lunedì 23 dicembre 2019

PAROLE AMBIGUE: COOPERAZIONE.


Vi piace la parola "cooperazione"? Scommetto di sì. Negli anni sessanta era una parola d'ordine. Scommetto che ne desiderate sempre di più. Non è forse quello che abbiamo ottenuto? E questo non ha portato ad aumenti piuttosto spettacolari nella disparità delle ricchezze?

Il fatto è che le persone di talento guadagnano di più in termini percentuali dalla cooperazione reciproca, almeno rispetto alle persone meno talentuose. La logica è abbastanza evidente. Supponiamo che si acollabori all'interno di due gruppi che chiameremo A e B ma che non vi sia alcuna collaborazione tra i due gruppi. Tuttavia, se la cooperazione si allarga i talentuosi di A collaboreranno con i talentuosi di B staccandosi nettamente dai meno talentuosi.

Organizzare la band del liceo fornirà un intrattenimento di qualità modesta. Tuttavia, se la scelta dei membri si allarga a tutte le scuole finiremo con avere i Beatles o i Rolling Stones che si accaparreranno tutti gli spettacoli in circolazione lasciando nella polvere le altre band.

i salari più alti nelle super-imprese digitali - che raccolgono i migliori talenti - rispetto a quelli delle imprese "normali", rappresentano oggi una quota importante della disparità di reddito.

Più cooperazione → maggiore disparità di reddito. Pensateci.

LA TRISTE VICENDA

Trigger Warning: qui parlo di aborto, argomento che puo' turbare chi non riesce ad affrontarlo su un piano unicamente razionale.
LA TRISTE VICENDA


