martedì 14 novembre 2017

Sulla nuova linea di Comunione e Liberazione

Sulla nuova linea di Comunione e Liberazione

Innanzitutto, eccola: basta con le certezze, basta con l’ autoproclamazione identitaria, basta con le “teorie” inamovibili (i dogmi?), basta con le proprie ragioni ad occupare tutto, basta con le correzioni.
Ora bisogna “dialogare” e cioè “ascoltare l’altro”, senza più dare troppo peso ai manuali e ai catechismi, rimettendo continuamente in forse le conclusioni e rileggendo ogni cosa in un “dinamismo di verifica nel reale”.
Nel caso della scuola, tanto per dire, questo si traduce nel fatto che  l’ identità e l’impegno per la libertà di educazione devono scansare la mummificazione nell’ideologia.
Bisogna superare le colonne d’Ercole e non fermarsi agli schemi, entrando invece nella personalità dei ragazzi.
Vittadini sul nuovo corso: “la scuola deve essere un cambiamento di teoria. Alla fine dell’anno non si capisce più chi è comunista, cattolico o agnostico perché un uomo intelligente cambia idea e i ragazzi sono contenti”.
Le accuse e lo sbalordimento di molti è stata la naturale conseguenza di parole tanto nette.
Ma sono in molti a difendere la svolta. SecondoMaurizio Vitali (ex direttore del mensile ciellino Tracce), Vittadini non ha detto che “nel dialogo è bene che si perda la certezza dell’identità e si cambi idea”, come vorrebbe chi lo accusa.
Ecco allora che si creano due fronti: da un lato i fautori del nuovo corso che chiedono una maggiore apertura del movimento, minimizzando i pericoli che cio’ comporterebbe; dall’altro chi vede nelle aperture indiscriminate un’ inevitabile perdita di identità.
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Personalmente credo abbiano ragione entrambi: 1) bene il dialogo, 2) nella coscienza che una tale pratica indebolisce la nostra identità.
Se un uomo di fede dialoga sul serio con un ateo, il primo perde parte della sua fede, il secondo ne guadagna un po’. Se non si realizza niente del genere non possiamo parlare di dialogo.
Ma un conto è indebolirsi, un altro liquefarsi. Ecco allora il problema centrale da risolvere: che rischi reali comporta l’apertura.
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I ciellini sembrano oggi- in piena era di globalizzazione – più coscienti del pericolo di settarismo.
Non sorprende che l’allarme scatti proprio ora, già il sociologo Claude Fischer metteva in guardia: “quanto più la società è diversificata, tanto più si tende a rinchiudersi tra simili… oggi più che mai i bambini delle classi abbienti tendono a vivere, giocare e imparare stando tra loro”.
Al di là dei sociologismi è chiaro che dietro c’è l’opzione papista: l’ombra lunga di Francesco si fa sentire. Di fronte a un papa che divide, CL sembra aver compiuto la sua scelta.
Ma, attenzione, cosa succede realmente quando ci si apreall’altro?
Per fortuna la sociologia politica ha già studiato a fondo il fenomeno contrapponendo la figura del militante (chi si chiude) a quella del “terzista” (chi si apre). In cosa si differenziano questi due prototipi?
Uno penserebbe che il discorso politico sia destinato ad arricchirsi quando incorpora le istanze della controparte. In modo un po’ sorprendente l’evidenza empirica ci segnala il contrario: fermezza e dogmatismo impediscono di scivolare dentro una melassa indistinta in cui tutte le vacche diventano grigie e il discorso una sterile palude senza riferimenti.
Il destino di chi si “apre” è spesso quello di andare in confusione e vagare senza bussola, mentre quello del dogmatico è di mummificarsi in slogan che urla ritmicamente con le orecchie tappate.
Il “militante”, per lo meno, ha voglia di partecipare, ha voglia di stare con i propri simili, questo anche se il suo contributo nella crescita comune risulta piuttosto ottuso. Diciamo che la sua condizione è la meno peggio per i sostenitori della “democrazia partecipativa” (quella che ha per obbiettivo il coinvolgimento).
