ovvero di chi si focalizza solo sulle proprietà intrinseche – che ci appare come un marziano.
Preferite un cucchiaio di argento fatto a mano o un cucchiaio di alluminio?
Il secondo è più leggero, ha forma perfetta e standard ineccepibili, anche il colore è più nitido e uniforme.  Roberto non ha dubbi nel preferirlo, così pure l’abitante dell’Amazzonia a cui viene sottoposta la scelta estetica. Eppure Daniele elegge l’argento. Dice che le sue imperfezioni sono comunque affascinanti… e poi tra argento e alluminio non c’è paragone.
Dopo l’avvento della fotografia i pittori non potevano più pensare di impressionare il prossimo con il loro realismo o il loro dominio sulle forme anatomiche.
Impressionismo, cubismo, espressionismo, astrattismo… sono tutti generi nati per fare i conti con questo semplice fatto.
L’autenticità ha via via preso il posto dellamaestria.
Se la perfezione diventa facile da ottenere perde valore.
Dietro “ogni” tradizionalista spesso si nasconde un “esibizionista” (ovvero un cultore dell’arte come esibizione “animalesca”): la cosa fatta a mano ci piace perché rinvia ad un’ abilità. La stessa cosa – magari dalle forme ancora più regolari – fatta con uno stampo industriale e con materiali vili, la disprezziamo.
In architettura c’era un movimento – il “brutalismo”, una forma di razionalismo estremo – che si dilettava con il cemento.
Gli edifici che ha lasciato dietro di sé sono oggi visti con orrore dal pubblico più semplice, tutto sembra così freddo e disumano.
Ma sono apprezzati dagli specialisti che sanno perfettamente quanto sia difficile lavorare con il cemento, ovvero con un materiale indomabile che non tollera la minima correzione.
Al pubblico interessa la bellezza, agli specialisti latecnica. Il pubblico ha un approccio spirituale, gli specialisti animale.
coltelli che abbiamo in casa sono oggetti perfetti: forme filanti, colori nitidi, profili curatissimi.
Roberto li ammira incantato.
Ma per Daniele – come per tutti noi – non sono arte. Perché?
La teoria dell’arte come esibizionismo lo spiega bene: l’arte deve essere spreco mentre i coltelli sono utili.
Ricordiamolo: solo lo spreco segnala il nostro “surplus di sopravvivenza”.
Dedicando tempo ed energia a cose inutili, l’artista/animale ci sta dicendo“posso permetterlo, le mie fantastiche doti di sopravvivenza mi consentono cose del genere”.
La differenza tra moda e abbigliamento lo spiega bene: i vestiti “servono”, certe mode assurde sono solo un lusso.
Il costume europeo è pieno di mode assurde: maniche larghissime che toccano il pavimento, parrucche alte mezzo metro, corpetti che strangolano…
E i tacchi? Ti impediscono di camminare e in più ti torturano i piedi. Eppure sono considerati “belli”.
Ora che conosciamo il principio dell’handicapsappiamo anche perché.
Il jeans è molto più pratico e resistente della seta. Forse proprio per questo ci sembra più brutto. Principio dell’handicap.
***
E per voi l’ arte cos’è? Esibizione o rappresentazione/espressione? Tecnica o bellezza’’? Animalità o spiritualità?
Siete più simili a Daniele o a Roberto?

************************SAGGIO SULL'ESTETICA

LA FUNZIONE DEL CRITICO


Per quanto ami molto la musica, non posto mai su questo argomento, giusto qualche ascolto Spotify o YouTube ma nulla nello specifico. Gli stessi siti che consulto e che in teoria dovrebbero occuparsi di musica, in realtà non lo fanno quasi mai, si limitano a ricordare i concerti, la biografia di qualche artista, le uscite discografiche e altri eventi che riguardano “il mondo della musica”. Tuttavia, questa reticenza ad entrare nel merito è giustificata dal fatto che la musica è indescrivibile e si occupa dell’indescrivibile. Ma questo non vale solo per la musica, bensì per l’arte in generale.