Nella triste vicenda dell'aborto gli interessi in gioco sono tanti. Innanzitutto, quelli della madre, ovvero la sua sicurezza, la sua salute, ma anche gli oneri economici, emotivi e fisici della maternità. C'è poi il padre, che condivide gli oneri economici ed emotivi della genitorialità. Il feto mette in ballo nientemeno che la sua sopravvivenza. Infine la società in generale, che ha interesse nell'applicare la giustizia e preservare i diritti dei suoi membri. Il punto di conflitto sorge quando una madre (o entrambi i genitori) desiderano interrompere e sopprimere il feto prima del parte.
Prima di prendere di petto, qualche dato di contorno: 1) gli aborti sono in calo. 2) Per le donne sottoporsi ad aborto è meno rischioso che partorire. 3) Il rischio di un parto non è una bazzecola, ancora oggi sfiora quello di avere un incidente mortale in auto. 4) Le madri a cui è stato negato l'aborto hanno una probabilità significativamente maggiore ritrovarsi disoccupate, in condizioni di povertà e di utilizzare programmi di assistenza sociale (non traete conclusioni sui nessi) 5) i bambini indesiderati hanno una una maggiore probabilità di vivere in condizioni di povertà e di commettere crimini. 6) L'adozione è un'alternativa all'aborto ed elimina gli oneri socioeconomici a carico dei genitori. Tuttavia, l'adozione è raramente considerata. I gruppi pro-adozione denunciano che sia i pro-choice che i pro-life non presentano in modo adeguato questa opzione. E' anche vero che la capacità ricettiva dell'istituto è sottodimensionato rispetto agli aborti.
Ma poi, al di là del contorno c'è la pietanza, ovvero la domanda fondamentale: a che punto dello sviluppo del feto l'aborto diventa un atto eticamente deprecabile? Riduco a due le ipotesi in campo: 1)concepimento e 2) vitalità. Chi supporta la prima di solito ricorre alla cosiddetta "tesi del futuro", chi supporta la seconda alla "tesi della vita". Cerco di esporle in modo imparziale cosicché ognuno faccia la sua scelta, io alla fine non mancherò di assegnare la mia preferenza cercando però di tenere distinte le opinioni dai fatti.
Cominciamo dalla prima. In molti individuano nelle caratteristiche del feto - dimensione, livello di coscienza, capacità di provare dolore, ecc. - la variabile fondamentale su cui condurre gli approfondimenti del caso. Si sostiene cioè che una certa caratteristica, o la sua mancanza, conferisca al feto un diritto alla vita. Sfortunatamente, come vedremo, approcci del genere finiscono per avere effetti collaterali perversi, come quello di dare diritti a una pecora ma non a un bambino. Un punto di partenza più promettente lo fornisce il buon senso: chiediamoci perché uccidere un uomo come te o me sia sbagliato e verifichiamo se il medesimo standard sia applicabile o meno al feto.
Donald Robert Perry Marquis sosteneva, per esempio, che uccidere qualcuno come te o me sia prima facie condannabile poiché il defunto resta privato di una "vita futura", ovvero un bene che gli spetta di diritto. Il danno per il defunto, cioè, è la perdita del suo prezioso futuro prima ancora che la sofferenza per aver subito un atto violento. Questo è talmente vero che l'omicidio viene punito a prescindere dalla sofferenza della vittima. Chi muore nelle camere a gas non soffre, ma nessuno dubita che anche in questo caso un diritto sia stato violato. Chiaramente, questo approccio spiega perché sia sbagliato uccidere gli uomini adulti o i neonati, si tratta di soggetti che hanno un futuro, nessuno lo negherebbe. Lo sperma e un ovulo, al contrario, non hanno futuro che appartenga loro. A questo punto non resta che capire cosa ci troviamo di fronte nel caso dell'aborto. Le nostre intuizioni differiscono sullo status di un tipico zigote a singola cellula. Si puo' davvero dire che questo ente abbia un futuro? Un criterio prudenziale, ma soprattutto l'assenza di buone teorie alternative, consiglia una risposta affermativa alla domanda. Secondo molti, quella continuità di processo naturale che congiunge lo zigote all'individuo che sarà ci consente di parlare in modo legittimo di passato-presente-futuro. In altre parole: lo zigote è il nostro passato. E noi tutti siamo a pieno titolo il futuro di uno zigote. Se riuscite a pensare questa cosa non potete eludere la cosiddetta "tesi del futuro".