Il terzista è invece confuso, tende a desistere, a voler tirarsi fuori, questo anche se la sua partecipazione potrebbe essere fruttuosa. La sua condizione è la meno peggio per i sostenitori della cosiddetta “democrazia deliberativa” (quella che ha come obbiettivo di scegliere bene).
Nella misura in cui le persone sono invitate ad allargare le loro relazioni si pensa ad una maggiore apertura mentale e ad un contributo di maggior pregio. Illusione!: chi apre la propria mente – e lo fa sul serio – finisce per rifugiarsi in un ozioso agnosticismo che azzera il suo contributo.
Entusiasmo e ponderatezza possono convivere? No. Quasi sempre no. Entusiasmo e ponderatezza costituiscono un dilemma per il credente.
I ciellini dovrebbero partire da questa base empirica per ragionare sul loro futuro.
Ampliare la rete delle proprie relazioni non serve: più le reti si amplificano, più il conformismo domina.
Nel fiume della grande società il membro minoritario non discute con altri membri minoritari ma con il leviatano conformista che lo assoggetta all’istante: non c’è niente di piùappiattente della “società diversificata”.
Quando si esce dalla propria “tana” per buttarsi nel grande mare della società aperta il destino è segnato: si viene travolti da un conformismo indistinto che forse è ancora peggio del settarismo asfissiante.
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Non c’è una via di mezzo? E se sì, dove posso trovarla?
Anche qui la ricerca politica puo’ esserci utile e, per fortuna, ha una risposta abbastanza consolante,
Sì, una via di mezzo puo’ esserci: è la franca discussione a quattr’occhi.
Il gruppo ristretto è la via di fuga alla Scilla del settarismo élitario e alla Cariddi del conformismo di massa.
Nel micro-gruppo la doppia pressione settarista/conformista si allenta.
E’ nel piccolo gruppo che si puo’ cambiare posizione mantenendo la bussola. E’ nel piccolo gruppo che si evolve sopportando la grande sofferenza che questo comporta.
Penso allora a un piccolo gruppo di persone molto simili che si parlano però a viso aperto, senza l’esigenza continua di confermarsi in modo compulsivo con un “mi piace”.
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lunedì 13 novembre 2017

Ritratto del razzista doc

Ritratto del razzista doc

Quando Tizio dà del razzista a Caio che nega, di solito intendono il termine in modo diverso.
Per non disperdere energie mentali sarebbe bene far chiarezza fin da subito.
Ci provo con una definizione di “razzismo” che mi sembra sia limpida che sensata.
Sulla statale 95 del Maryland i neri hanno una probabilità di essere fermati dalla polizia anti-droga che è tre volte e mezza quella di un bianco.
Si tratta di razzismo?
Andiamo aventi con l’evidenza disponibile: tra i bianchi fermati circa lo 0.33% viene beccato con la roba. Per i neri è lo stesso.
Si tratta di razzismo?
Ora possiamo rispondere: no.
Lo si capisce meglio se rappresentiamo la situazione usando altre parole: i neri trasportano tanta droga quanto i bianchi, nonostante che per loro sia molto più rischioso farlo.
L’inclinazione dei neri a trasportare droga è maggiore, quindi è naturale (non razzista) che siano più nel mirino della polizia.
Sequestrare più droga possibile non è unobbiettivo razzista.
Con questo standard potremmo al limite dire che la polizia è razzista verso i “latinos”: la percentuale “beccata” nel loro caso è dello 0.25% anziché dello 0.33%
Chi canta “legalize it” si rammarica che la polizia non sia razzista: se una politica ingiusta viene perseguita in modo razionale fa più danni.
Ma le cose non sono così pacifiche: per molti si tratta comunque di un comportamento razzista. Evidentemente hanno un’altra nozione del termine.
