giovedì 26 febbraio 2015

Tre argomenti in favore della virtù

In questa post vorrei abbozzare una difesa della cosiddetta "etica della virtù" presentando tre argomenti a suo favore ma capisco che prima bisognerebbe capire meglio cosa sia.
In etica l' approccio legato alle "virtù" si contrappone all' approccio "deontologico" e per individuare con chiarezza dove risieda il discrimine discuto di un tema ricorrente nel dibattito contemporaneo: il "relativismo etico".
1. RELATIVISMO ETICO
Il "relativismo etico" è spesso chiamato sul banco degli imputati, gli ultimi Papi ne hanno fatto la sentina di tutti i mali della modernità.
Personalmente, ho sempre faticato a capire fino in fondo il significato dell' espressione.
Forse perché tra i "relativisti" fanno bella mostra di sé alcuni tra i "moralisti" più petulanti che sia dato ascoltare oggigiorno.
Ma come è possibile essere "relativisti" e al contempo mostrarsi infervorati come tanti Savonarola? (*)
Ma come è possibile puntare tutto sulla denuncia del degrado morale è poi indignarsi con chi accenna al concetto di valore non-negoziabile?
Ecco allora qui di seguito un modo per appianare il paradosso.
Assolutisti e Relativisti si scambiano accuse reciproche in un dialogo tra sordi, la mia ipotesi è che i primi lo facciano avendo in testa l' "etica come virtù", i secondi, per contro, pensano all' etica come deontologia.
Vediamo di chiarire meglio i termini.
Se l' etica è deontologica, allora tenere un comportamento etico equivale a ubbidire ad una regola o a un set di regole.
Se invece l' etica è una virtù, allora tenere un retto comportamento è la conseguenza naturale di chi da sempre, a cominciare dall'infanzia, coltiva sane abitudini. Per il virtuoso l' abitudine prevale sulla regola, i costumi sull'acutezza morale.
Per la deontologia il problema etico si consuma qui ed ora: che fare? Qual è la regola corretta da applicare al problema che mi viene sottoposto? Come "calcolarla"?
Per il virtuista, invece, il problema etico coinvolge una vita: l' educazione ci instilla delle attitudini che poi, nella vita,  ci faranno propendere verso il comportamento più corretto.
Prendiamo adesso una virtù specifica: il coraggio. Anche nel linguaggio comune è del tutto normale definire il "coraggio" come un valore assoluto.
Avere poco coraggio non è mai degno di lode, così come è impossibile averne "troppo". Infatti, non appena si esagera, non parleremo più di coraggio ma di temerarietà incosciente, che è ben altra cosa.
Tuttavia, fateci caso, se pensassimo in termini di "regole" non varrebbe niente del genere. Non esistono regole "assolute", nemmeno per l' "assolutista" che si batte contro il "relativismo etico".
Anche se pensassimo alla regola più ovvia: "non uccidere l' innocente", possiamo raffigurarci delle valide obiezioni.
Per esempio, se il sacrificio dell' innocente, magari un vecchio prossimo alla morte, ci consentisse di salvare 10 innocenti, magari bambini, potremmo anche ritenere sensata una trasgressione. Nessuno griderebbe al relativismo. (E se 10 vi sembrano pochi potete provare con 100 o 1000 finché raggiungerete di sicuro un numero a voi consono).
Insomma, la virtù è assoluta, la regola mai. Ecco allora dove si ingenerano equivoci. Il discrimine non passa tra assolutismo e relativismo ma tra deontologia e virtuismo.
Assolutisti e Relativisti se ne dicono di tutti i colori ma forse solo perché i primi hanno in mente un' etica fatta di virtù, i secondi di regole.
2. MORALITA' E MORALISMO
Una volta precisata la distinzione tra etica virtuistica ed etica deontologica, ipotizzo un vantaggio che la prima potrebbe avere sulla seconda, ovvero promuovere la moralità senza moralismi.
Anche qui attingo alla mia esperienza personale partendo dall' assunto difficilmente confutabile che il mondo religioso sia più sensibile alla virtù mentre quello ateo/laico alla deontologia.