Secondo altri, invece, l'aborto è moralmente accettabile fino a quando il feto non sviluppa le strutture necessarie per la percezione degli stimoli esterni. La capacità da parte del feto di sperimentare una sofferenza cosciente è decisiva. Senza quella sofferenza, il "contorno" di cui sopra, ovvero il carico fisico, mentale ed economico imposto alla madre prevarrebbe. Poiché i requisiti minimi per la percezione cosciente sono effettivamente soddisfatti solo dopo la cosiddetta "vitalità fetale", sarà proprio questo momento a costituire la barriera etica che cerchiamo.
Ebbene, a livello empirico, alcune strutture neurologiche sono necessarie per la percezione del dolore. Pertanto, finché queste strutture non sono presenti e attive, la percezione non può verificarsi. Per provare dolore, il sistema nervoso deve formare le sue sinapsi spino-talamiche che si proiettano sul talamo, che poi si connettono a loro volta ai neuroni talamo-corticali, che si innervano nella corteccia (la regione della coscienza). Queste componenti devono essere tutte attive per consentire la percezione del dolore. Sulla base di studi multipli, i neuroni ricettivi si sviluppano intorno alle 19 settimane, gli afferenti talamici raggiungono la corteccia dopo 20-24 settimane e l'attività somato-sensoriale provocata dall'attività talamica è rilevabile intorno alle 28-29 settimane. Prima di tale sviluppo del sistema nervoso, l'esperienza del dolore di un feto sarebbe probabilmente simile a quella di un individuo in coma, ovvero nulla. Pertanto, quando si considera un aborto prima di questa fase di sviluppo, stiamo bilanciando (1) i danni indubitabili e sopra descritti che affronta la madre, un agente cosciente, contro (2) i danni inflitti ad un'entità che non "sperimenta" nulla. La tesi della "vitalità" comporta che di fatto il feto sia intoccabile solo dal momento in cui non richiede più un corpo entro il quale sopravvivere (a 28-29 settimane puo' essere tenuto in vita all'esterno). La "vitalità" rappresenta un momento speciale nello sviluppo di un feto, perché, oltre a provare dolore, superata questa soglia puo' vivere la sua vita senza rappresentare più un rischio significativo per il benessere fisico della madre.
I fautori della "tesi vitale" sostengono in sintesi che poiché un feto prima delle 28/29 settimane non è in grado di "soffrire in modo cosciente", è possibile abortirlo. Tuttavia, ci sono momenti in cui anche un uomo fatto e finito non è cosciente, per esempio quando è temporaneamente in coma. Gli stessi sostenitori della "tesi vitale" propongono questa analogia per il feto non vitale. Eppure, per quanto in quelle condizioni non si soffra, cio' non significa che si possa essere eliminati. Basta spingere oltre l'analogia per comprenderlo. La capacità cosciente di soffrire non sembra una variabile chiave per decidere cosa è consentito fare. Oltretutto, è improbabile che un feto vitale o un bambino abbiano un senso di sé molto superiore a quello di un cane o di un delfino. E' vero semmai il contrario, cosicché, stando alla "tesi della vitalità", dovrebbe essere lecito sacrificare i primi per salvare i secondi, cosa che contrasta in modo stridente con le nostre intuizioni. Per questi motivi, l'esperienza della sofferenza non sembra essere ciò che rende sbagliato raschiare un feto. In questo senso, la "tesi del futuro" sembrerebbe prevalere.