Penso francamente che ci siano buoni argomenti per negarlo e per sostenere che razionalità e razzismo non possano essere compatibili. In caso contrario io sarei un razzista.
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Va da sé che la definizione data di razzista si estende anche ad altri comportamenti discriminatori, per esempio il sessismo.
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Francesco & Co.

Francesco & Co.

Negli ultimi anni c’è stata un’ inversione di tendenza un po’ comica negli studi sull’origine del mercato libero: non solo si è scoperto che i francescani se ne intendevano di economia, ma si è anche stabilito che avevano inventato il capitalismo!
Max Weber ribaltato da cima a fondo.
Non penso proprio che i francescani abbiano scoperto le leggi di mercato inaugurando l’economia moderna di Adam Smith, più probabile che la loro concezione di povertà, ossia la loro interpretazione della perfezione cristiana, indipendentemente dalla loro volontà, abbia formato alcune categorie basilaridel modo economico di ragionare degli occidentali.
L’avvicinamento dei francescani all’idea di libero mercato rivela che fu la più rigorosa religiosità cristiana in quanto tale a formare gran parte del vocabolario dell’economia occidentale, che non vi fu mai un’estraneità del mondo cristiano rispetto al mercato come la si fantasticò tra otto e novecento, né una separazione netta tra moralità e affari.
Il francescanesimo, nel cuore stesso della cattolicità romana, individuò nella rinuncia gli elementi decisivi per intendere il valore dello scambio (costo opportunità). Al centro veniva posta la metafisica dell’ Incarnazione divina, che costituisce poi la radice dello scambio sacro: vita del Cristo contro i nostri peccati.
Per accettare questa impostazione bisogna ammettere che la religione del cuore e quella degli affari abbiamo molto in comune.
Per comprendere meglio bisogna poi concentrarsi sulla ricezione del concetto di povertà evangelica tra il mille e il milleduecento.
La povertà è una privazione ma, privazione di che cosa? Rinuncia a che cosa? Come si può diventare poveri, e imitare in tal modo la perfezione del Cristo, se poveri lo si è già al modo dei contadini indebitati e senza terra?
In questo periodo si diffonde la convinzione che la povertà, ossia la rinuncia al godimento privato della la ricchezza, sia uno stile di vita che parifica la perfezione cristiana e quella civica.
Vescovi e Abati d’ora in avanti cercheranno di sottolineare sempre di più la propria personale povertà.
Il mondo viene raffigurato diviso in due: da una parte l’imperatore eretico con il suo finto papa, seguiti da un’orda di assassini prezzolati adulteri e svergognati di varia natura, dall’altra la società fedele a Gregorio VII,  praticamente rappresentata dal vescovo Anselmo e dalla contessa Matilde di Canossa, asserragliati in un castello e capaci di resistere al male con tutta la forza della loro esemplare povertà.
Le scorrerie devastatrici dell’ Imperatore sono l’effetto di una volontà di potenza analoga al desiderio di ricchezza; all’estremo opposto la povertà del Vescovo ma anche la frugalità di Matilde
Di questo grande affresco la componente decisiva per comprendere è la sempre più chiara crescita della popolazione.
I religiosi e i laici di bassa condizione, i poveri insomma, si muovevano ogni giorno: la condizione di necessità li costringeva ad essere sempre “in cerca”, l’avventura di una nuova economia li conduceva a scoprire ragioni di vita in luoghi selvatici fino a poco tempo prima remoti e temibili. La povertà in altre parole poteva dar luogo a forme di ricchezza allora impreviste, purché le si andasse a cercare in modo dinamico. Un tratto di questa povertà divina appariva particolarmente suggestivo e si trattava della sua prodigiosa capacità di modificare la realtà quotidiana pur non possedendo nulla.
Si passava da una povertà che era scarsità di beni di consumo ad una povertà che era amplificazione della propria sfera di azione. Gli asceti, gli eremiti e i monaci esemplificano per la prima volta agli occhi di una società multicentrica, dispersa e in movimento, il modo in cui privazione e moltiplicazione potevano essere sinonimi.