Ebbene, nella mia esperienza riscontro molto più moralismo nel secondo! Qui le prediche sono continue e non manca mai nemmeno l' ateo che ti fa le pulci in quanto credente ("perché non aiuti di più i poveri tu che vai a messa?", "perchè non fai volontariato tu che frequenti l' oratorio?", "perché non difendi la legalità tu che sei così pronto alla sottomissione papale?", "perchè voti quel partito tu che dovresti essere il più solidale tra i solidali?", eccetera). Taccio poi di quella schiera di intellettuali non credenti che sembra abbiano una sola passione nella vita: insegnare al Papa come si fa il Papa. Il moralismo laico tende a vedere nel credente un ipocrita in pectore proprio perché nella religione non vede altro che precetti morali, non sa capirla in altri termini, per lui la fede è solo un modo per fondare stabilmente quei precetti e nel momento in cui il credente "manca" diventa per definizione un ipocrita.
Riconosco che in passato forse non era così, il perbenismo moralista allignava per lo più tra i credenti, ma ora ho la sensazione che le cose siano radicalmente cambiate. Di certo non viviamo nel paese del bengodi, sta di fatto che da noi crisi, mafia, corruzione, evasione, illegalità hanno trasformato in "pretonzoli" molti osservatori che, a corto si soluzioni, vedono come unica via di scampo l' avvento della "bontà universale", cosicché cercano di propagarla a suon di prediche (chi al bar e chi sui giornali più prestigiosi).
Qui voglio sostenere che questa percezione, ovvero il moralismo pervasivo del mondo laico, ha una spiegazione razionale, ovvero che è in un certo senso è il portato necessario di un' etica deontologica. Ecco allora il primo argomento di cui al titolo: l' etica delle virtù ci salva dal moralismo.

Dimostro la tesi con un esempio.
Giovanni è persona morale, Giuseppe è un moralista.
Qual è la differenza tra "morale"? e "moralismo"?
Giovanni vede nel comportamento morale una virtù. Il comportamento morale ha in sé qualcosa di spontaneo, non lo si inculca. E al limite, se lo si inculca, lo si inculca da subito, da bambini, la virtù , lo dicevo nel paragrafo precedente, poi cresce con noi. Se non è innata, è per lo meno un' abitudine radicata.
Giuseppe, invece, vede nel comportamento morale l' osservazione di una regola (deontologica). La regola sta lì davanti a noi, ci viene calata dall' alto e noi siamo chiamati ad osservarla. La nostra libertà, poi, ci fa decidere pro o contro.
Giovanni è un "evoluzionista": la regola morale "emerge" in noi e fa parte di noi, è consustanziale alla nostra natura e all' educazione ricevuta.
Giuseppe è un "riformatore": per lui l' autorità morale stabilisce la regola ottima e la propone alla nostra intelligenza. Gli altri ne prendono atto e scelgono se ubbidire. Quando l' autorità muta, cambierà i calcoli e riformerà la regola ottima e gli altri si adegueranno obbedendo.
Per Giovanni i precetti etici sono assimilabili ad una legge naturale, per Giuseppe il concetto di etica converge con quello di legalità.

Per Giovanni il passato ha un valore importante visto che le virtù si dimostrano tali nella prova con il tempo e reggono il vaglio evolutivo. Per Giuseppe il tempo ha meno importanza, se i nostri calcoli ci dicono che le vecchie regole sono sbagliate la cosa migliore è fare tabula tabula rasa e ricominciare da zero.
Per Giovanni le prediche e le crociate hanno poco senso. Le regole morali sono in buona parte innate nella nostra persona, e se anche non lo fossero, vengono comunque interiorizzate dal soggetto solo grazie ad abitudini che si radicano in una vita intera. Non ha senso "esportare" la morale a terzi, a meno che si ritenga che un certo comando morale appartenga già alla natura del "terzo". Gli uomini, o perlomeno gli uomini adulti, sono "irriformabili", non ha senso convincerli con una predica o una crociata. Cio' non significa che siano immorali ma che possiedono una loro sostanza morale che magari è differente dalla nostra.