Volete toccarlo con mano questa impotenza? Provate, per esempio, a dire cosa rappresenta questa sedia ritratta da Van Gogh.

Sedie (Van Gogh) - Wikipedia

Di certo non rappresenta una sedia, altrimenti la fotografia di una sedia sarebbe una rappresentazione superiore. Non rappresenta nemmeno una generica visione del mondo, altrimenti Van Gogh l’avrebbe precisata con una didascalia comunicandola così in modo più efficace.


Dobbiamo concludere che rappresenta qualcosa di indescrivibile, qualcosa che non si puo’ tradurre in parole se non goffamente, cosicché è inutile perderci tempo.
Ma si puo’ andare oltre nel rendere l’incommensurabilità dell’arte. La musica, per esempio, è un linguaggio che utilizza i suoni. Ebbene, il suono stesso, ovvero il mattoncino con cui si costruiscono le case/canzoni e le cattedrali/sinfonie, non si puo’ né descrivere né tradurre. Certo, un musicologo potrebbe farvi entrare nell’universo delle note e un fisico potrebbe descrivere con precisione assoluta cos’è un suono parlando di onde sonore e frequenza, ma il suono che impiega la musica non ha nulla a che fare con quella descrizione, tanto è vero che una persona sorda potrebbe comprendere la descrizione fisica o musicologica e non avere ancora nessuna idea di cosa sia quel suono. Per capire cos’è un suono possiamo solo dire: “ascoltalo e capirai”. Nelle arti, l’esperienza è essenziale.


Se accettiamo queste premesse, dobbiamo escludere che la critica descriva l’opera nel dettaglio. In realtà alcuni critici lo fanno, e sono tra i più noiosi. Ma allora qual è la loro funzione?


Per capirlo, partiamo da un assunto: anche una persona che non capisce una certa musica potrebbe però capire chi la capisce. Ecco, frequentando chi capisce l’arte potremmo imparare a capirla anche noi, ma non perché ci verrebbe spiegata, no, sarebbe invece la compagnia umana degli “illuminati” a trasmettere la conoscenza. Entrare in una compagnia, accettare la cultura e la civiltà che produce quella compagnia ci avvicinerà alla comprensione. L’arte non si puo’ descrivere ma intorno ad un’opera si possono comunque intrattenere dei discorsi, ogni opera produce tensione verso un significato e chi ascolta è impegnato in uno sforzo immaginativo che, per usare una metafora, assomiglia a quello di chi cerca di dare un senso alla forma delle nuvole. Ora, chi ha visto solo capre, nelle nuvole vedrà solo forme caprine. Un critico colto e civile, per contro, attingendo alla sua esperienza, avrà molte cose interessanti da dirci su quelle opere che lo stimolano. Se poi il critico è anche una “bella persona” a tutto tondo, i suoi insegnamenti saranno ancora più preziosi e ci condurranno inevitabilmente a capire e amare l’opera condividendo i suoi valori culturali e civili. Alla fine scopriamo che l’opera d’arte non è un oggetto con certe proprietà, e neppure un linguaggio da interpretare ma un mondo da sperimentare in cui immergersi con l’aiuto di un Virgilio.


Il critico, insomma, cerca di creare comunità intorno all’opera, è la cosa più naturale del mondo. Se ascolto una musica che mi emoziona e percepisco che emoziona anche te, noi due entriamo in una sorta di esaltante comunione spirituale. La musica ha questo potere, è un cemento potente, crea coesione e vicinanza con la forza di un rito sacro. Non c’è comunità senza cultura e difficilmente c’è cultura senza il collante della bellezza. La via maestra per capire la bellezza di un’opera non è quella di affrontarla faccia a faccia ma quella di entrare nella comunità valoriale di cui quell’opera è il frutto.