La vita di Romualdo di Ravenna rappresenta alcuni elementi chiave del modello eremitico della povertà volontaria: una famiglia ricca, un padre avaro e affarista (nel senso di curatore della propria rendita), un figlio ribelle che in nome di Dio approda alle asprezze della rinuncia monastica (che lo sostringe a partire da zero). Al centro del modello stanno con grande evidenza tre cose: la povertà, l’ infaticabile operosità del convertire e “guadagnare” anime a Dio e la disinvoltura nella relazione con i potenti.
Povertà e rinuncia coincidono chiaramente con un dinamismo, con una possibilità di movimento da luogo a luogo, con un’abitudine al viaggio e all’ itineranza: nasce un nuovo ceto di potenti spiritualizzati, i santi eremiti.
La povertà sfocia nell’attivismo.
Romualdo di Ravenna, Norberto di Xanten, Guglielmo di Vercelli, Roberto di Arbrissel, Stefano Muret, Pietro l’Eremita… tutti i fondatori di comunità monastiche laboriose che seguirono il medesimo canovaccio.
Colpisce la relazione fra la scelta di umiliazione, di abbassamento cioè della condizione sociale originaria, e lo straordinario successo delle realizzazioni istituzionali.
Colpisce anche la profonda diversità economica e politica esistente fra la scelta della povertà religiosa e la comune povertà quotidiana dei mendicanti: una differenza comunque ben chiara agli uomini del XII secolo.
Le cronache che gli ecclesiastici vergano tra il 1100 e 1200, accanto alla serie dei santi e instancabili eremiti, hanno sempre per protagonista la folla anonima e moralmente ambigua dei miserabili, la folla dei poveri.
Viene spesso sottolineato il contrasto esistente fra L’abbondanza che regna nel monastero, un’abbondanza determinata dall’ indefesso attivismo anche agricolo dei monaci, e la passiva disperazione dei poveri.
Risultava con sempre maggior chiarezza che l’ozio, l’inattività e la pigrizia mentale erano il peggior ostacolo che i poveri potevano incontrare sulla propria via. Non è un caso se Pietro di Blois dichiara un esplicito e franco disprezzo per i poveri e per la povertà, ove con queste parole si indichi uno stato di semplice privazione, di miseria e di mera sopravvivenza. La mendicità e la questua pubblica gli appaiono una condizione indecente, i tanti poveri che si affollano intorno i pochi ricchi per ottenerne la protezione non sono per lui degli sfortunati quanto piuttosto degli esseri subumani.
Con maggior moderazione Stefano di di Tourné, illustre giurista dell’epoca, fornì un importante elogio dell’ indipendenza economica e dell’attivismo imprenditoriale dei monaci cistercensi. Secondo Stefano: “vivono del proprio lavoro, consumano poco e producono molto, e  il loro è quindi un modo di vivere altamente produttivo”. Una lista delle qualità più apprezzate appena dopo l’anno mille.
Soprattutto dopo il 1130, i poveri incapaci di individuare nella povertà uno stile santo di vita e di capire come essere attivamente utili alla società, cominciano essere rinchiusi in ospedali, ospizi e comunità che li educhino e li preparino a reinserirsi nel consorzio civile.
Quello stesso periodo vede crescere una legislazione è una riflessione eclesiastica sulla natura usuraia della ricchezza ebraica messa in relazione con l’accumulazione sterile e la tesaurizzazione. Alla condanna dei poveri oziosi si aggiunge a quella dei Ricchi oziosi. L’avidità dei Miserabili e l’avarizia sono le due facce della stessa medaglia
Sant’Agostino su chi sono in realtà i poveri: “… non a tutti coloro che sono in povertà si riferisce il Vangelo quando parla dei poveri… ci sono infatti dei poveri che quando subiscono qualche torto si fidano soltanto della protezione del ricco signore… costoro mentono quando si dicono “poveri”… vi sono altri invece che magari sono ricchi e onorati, e tuttavia non si fidano delle ricchezze terrene, delle loro terre e del clan a cui appartengono poiché amministrano le loro ricchezze per venire in aiuto di chi ne è privo, costoro verranno contati fra i poveri di dio.