Ma davvero il "potenziale" conta quanto l'attuale? Molti non sono disposti ad accettarlo. Da un lato si dubita che abbia senso parlare del "futuro" di un feto; certo, immaginiamo cio' che diverrà, immaginiamo il suo potenziale ed estrapoliamo i suoi diritti da lì. Tuttavia, un feto incarna un potenziale ma non si può dire che "possieda attualmente quel futuro". Perché? Secondo Boonin, il valore intuitivo del futuro deve avere un corrispettivo in un valore attuale che nel caso del feto non c'è, visto che latitano le adeguate strutture neurologiche atte ad esperire la vita. Un feto vitale, al contrario, desidera il cibo, il contatto ravvicinato ed è sensibile alla voce dei genitori: è già cio' che sarà in futuro.
Quanto alla persona in coma, l'analogia per Boonin non regge: esiste una chiara distinzione tra un'entità che ha avuto in passato un'esperienza cosciente e un'entità che cosciente non è mai stata. Una persona che dorme in coma ha ancora i suoi ricordi, i suoi desideri, tutto è presente e codificato nel suo cervello al momento in un limbo; il fatto che sia temporaneamente inconsapevole non significa che non esistano più quei beni! Non abbiamo diritto di azzerare questo suo patrimonio. Al contrario, un feto prima di essere vitale non ha alcun desiderio, nessuna memoria, nessun patrimonio da dover preservare. Nel caso speciale di un feto, inoltre, l'ubicazione ha eccome un significato morale. Il feto che vive all'interno e dipende dal corpo della madre, comporta costi e rischi immediati per la l'ospite. Al contrario, una volta uscito da quel corpo, il feto/neonato non pone più di queste minacce, per quanto sulla madre gravino ancora i significativi oneri economici e sociali della maternità.
Francamente non so fino a che punto una replica del genere puo' risultare convincente. A me personalmente non convince. Il futuro di cui è privato il feto non dipende certo dal fatto che il feto ne debba averne coscienza qui ed ora. Nemmeno un bambino di 4 anni ha una buona comprensione di cosa significhi essere un 60enne, eppure del suo futuro fa parte anche quel periodo della vita. Se il bambino di 4 anni viene ucciso, ha perso non solo le relazioni che in qualche modo comprende in quanto bambino di 4 anni perché fanno parte della sua vita già in questo momento, ma anche un futuro estraneo a ogni discernimento attuale, come la sua carriera o i suoi figli, ovvero ciò che avrebbe trovato prezioso e significativo da adulto. Anche la replica sull'uomo in coma è carente. Si dice che costui, contrariamente al feto, ha una memoria già formata di cui verrebbe privato, che ha cioè un patrimonio pregresso, a fronte del nulla fetale. Tuttavia, le cose non cambierebbero affatto anche ipotizzando che azzeri tutta la sua memoria e la sua personalità precedente: l'interdetto ad uccidere rimarrebbe, e rimane in nome del suo diritto al futuro (visto che il passato non c'è più). Proprio come nel caso del feto.
Per concludere, personalmente considero rilevanti due fattori: 1) è ragionevole, in caso di sesso consensuale, attribuire ai genitori una qualche responsabilità nei confronti del feto che hanno procreato. Questo obbligo deriverebbe dal fatto che si sono impegnati in attività le cui conseguenze sono ben note, o dovrebbero esserlo. 2) In secondo luogo, nel valutare lo status del feto, la "tesi del futuro" mi sembra più stringente rispetto alla "tesi della vitalità". L'equiparazione tra feto vitale e delfino, nonché quella tra feto non vitale e uomo in coma, secondo me risolvono la contesa. Tuttavia, ammetto che vedere uno zigote monocellulare come persona va contro la mia intuizione, cosicché constato che all'attribuzione di questo status pervengo unicamente attraverso gli argomenti migliori a disposizione e le ragioni prudenziali.
Detto questo, ammetto anche di vedere con orrore la presenza di burocrati incaricati di far portare a termine le gravidanze. Favorirei piuttosto una legislazione decentrata a livello regionale con l'unico vincolo di consentire in materia un'obiezione di coscienza a tutto campo. La prima misura esalta la sperimentazione sociale di cui abbiamo sempre bisogno per il calcolo delle conseguenze, la seconda tutela dei diritti e impone un minimo di costo a chi intraprende attività che mi sembrano eticamente condannabili.