L’appartenenza alla comunità forgia i nostri gusti, e parlando dell’indescrivibile il buon gusto è decisivo. Faccio un esempio che mi riguarda ma che non ha nulla a che vedere con l’arte sebbene abbia molto a che fare con i gusti. Da piccolo ho sempre odiato il caffé, nulla di speciale, è un sapore che non piace mai ai bambini. Più tardi, quando ho iniziato a lavorare facevo con i colleghi la cosiddetta “pausa caffé”. Anch’io lo prendevo, ma più che il caffé, che continuavo a “non capire”, mi interessava la pausa, la compagnia e le chiacchiere che si facevano insieme. Con il passare degli anni, non saprei neanche ricostruire i vari passaggi, ho sempre più apprezzato questi momenti e con essi, indirettamente, anche il caffé che sorseggiavo. E’ un po’ come se fossi entrato in una comunità che apprezzava il caffé e che, senza spiegarmi le qualità di questa bevanda, me l’ha fatta apprezzare di conseguenza. Era un nostro contrassegno e il suo aroma mi evocava sensazioni piacevoli. Ora sono arrivato a un punto che non riesco a stare senza caffé, per me è un vero piacere quotidiano, ma se mi chiedi cosa ci sia di tanto straordinario non saprei dirtelo, l’unica cosa che posso invitarti a fare è quella di unirti alla compagnia.


Non c’è arte senza civiltà, non c’è bellezza senza cultura, fosse anche la cultura del baretto e della birretta. Ecco, il critico, quello valido, è colui che intesse la civiltà dentro la quale il capolavoro sboccia. E’ colui che dobbiamo frequentare se non riusciamo a capire un’opera d’arte, ma non perché ce la spieghi, bensì perché la sua compagnia, negli anni, farà maturare in noi un certo buon gusto.


Se così stanno le cose, ci sono conseguenze anche per altri interrogativi classici intorno all’arte. Per esempio: esiste una bellezza oggettiva? Esiste nella misura in cui esistono culture e civiltà superiori ad altre. Esiste un legame tra moralità e bellezza? Sì, poiché una solida cultura non puo’ reggersi su persone immorali. L’artista è il soggetto privilegiato per comprendere i significati dell’opera? No, nella misura in cui non è l’artefice cosciente della cultura che dà senso a quell’opera. C’è dell’altro, ma mi fermo qui.