Il messaggio che lancia in quel periodo Pier Damiani è chiaro: è veramente cristiano e pertanto riconoscibile da parte della chiesa il potente laico che individua nel suo patrimonio una differenza fra ricchezza ferma all’interno dell’asse ereditario e ricchezza che si muove al di fuori di esso, da amministrarsi in favore di una prospettiva pubblica.
Ecco allora una ferma condanna dei patrimoni immobilizzati e schiavizzati alla sterile logica ereditaria.
Poiché il mezzo più comune per uscire da tale logica è il dono, l’economia del dono nasce come proto-capitalismo.
In questa atmosfera è da inquadrare anche la polemica di Bernardo contro i monaci di Cluny. La loro ricchezza, accusa Bernardo, viene impiegata in fastosi abbigliamenti cerimoniali, in oggetti di culto preziosi, in pittura e doratura, in marmi e pietre preziose. La difesa dei Cluniacensi basata sull’ idea che questo lusso moltiplica i fedeli rendendoli clienti del monastero, non vale sostiene Bernardo. Il modello per cui il “denaro genera denaro” è un sofisma  assimilabile a quello dell’usura.
Il pauperismo cistercense di cui Bernardo era autorevole sostenitore si manifestava nel sistematico reinvestimento in terre produttive, in un ideale ascetico e operoso, nella produzione e nella dilazione del godimento del prodotto piuttosto che nella sua tesaurizzazione. La rinuncia personale veniva a coincidere con il patrimonio collettivo.
I poveri volontari divenivano portavoce di un’economia del possibile e dell’eventuale. In loro si faceva strada la nozione di bene comune e di spersonalizzazione della ricchezza.
Liutprando da Cremona osservava in tono ironico che i vescovi bizantini di Costantinopoli erano ricchi d’oro e avevano i forzieri pieni ma poveri nel governare la realtà che li circondava. La vera ricchezza veniva, secondo Liutprando, dall’organizzazione efficace di un potere di governo sulla realtà circostante.
La prodigalità sfacciata del giovane Francesco è già un segno premonitore della sua futura scelta di povertà Cosa avrebbe dovuto fare del denaro guadagnato se non spenderlo al più presto?
Francesco entrerà a pieno titolo nella cultura dell’epoca, quella che connette povertà e produttività. Un’idea che rifiuta il contatto con il denaro, che nega la proprietà in quanto connessa all’ereditarietà, una cultura che esalta l’elemosina e  l’attivismo imprenditoriale (strano abbinamento, per noi), nonché la libera iniziativa contro ogni ricchezza immobilizzata.
La povertà di Francesco è motore di ricchezza, non negazione di ricchezza.
Se la velocità di circolazione della ricchezza diventa Il valore economico principale, vedersela sfrecciare esimendosi da ogni contatto diventa precetto base.
Per i francescani il problema è costituito non certamente da una generica negazione dei bisogni umani ma dall’impossibilità di soddisfarli con il denaro. Le monete non riescono a quantificare la relazione amichevole.
Una delle soluzioni adottate per mantenersi attivi ed evitare l’ “imborghesimento” sarà quella di usufruire di beni mobili e immobili di cui però non si avrà una “reale proprietà”.
Ma come far convivere attivismo economico e assenza di proprietà? Bisognava inventarsi una “share economy” ante litteram. Lo sforzo intellettuale francescano in questo senso fu poderoso.
La diade superfluo/necessario diventerà centrale. Superfluo è cio’ che non viene reinvestito.
Lo stesso concetto viene espresso nell’opposizione tra proprietà e uso.