Per Giuseppe le prediche e le crociate hanno invece senso. Se c' è un comando che Tizio non rispetta, noi possiamo convincerlo o costringerlo a rispettarlo. L' uomo immorale puo' essere "riformato" perché la sua scelta è un' opinione e tutte le opinioni possono cambiate. L' uomo immorale puo' essere convertito poiché la regola morale deriva da un "calcolo" e i "calcoli", se sbagliati, devono e possono essere corretti.
Certo, ad un discorso del genere non mancano le obiezioni, ne vedo emergere almeno un paio obiezioni ficcanti:
1. Sebbene la crociata di "conversione" degli altri adulti sia insensata per chi crede nelle virtù. resta praticabile la crociata di "conversione" dei bambini.
2. Sebbene la crociata di "conversione" dia insensata per chi crede nelle virtù, resta praticabile la crociata di "sterminio".
La prima, più che un' obiezione, è un argomento di segno opposto che accetto, i rischi ci sono e se la virtù è caduta in disgrazia lo dobbiamo agli eccessi del passato. La seconda mi sembra poco verosimile, voglio sperare che certe epoche buie appartengano ad un passato irreversibile.
3. LAICITA'
Per quanto sia possibile dividere la deontologia dalla virtù, nessuno di noi aderisce completamente ad un' opzione piuttosto che all' altra. Anche il "deontologista" più radicale è disposto ad assegnare un ruolo all' educazione, così come il virtuista ammetterà sempre l' esigenza di regole precise.
Chi distingue tra queste due realtà etiche è nelle condizioni ideali per elaborare il concetto di laicità: Il laico distingue tra regole e virtù ammettendo che le prime richiedano un' applicazione coercitiva mentre per le seconde basta la sanzione della propria coscienza.
4. IL DISCORSO DELLA MONTAGNA
Mentre l' antico testamento prediligeva un approccio deontologico - il decalogo calato dal Sinai è esemplare - Gesù ci introduce alla virtù: nel discorso della Montagna, da un lato invoca la Misericordia nel giudizio divino sugli uomini, dall' altro inasprisce i doveri di questi ultimi: non basta evitare l' adulterio ma si è chiamati a non pensare nemmeno alla donna d' altri. Non basta andare d' accordo con la propria sposa, non bisogna nemmeno separarsi da lei (revocata quindi la possibilità di divorziare introdotta da Mosé). Se con Mosé, poi, era illecito uccidere, con Gesù non bisogna nemmeno adirarsi. Se prima vigeva la legge del talione ora bisogna "porgere l' altra guancia".
E' chiaro che in un' ottica virtuosistica la Misericordia è imprescindibile. Lo è per il semplice che non esiste più il "giusto", tutt' al più esiste il "giustificato" e non si puo' essere giustificati senza un atto di misericordia.
Da sempre i cattolici sono i custodi della virtù contro l' etica deontologica.
5. LIBERALISMO E VIRTU'
C' è chi pensa che l' etica della virtù sia incompatibile con il liberalismo: avere standard troppo elevati ci rilassa sull' applicazione delle regole minime.
Non mancano gli argomenti a favore di questa ipotesi, a cominciare dalle deludenti performance di molti paesi cattolici. Inoltre, la nostra riserva di moralità sembrerebbe limitata; chi punta in alto rischia di mancare sui fondamentali.
Però esistono anche argomenti che rendono l' abbinata liberalismo/virtù particolarmente avvincente, e qui vengo al mio secondo argomento.
Dobbiamo riconoscere che l' esercizio spontaneo della virtù è essenziale affinché una società libera funzioni: non basta non uccidere il nostro prossimo per vivere una vita felice. Voi che ne dite?
La stessa sacrosanta libertà di espressione, se non temperata dalla virtù e dal buon senso, puo' fare danni irreparabili.
Di fronte a questa realtà ineludibile come si comporterà chi non crede nella virtù o non la tiene in conto? Semplice, non ha che una scelta: stabilire una moltitudine di regole minute e coercitive che rendano la vita sociale accettabile.
Se la libertà di espressione rischia di essere dannosa la restringeremo grazie ad una regolamentazione stringente che vagli caso per caso cosa è lecito e cosa non lo è.