mercoledì 13 dicembre 2017

Là dove il mondo non finisce


Là dove il mondo non finisce


Se domani la civiltà dovesse collassare, vorrei stare in Svizzera.
Se domani i marziani dovessero invaderci, vorrei vivere in Svizzera.
Se domani dovesse esplodere un conflitto nuclearesu scala mondiale, io mi rifugio in Svizzera.
La minuscola Svizzera mi appare come il paese piùblindato contro ogni collasso sistematico.
Un piccolo esempio: c’è una fontana sorgiva ogni 300 metri.
Solo a Zurigo ce ne sono 1200, alcune bellissime, altre scassatissime (anche se in Svizzera non c’è niente di scassato in senso stretto, lì “scassato” significa al massimo disadorno).
Se piovono bombe su tutti gli acquedotti principali, gli svizzeri continuano a bere alla nostra salute.
Il sistema politico è talmente decentrato che se piove una bomba atomica sulla capitale annientando tutti i palazzi governativi con dentro tutti i politici, gli svizzeri manco se ne accorgono: tirano benissimo avanti con tutti gli altri governi che hanno sparsi sul territorio.
Gli svizzeri sono il popolo più armato sulla terra, anche se vivono perennemente in pace. Forse l’ultima scaramuccia risale al 1815!
Tuttavia, l’eventualità di essere attaccati è una loroossessione. A 60 anni suonati ti tocca ancora svegliarti di notte per l’esercitazione di rito.
Lo svizzero è sempre “arruolato”, non si congeda mai.
La strategia svizzera in caso di attacco?: “prego, si accomodi”.
Ovvero: lasciare via libera all’invasore (magari marziano) e trincerarsi tutti sulle Alpi.
A proposito, le Alpi le hanno trivellate tutte come un groviera costruendo una “Svizzera ombra” che nessuno conosce, tranne loro.
Sembra che lì dentro ci sia tutto, impianti elettrici, linee di trasporto, scorte d’acqua e di viveri, ma anche le biblioteche. Sì, biblioteche con tutti i classici fino al 1950.
Se un dittatore pazzo dovesse incenerire tutti i libri stampati, la Svizzera salverebbe l’intero patrimonio. Un nuovo Fahrehneit 451 andrebbe ambientato in Svizzera, non su Radio Tre.
Sembra che dentro quei cunicoli alpini possanoviverci per anni, per secoli.
Oltre a migliaia di rifugi militari, ci sono poi centinaia di rifugi privati. Ma è roba tosta, roba anti-nucleare.
Sti svizzeri continuano a migliorare la loro già fantastica rete ferroviaria adibendo i vecchi tunnela rifugi militari.
Gli svizzeri sono ridicolmente preparati per la “catastrofe”. Sono il sistema politico meno fragile che conosca. Piacerebbe a Nassim Taleb.
In Svizzera tutto è ridondante: se fallisce A c’è B, e se fallisce B c’è C. Appena ti giri trovi una rete di sicurezza di penultima istanza, un moschettone aggiuntivo, una cintura ulteriore.
La Svizzera è giustamente famosa per come preserva la ricchezza propria e altrui: un tempo conservavano l’oro nei loro inviolabili caveau, oggi criptano i bitcoin contro ogni attacco cibernetico, Nasa compresa.
Non guardano in faccia nessuno: dal perseguitato al criminale loro assicurano tutti.
Sia come sia, quando il mondo finisce vorrei starmene in Svizzera, sono abbastanza sicuro che lì non finirà.
Risultati immagini per bandiera svizzera