Il denaro esplicitato fisicamente nella moneta veniva a rappresentare la tesaurizzazione che si oppone al benessere collettivo.
Oggi colleghiamo proprietà e attività economica, il rifiuto della prima da parte di Francesco non significa affatto un rifiuto della seconda.
La visione francescana era tutt’altro che ingenua, tanto è vero che attirava molto anche il mondo dei colti, dei ricchi e degli ecclesiastici di prestigio. Risultava evidente una sintonia tra il nuovo ordine e gli uomini di cultura, i maestri lettori di teologia e di diritto che insegnavano nelle principali università. Veniva a crearsi un rapporto non sempre facile da capire tra povertà volontaria e cultura teologico-giuridica ai più alti livelli.
La nuova cultura imprenditoriale che va diffondendosi dopo l’anno mille sembrava quindi incentrarsi sulla parola “povertà”, che veniva ad assumere un significato eminentemente economico, legato agli investimenti, alla creatività e alla circolazione della ricchezza.
Come segnale evidente di questa meditazione sui modelli pauperistici  si manifestò sin dagli anni trenta del 200 l’abitudine dei Frati Minori di comporre i conflitti interni alle città italiane sull’orizzonte più generale di una prosperità urbana.
L’attenzione a fenomeni come quelli dell’usura e del gioco d’azzardo sono da subito il centro della predicazione francescana. Povertà e buona amministrazione diventeranno l’abbinata costantemente proposta in alternativa.
Il divieto di toccare denaro e monete stabilito dalla regola di Francesco genera una definizione della povertà come articolata strategia nell’uso delle cose e del denaro stesso, anziché una lontananza dalla ricchezza.
Poiché i poveri volontari non possono fissare il valore delle cose nel denaro, non possono quindi né utilizzarlo né possederlo, diventa decisivo capire come essi possano farlo fruttare. La risposta al quesito sta nella separazione del momento dell’uso da quello della proprietà. Grazie a queste complesse teorizzazioni i francescani potranno essere al contempo poveri e il fulcro dell’attività commerciale cittadina.
Il monastero produce a velocità sempre maggiore testi di vario tipo concernenti la vita in assenza di proprietà. Si tratta di testi essenzialmente economici! I francescani sono i primi religiosi economisti.

Si conviene sul fatto che esistono diversi modi per fare uso delle ricchezze presenti nel mondo.
La rinuncia lascia – tra l’altro – una maggiore disponibilitàdi risorse economiche al resto della società. Ce se ne accorge quando ci si reca al mercato e si scopre che il prezzo, per esempio della lana, è più basso. Si giungerà ad affermare che il povero è virtuoso poiché spreca meno ricchezza collettiva.
Per paradosso siamo in presenza dello stesso argomento con cui viene oggi difeso l’avaro, il Paperon de Paperoni di turno. Anche lui, vivendo in povertà di fatto, lascia maggiori ricchezza alla comunità di cui è membro.
Grazie ai francescani, etica e affari si avvicinano. In altri termini, prima del 1250, il codice degli affari non rientra compiutamente in quello dell’etica civica. La vicinanza dei francescani agli uomini più potenti dell’epoca, orienta lo sguardo sui problemi della ricchezza verso una dimensione etica più propria di una confraternita religiosa.
Se si considera la mappa europea degli insediamenti Francescani è facile vedere che una più circostanziata percezione francescana dei comportamenti economici si manifesta dell’ultimo trentennio del Duecento in zone di forte sviluppo.
Tra i primi francescani a occuparsi propriamente di economia, Pietro Di Giovanni Olivi appare significativo anche per la sua adesione intensamente razionale al pauperismo più rigorista.
Olivi giunge a ragionare della povertà e della ricchezza in quanto francescano e non nonostante la sua condizione. La definizione francescana rigorosa di povertà spinge Olivi ad indicare nel bisogno, nella “mancanza” il principio socialmente fondante della valutazione delle cose, cioè dell’assegnazione di un prezzo. L’autoprivazione diventa una scuola che insegna a misurare bisogno e necessità.