Questa via fatta di proibizionismi non è invece una via obbligata per coloro che credono e promuovono la virtù. Costoro possono pensare: fissiamo alcune regole di base (deontologiche) e per il resto affidiamoci alle virtù che l' uomo sa sviluppare spontaneamente. In questo modo le regole coercitive di base possono realmente minime, ovvero coerenti con l' assunto liberale.
Ecco allora emergere il secondo argomento di cui al titolo: l' etica virtuistica ridimensiona l' uso della coercizione.
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6. FELICITA' E VIRTU'
La psicologia mi offre il destro per enunciare il terzo argomento di cui al titolo: chi crede nella virtù e cerca di praticarla è una persona mediamente più felice.
Capisco che il tema della felicità umana sia insidioso, il bulldozer della scienza ha abbattuto molti ostacoli ma forse per addentrarci in questo genere di misteri una novella di Flaubert   è ancora il modo migliore (consiglio: "Un cuore semplice"). Tuttavia, su alcune tesi si riscontra una convergenza tale che mi parrebbe strano  non contengano un grano di vero.
L' uomo è felice se sente  una certa "nobiltà" nella propria missione, una certa "grandezza", un significato che vada oltre le preoccupazioni prosaiche della vita quotidiana. L' obiettivo che persegue deve comportare un sacrificio, essere generosi, per esempio, aiuta a sentirsi bene, il dono di sè a quanto pare è importante innanzitutto per se stessi.
Ebbene, il rispetto della regola deontologica minimale ci massifica, è difficile sentirsi "realizzati" perché abbiamo compilato correttamente un modulo o perché non abbiamo violentato il nostro vicino di casa. Per contro una vita virtuosa ci nobilita: se ci siamo sacrificati, anche oltre il ragionevole, per il bene dei nostri figli il nostro cuore è in pace e possiamo goderci la vecchiaia. Se abbiamo resistito alle lusinghe di un facile amorazzo, che a pensarci bene non avrebbe fatto male a nessuno, torneremo ad amare ancora più felici nostra moglie. Insomma, la vita virtuosa ci proietta nella dimensione ideale per perseguire una realizzazione personale, ci fa sentire partecipi di un progetto ambizioso. La vita virtuosa ha il pregio di essere contemporaneamente elitaria e a disposizione di tutti. Crescere un figlio è "qualcosa di unico che fanno tutti". C' è qualcosa di miracoloso in tutto cio', sarebbe da stupidi lasciarselo scappare.
NOTE
(*) Sia chiaro, il timore del relativismo non è campato in aria, è il frutto di una storia ben precisa del pensiero occidentale, senonché oggi, secondo me, abbiamo superato quello stadio. A titolo esemplificativo redigo una piccola storia della pedagogia che illustra un percorso di andate e ritorno rispetto ai Valori. Qui si vede bene come il pericolo relativista incombesse ma anche come sia ormai alle nostre spalle:
  1. Aristotele: è doveroso formare il carattere morale del ragazzo inculcando un' etica basilare fatta di: 1) rispetto (dell' altro e della sua proprietà), 2) lealtà (alla parola data), coraggio (voglia di intraprendere con l' altro) 3) buone maniere (non approfittarsi del diritto alla libertà) 4) temperanza (self contro e successo sono legati a doppio filo). il bambino, secondo Aristotele, è un "barbaro da civilizzare". Tra noi e gli animali spicca una differenza: noi possiamo trasmettere la nostra cultura, loro devono ricominciare sempre da capo, tanto è vero che noi andiamo avanti e loro restano fermi.
  2. La pedagogia aristotelica è condivisa un po’ da tutti nella storia: greci, romani, illuministi, romantici, vittoriani. Nel novecento il paradigma muta.
  3. Si realizzano eccessi che trasformano il metodo di Aristotele in un metodo "zero-tollerance": qui l' educatore si allontana dal discente  trasformandosi da civilizzatore in punitore distante.
  4. L' accusa della pedagogia progressista scatta immediata ma non prende di mira la sopravvenuta lontananza del genitore quanto cio' che viene chiamato indottrinamento se non "lavaggio del cervello". Tuttavia, "violentare" il carattere di una persona è possibile solo se la persona è autonoma, cosicché viene postulata l' autonomia del bambino.