Monetarismo di mercato


Monetarismo di mercato


Cos’è?
Una strategia per affrontare le crisi finanziarie ed economiche. Probabilmente la più convincente oggi sul tappeto, almeno dal punto di vista accademico.
Innanzitutto due parole su cosa sia una crisi economica.
Tentenno sempre quando affronto il tema macroeconomico, è talmente complesso e sfuggente. Io stesso sento di continuo che il discorso è sul punto di sfuggirmi di mano, le variabili in gioco sono talmente numerose che governarle con un semplice modello è impossibile.
Partiamo comunque con il caso più elementare: possiamo avere una crisi perché produciamo merci che non interessano a nessuno. In questo caso bisogna semplicemente cambiare business. La transizione crea un’inevitabile crisi.
Crisi del genere vengono chiamate “crisi dell’offerta” poiché c’è qualcosa che non va nell’offerta.
Ma le crisi più discusse sono quelle “di domanda”, quelle generate dal panico. Vale la pena allora di capirle un po’ meglio. Il caso che studierò è, penso, quello più comune.
Quando sul mercato si presenta qualcosa di molto innovativo, tutti gli operatori ne sono attratti.
[… e qui già capiamo come crisi e innovazione siano strettamente collegate. Da questo punto di vista speriamo che le crisi non finiscano mai…]
In quell’innovazione sono in molti a “vedere il futuro” e nessuno vuole perdere il treno.
Avere a che fare con qualcosa che appare innovativo fa bene anche alla nostra immagine.
Fa figo pagare con una “criptovaluta”. Fa figo fondare una start up. Fa figo creare un’ app. Fa figo investire in titoli collaterali. Fa figo speculare in Cina… Fa figo essere “avanti”.
La novità attrae talmente che pur di partecipare ci indebitiamo.
Purtroppo, noi non capiamo bene come funziona cio’ che è nuovo. Altrimenti non sarebbe realmente nuovo. Non capiamo bene internet, non capiamo bene il bitcoin, non capiamo bene i derivati…
Le crisi sono più che altro frutto di ignoranza che di avidità.
Ma dopo un po’ i nodi vengono al pettine e questa mancata comprensione si concretizza in una serie di fallimenti.
Il fatto che degli imprenditori falliscano ci fa capire che ogni “crisi di domanda” contiene in sé anche una crisi di offerta. Il sistema produttivo deve ristrutturarsi anche nelle “crisi di domanda”. Le “crisi di domanda” pure non esistono, sono sempre innescate da un fallimento sul piano dell’offerta.
Ma proseguiamo la nostra narrazione: molta gente si ritrova col culo a terra. Spesso si tratta di gente che ha investito a debito e che trascina con sé i propri creditori, i quali trascinano con sé i propri creditori e via dicendo.
La catena dei prestiti puo’ essere talmente intricata che prima o poi cominciano a cadere anche degli “insospettabili”.
Nel momento in cui la cosa ci tocca un brivido di terrore percorre la nostra schiena e ci paralizza.
Nessuno più spende, nessuno più investe, tutto si ferma. Ci si mette l’elmetto e si entra in trincea preparandosi al peggio.
Un’economia dove tutto si paralizza è un’economia in cui vanno in crisi anche i soggetti sani.
***
Processi simili si realizzano anche nel mondo naturale.
Il mimetismo batesiano è caratterizzato da una situazione in cui una specie innocua (il mimo) si evolve per imitare i segnali di allarme di una specie pericolosa (il modello) al fine di difendersi dai predatori.
Per esempio, serpenti corallo (velenosissimi) hanno bande rosse, gialle e nere, mentre il serpente scarlatto (innocuo) ha gli stessi colori in un ordine diverso.
Gli predatori di serpenti temono a ragione quelli velenosi e  farebbero bene ad evitare i primi, ma mantenere la stessa guardia alta con i secondi è un puro spreco di energia.
Sfruttando in modo parassitario il segnale di allarme dei serpenti corallo, il “mimo” batesiano ottiene lo stesso vantaggio del “modello” senza dover investire energie biologiche nel produrre il veleno.
Nella concorrenza tra serpenti il “modello” diventa perdente e lentamente si perde la capacità di produrre veleno, ma a risentirne sono anche i predatori che, confusi dai parassiti, si muovono ora con i piedi di piombo in ogni occasione.
Nell’analogia il veleno è l’innovazione e l’incertezza che si diffonde tra i predatori equivale al panico che si diffonde tra investitori e consumatori nel corso di una crisi.
Insomma, i “finti” innovatori sono alla base di moti guai, in economia come in biologia.