La questione del valore diventava sempre più pressante in quegli anni. Cosa rendeva prezioso il lavoro del mercante? E che cosa quello del vescovo? È a partire da questa riflessione che si porrà il problema più generale del prezzo. La questione della povertà e della privazione offrirà un fruttuoso punto di partenza.
I francescani, con l’Olivi in prima fila, cominciano a riflettere e a scrivere sul valore delle persone, sul significato economico delle professioni; si tratta di un momento fondamentale del percorso francescano verso la definizione di un economia di mercato basata sul consenso contrattuale.
Nel meccanismo di mercato la povertà fa acquisire un’altissima stima da parte dei fedeli e, liberando risorse nei modi già detti, procura un maggior benessere economico. La disponibilità economica dei governanti, per contro, apparirà all’Olivi piuttosto come un’ “ingiuria”. Solo la povertà consente di reinvestire ed essere economicamente produttivi.
La povertà come la intendono i francescani resta comunque un valore relativo poiché relativa è la sofferenza indotta dalla rinuncia. Quando viene adottata come stile consapevole di vita e di organizzazione economica non può essere determinata oggettivamente una volta per tutte. Il soggettivismo diventa centrale nel valutare sia i beni che i servizi.
Cos’è povertà lo decide il francescano, Qual è il valore di un bene lo decide il mercato.
Comincia a farsi Largo una teoria dei prezzi in grado di risolvere brillantemente i paralizzanti paradossi dell’epoca. Perché l’acqua, che toglie la sete e può salvare una vita umana, costa meno dell’oro o di un profumo esotico? Perché chi lavora duramente con le mani come lo zappatore o il marmista viene pagato meno di chi fa un lavoro intellettuale come l’architetto o il funzionario governativo?
Basta considerare il prezzo come una convenzione e questi equivoci si dissipano all’istante. La sottolineatura tutta pauperistica del concetto di bisogno relativo giunge al riconoscimento della società di mercato come soggetto collettivo in grado di definire la propria misura dell’utile.
La psicologia dell’apprezzamento deve avere un esperto: il commerciante appare così ai francescani di fine duecento l’esperto di settore, un personaggio fondamentale per la costruzione di un mercato equilibrato.
Olivi radica il profitto mercantile nella funzione educativache i mercanti svolgono nella comunità in cui sono inseriti. Il profitto mercantile è il prezzo pagato dalla comunità a uno dei suoi professionisti più competenti.
Se essere ricchi è un modo di rendere razionale il mercato e la società che lo ospita, allora anche essere ricchi serve a preparare la salvezza del mondo.
Il mercato, lo scambio e il commercio sono descritti dall’ Olivi come realtà totalmente sociali, come il modo che i laici hanno disposizione per contribuire fattivamente alla costruzione di una società cristiana.
L’Olivi si cimenta anche nell’ambito dell’usuraammorbidendo certe tesi cattoliche.
Per lui gli interessi sul prestito possono essere considerati un “ringraziamento” e un indennizzo per gli affari a cui si è rinunciato prestando denaro.
In questo senso l’accusa di usura cade allorché il mutuante è un commerciante di fama nota e affidabile. Distinguerecostui dall’usuraio è facile proprio per la reputazione di cui gode l’interessato.
Ma l’Olivi – in quanto rigorista – si scontrerà con certi orientamenti francescani più moderati in tema di povertà dell’Ordine, quelli di chi considera la povertà compatibile con il possesso limitato e l’usufrutto.
Per questi francescani – Alessandro e Guiral su tutti – la volontà ascetica di non avere beni ha un parallelo laico nella volontà del commerciante di scambiare denaro con merci.
I francescani, tra il 1250 e il 1400, si interessarono anche al problema del debito pubblico: che fare quando il governo prendeva a prestito dai ricchi mercanti perdendo poi la capacità di restituire?