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Ma torniamo all’economia. Come se ne esce?
L’economia classica ci dice che in situazioni del genere basta abbassare salari e prezzi per riportarsi lentamente nella situazione originale.
Con prezzi più appetibili il consumatore congelato si riscalderà e tornerà a comprare. D’altro canto prezzi più bassi manterranno costanti i salari reali (w/p), anche in presenza di una diminuzione dei salari nominali (w).
Sembrerebbe del tutto naturale abbassare prezzi e salari: prima di fallire è normale che provi a sopravvivere abbassando i prezzi. Prima di licenziare è normale proporre un abbassamento dei salari ai dipendenti.
Eppure l’evidenza dimostra che prezzi e salari sono rigidi,che l’aggiustamento classico non funzione.
Non si sa bene perché gli imprenditori non abbassino i salari: forse una legge lo vieta, forse i contratti sono pluriennali, forse non vogliono apparire “cattivi”, forse non vogliono demoralizzare il personale, forse non vedevano l’ora di licenziare già da prima della crisi.
[… questo ci fa anche capire che la prima misura anti-crisi, quella di cui nessuno parla perché gli economisti danno per scontata,  è luna profonda deregolamentazione estesa a tutti i settori in modo che prezzi e salari possano collassare…]
Sta di fatto che prezzi e salari non si abbassano, e il sistema non si riequilibra.
A questo punto bisogna trovare un’alternativa per realizzare questa riduzione: il monetarismo di mercato è forse la migliore.
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Per capire il monetarismo di mercato bisogna capire due cose: il monetarismo e il mercato.
Partiamo dal primo.
MV=QP.
L’identità di cui sopra ossessiona i monetaristi. Capirla significa capire la politica monetarista.
Cominciamo a chiamare le variabili in ballo con il loro nome. M è la quantità di moneta (diciamo il “numero” dei biglietti di banca in giro per il sistema), V è la velocità di circolazione della moneta (se si presta con leva elevata V è elevata, se non esistono prestiti V è bassa). Q è la produzione (e indirettamente la disoccupazione) e P i prezzi.
Il panico finanziario di solito fa crollare V (la gente tiene il denaro sotto i materassi). Segue crisi economica: nell’altro membro crolla Q, i disoccupati invadono le strade.
classici vorrebbero ripristinare Q abbassando P: una mossa logica ma difficile da realizzare, lo abbiamo appena visto. P, del resto, non è nella disponibilità della politica.
I monetaristi hanno un’ idea più pratica: ripristiniamo Q attraverso M.
Nelle economie moderne M è in mano a un tecnico, quindi è manovrabile dall’esterno.
Ad un aumento di M il sistema puo’ reagire in diversi modi.
Puo’ abbassare V, vanificando così l’innalzamento di M. E’ cio’ che i keynesiano chiamavano “trappola della liquidità”.
Tuttavia, il monetarista è abbastanza fiducioso che V, oltre una certa soglia, non si possa abbassare. Del resto, non esiste un limite verso l’alto all’incremento di M.
Puo’ alzare Q, e allora sono a cavallo poiché ottengo proprio l’obiettivo che mi ero ripromesso: riassorbire la disoccupazione.
Oppure puo’ alzare P. Il monetarista è contento anche in questo caso poiché un P che si alza di solito finisce per alzare anche V. Il perché è semplice: in presenza di inflazione la moneta si svaluta e non conviene detenerla: conviene spenderla (ovvero alzare V). E se una cosa conviene prima o poi si farà.
Se P alza V, V alzerà Q, e l’obbiettivo di ripristinare Q con M sarà ugualmente conseguito.
D’altronde, la cosa si capisce anche per altra via: l’inflazione abbassa i salari reali, ma abbassare i salari era il problema che assillava i classici. Ecco allora il sistema alternativo per abbassare i salari: non una ricontrattazione ma un inflazione.
In un mondo dove i lavoratori guardano prevalentemente ai salari nominali la cosa puo’ funzionare. Non funzionerebbe se i lavoratori fossero concentrati sui salari reali, ma postulando la rigidità di prezzi e salari lo abbiamo escluso.
In definitiva, per il monetarista è indifferente se l’aumento di M crei occupazione o inflazione, questo perché l’inflazione avrà comunque effetti positivi in una situazione di ristagno dell’economia.
In conclusione, potremmo dire che il monetarista è un tale che mette al centro di tutte le ricette macroeconomiche la quantità di moneta. Questa e solo questa è per lui la variabile fondamentale.
Non distraiamoci con i tassi di interesse (inquinati dal rischio percepito): solo M conta.
Se c’è inflazione, la colpa è della quantità di moneta (che è troppa).
Se c’è crisi, la colpa è della quantità di moneta (che è poca).
Ma come fare in modo che la quantità di moneta sia “giusta”?
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E qui entra in ballo il secondo fattore, ovvero “il mercato”.
Per i monetaristi di mercato il mercato è efficiente. Il monetarista di mercato adora EMH (Efficient Market Hipothesys).
Efficiente nel senso che nessuno puo’ fare sistematicamente meglio di lui: nessuno “batte il mercato”.
In teoria noi conosciamo la quantità corretta di moneta, è quella che stabilizza QP. Questo perché, come abbiamo appena visto, anche un incremento di P è visto come un successo.
Ma conoscere l’ M che stabilizza QP non basta, bisogna poter fissarla a tre mesi, o a sei mesi, o a un anno, in modo che la politica monetaria possa agire d’anticipo e prevenire.
QP puo’ essere definito come PIL nominale.
Secondo il monetarista di mercato deve essere creata una borsa in cui si scommetta sui futuri PIL nominali, e il banchiere centrale deve emettere ORA moneta in funzione delle quotazioni di borsa.
Una borsa del genere puo’ essere paragonata ad un prediction market”, ovvero un mercato speculativo che ha come effetto collaterale quello di informare la politica guidandone le scelte.
Il banchiere centrale, a questo punto, potrebbe anche esseresostituito da un algoritmo. Era il sogno di Milton Friedman: in campo monetario le regole devono venire prima degli uomini.
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L’evidenza empirica sembra confortare il monetarismo di mercato su molti punti. Sempre, prima di ogni crisi, le quotazioni future del PIL nominale crollano. L’analisi di Milton Friedman del ‘29 americano è paradigmatica.
Non che sia mai esistito un mercato sui futuri PIL nominali ma ne sono sempre esistiti parecchi da cui si puo’ inferire il pensiero degli speculatori sulla variabile che a noi interessa. 


Un algoritmo, in casi del genere, avrebbe inondato il mercato di liquidità ammortizzando la crisi. I banchieri centrali, invece, non lo hanno fatto producendo sempre delle strette monetarie estremamente dannose.

Oggi abbiamo imparato la lezione,  infatti siamo tutti monetaristi, ma il tentativo di espandere la base monetaria si realizza sempre con 6 mesi/1 anno di ritardo e ad arbitrio del banchiere centrale di turno. Questo perché siamo tutti monetaristi ma non siamo ancora tutti monetaristi di mercato!
Chissà che anticipare sulla base dei “prediction market” non sia salutare. E’ su questo anticipo che punta il monetarismo di mercato.
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Nei fatti come si aumenta M?
Abbassando i tassi di interesse. Oppure facendo dei prestiti.
A chi?
Il monetarista di mercato puro risponderebbe: a chiunque. A lui basta che un quantitativo corretto di moneta circoli nel sistema,  ha talmente tanta fiducia nel mercato da pensare che sarà lui ad allocare la moneta in modo efficiente.
Ma qui le sue ipotesi sono un po’ fortine.
Abbiamo appena visto che ogni “crisi della domanda” contiene anche una “crisi dell’offerta”, ovvero l’esigenza diriassestare l’apparato produttivo.
Ora, la domanda va stimolata ma senza conservare o alimentare le distorsioni dell’apparato produttivo.
In questo senso prestare alle banche è la cosa migliore. Perché?
Il mestiere della banca consiste nell’individuare imprenditori capaci e finanziarli.
Un imprenditore capace, domani, una volta che la sua impresa prenderà il volo, saprà camminare con le sue gambe anche senza finanziamenti straordinari.
Il mestiere di un consumatore è invece quello di consumare cio’ che desidera. Ma cio’ che desidera oggi grazie ad un entrata straordinaria, domani, quando questa entrata cesserà, potrebbe non desiderarlo più.
Cio’ significa che di fatto ora sta prolungando la vita ad un morto, ovvero ad un produttore da cui domani non acquisterà più nulla.
Meglio un imprenditore capace o un morto che cammina? Meglio un imprenditore capace, quindi meglio prestare alle banche che ai consumatori.
Naturalmente, le banche potrebbero non fare bene il loro lavoro, in Italia l’ ipotesi è realistica, ma questo è comunque un problema diverso da quello legato alla crisi economica. E comunque non esistono alternative.
Quando i politici d’opposizione usano l’espressione “regalano i soldi alle banche”, occorre quindi discernere: se la moneta ottima è quella dei monetaristi di mercato, il sistema non “regala” soldi alle banche ma semplicemente implementa un algoritmo noto a priori.
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