Si noti che all’epoca non esisteva distinzione tra ricchezza privata e ricchezza pubblica: la ricchezza presa a prestito dai mercanti era pur sempre ricchezza sottratta ad altre forme di benessere sociale. Del resto, al governo, molto spesso c’erano altri mercanti.
Il prestito pubblico era visto come utile allo stato e ai cittadini, quindi legittimato. Tuttavia, poiché il valore del denaro sta nella capacità di concepire ricchezza futura, difettare in questa facoltà è una colpa che merita sanzione, ovvero interesse da pagare al creditore di turno. Ad ugno modo la “stima del prestatore” rimane condizione necessaria affinché maturi interesse.
Questo tipo di investimento ha senso etico ed economico se non costituisce la principale logica d’impiego del denaro di coloro che gestiscono la vita commerciale e finanziaria della città. La legittimità è dunque direttamente collegata alla figura dell’ “esperto” di mercato, e l’interesse trova la sua ragione nella giusta esigenza dei mercanti di salvaguardare il proprio capitale per i futuri investimenti commerciali.
Eiximenis aggiunge lucidamente che in Catalogna nessun mercante però si dedicherà del resto all’acquisto dei titoli di credito perché dopotutto commerciare, con tutti i rischi che comporta, rende comunque molto di più.
Perché ci sia usura occorre allora ci sia un’intenzione usuraia e una specifica forma contrattuale.
Dalla questione dell’usura ricaviamo comunque che l’organizzazione politica ed economica della collettività dei cristiani è informata alla razionalità dei mercanti che diviene via via razionalità civica e simbolo della società ordinata.
Poiché fede ed economia andavano di pari passo può essere interessante vedere come i gruppi ebraici si inserivano in questo tessuto.
La frammentazione politica del territorio italiano consente agli ebrei di giocare un ruolo. Si riconosceva e si auspicava la presenza ebraica ma si precisava che essa poteva essere utile solo se regolamentata in modo da rimanere comunque straniera in città.
L’organizzazione economica di una collettività cristiana doveva fondarsi sulla fiducia degli appartamenti e quindi su una fede comune.
Usurai, accaparratori ma anche quei poveri che in nessun modo erano utili alla collettività furono individuati come estranei nel popolo dei fedeli.
Ognuno doveva appartenere ad una famiglia di rilievo, ad una corporazione di mestieri, ad una confraternita o ad una compagnia in grado di garantire per lui.
Il mercato riconoscibile era formato da questi soggetti collettivi e le persone credibili autorizzate ad operare dovevano appartenere in un modo o nell’altro ad essi. E’ soprattutto in Italia che la cultura economica francescana individua nel prestito ebraico la negazione dell’economia solidale e mercantile.
Con Bernardino da Siena i pensatori francescani passano dalla teoria alla pratica cominciando ad individuare fisicamente chi non è degno di fiducia e quindi di rientrare a pieno titolo tra gli operatori: gli ebrei sono i primi. Ma anche le donne sprofondate nel lusso, nonché parassiti e oziosi che si affidano alla carità altrui.
Ogni mercante, ammonisce Bernardino, per distinguersi dal profittatore e dello speculatore deve combattere ogni giorno i falsi mercanti. La fiducia pubblica è il bene più alto e le regole di esclusione dal mercato sono il baluardo che lo tutela.
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Nella cultura francescana, dopo l’anno mille, emerge il primo apparato concettuale che consentirà di comprendere le logiche del libero mercato, allo stesso tempo verranno però sponsorizzate forme di esclusione destinate a servire i vari progetti politici piuttosto che la prosperità comune. Purtroppo il cattolicesimo, pur con tutti i suoi meriti, non ha saputo farsi portatore di una visione universalistica del mercato, per la quale bisognerà attendere i pensatori dell’illuminismo scozzese settecentesco che, con la loro opera lungimirante, sposteranno inevitabilmente in quelle terre il centro del mondo a venire.
franc