domenica 22 dicembre 2019

L'ESTINZIONE DEL DUELLO

Nelle società avanzate la violenza sta sparendo, sparirà forse anche il disaccordo?
In passato, la violenza era parte integrante della vita. Certo, c'erano regole che incolpavano chi la iniziava ma non era facile per gli osservatori applicarle, ed altrettanto difficile convincere gli omertosi a denunciare. Cosicché i combattimenti erano all'ordine del giorno e la figura del guerriero celebrata per le virtù del coraggio, della forza e della lealtà.
Oggi, non si tollera nemmeno il fisiologico ruzzare degli adolescenti, le cose sono radicalmente mutate. Il fatto è che le norme per individuare "chi inizia" la violenza possono essere applicate in modo molto più perentorio, siamo pieni di telecamere disincentivanti e la nostra capacità osservativa è ipertrofica. Andiamo verso la "società trasparente". I combattimenti, di conseguenza, sono molto più rari, eccellere in questa arte è diventato secondario. La nostra ammirazione non va all'eroe ma al genio che riesce ad incastrare "chi ha iniziato", ovvero il colpevole, il genio che ci consente di fare giustizia. Siamo sempre meno colpiti dal coraggio, dalla forza e dalla lealtà, preferiamo che le persone usino in altro modo queste doti. D'altro canto, guardiamo con diffidenza l'impulsività e la mancanza di empatia, ovvero quelle caratteristiche che fanno da innesco alla violenza e rendono una persona socialmente pericolosa.
Che parallelismo c'è tra disaccordo e violenza? Ha senso dire che "qualcuno inizia un disaccordo"? E come capire chi "inizia un disaccordo", chi è "colpevole" di un disaccordo. Forse un modo c'è. Chi ha fatto ricerche su questo argomento ci dice che la persona "intellettualmente onesta" esprime la sua accurata opinione senza saper prevedere il disaccordo altrui. Cioè, mentre A e B possono avere opinioni diverse, A, se è onesto, non può prevedere che quella di B sarà diversa dalla sua. Un disaccordo del genere è genuino, è sano, non è iniziato da nessuno.
Nel momento in cui io so in anticipo chi è d'accordo con quello che dirò e chi no, meglio per me tacere. In caso contrario sto già "iniziando" una guerra di opinioni. Sono già censurabile in quanto "intellettualmente disonesto". Facciamo il caso estremo: se insulto qualcuno è perfettamente prevedibile che costui non sia d'accordo. Non a caso l'insulto è la forma più censurabile tra gli scambi verbali. Naturalmente è proprio questa oggi la situazione più comune, così come un tempo il combattimento armato era la norma. Ciò implica che nei vari disaccordi che infiammano il dibattito pubblico, una o entrambe le parti non siano oneste, non rispettino le regole della buona discussione. D'altronde, per queste regole non esiste nemmeno una sensibilità spiccata, non le abbiamo ancora interiorizzate, la loro violazione non ci indigna. In una condizione del genere la suddivisione in "noi" e "loro" è la norma, e vengono molto apprezzate la lealtà alla causa, la potenza retorica e la brillantezza argomentativa.
E' parimenti possibile immaginare che alcune caratteristiche delle persone rendano più manifesta la loro disonestà intellettuale. Per esempio, la persona che non cambia mai idea sarebbe altamente sospetta (il testone), la persona molto espressiva anche (il brillantone), l'ignoranza nel merito (il verace) è un altro indizio. Ma se è possibile immaginare tutte queste cose, allora è possibile immaginare un mondo in cui queste "doti" si trasformeranno in disvalori da stigmatizzare, il disaccordo sarà molto meno prevedibile rispetto ad oggi, o addirittura minimi e in via di estinzione, esattamente come potrebbe estinguersi la violenza.
Di fronte a uno scenario futuro di questo genere, molte persone potrebbero avere una sensazione di soffocamento e repressione. Normale, si tratta di persone che godono molto della libertà di non essere d'accordo con nessuno, esattamente come presso gli antichi una persona poteva apprezzare la libertà di entrare in conflitto e sfidare a duello chiunque potendo esibire il suo coraggio e la sua abilità di combattente.

venerdì 20 dicembre 2019

IL MALE ESISTE, NON GUARDARLO MAI NEGLI OCCHI (pensieri poco natalizi).

LA TIRANNIA DEI FALLITI E GLI ASPIRANTI ALLA SANTITA' (pensieri poco natalizi).
La vita è dura e ogni tanto qualcuno cade, cede, molla gli ormeggi, si lascia andare alla deriva, si lascia sommergere. Che fare di fronte a questa gente?
A volte sono tuoi ex amici, gente con cui hai passato la giovinezza. Magari, ai bei tempi, erano anche tipi brillanti, con una loro certa intelligenza originale; eppure, se ci ripensi bene, qualcosa lasciava già intuire quella fine, forse una loro eccessiva rabbia, un certo nichilismo ostentato, un culto della desolazione punk, un'insoddisfazione perenne che li faceva scivolare su un piano inclinato verso la rovina. Chissà, hai pensato per un attimo, forse qualcosa va storto in famiglia. Questa gente, più ha problemi più frequenta gente con problemi, e la pressione dei pari è decisiva nello spedirli all'inferno. Si comincia a fumare, a bere, e ogni festa è per loro occasione di sballo. Non c'è niente di più triste che una festa a luci basse tra adolescenti, penso che nessuno ne abbia una sincera nostalgia, non sorprende che in posti del genere si finisca regolarmente per pippare o per bere. Ma c'è sempre qualcuno, ispirato dagli psicopatici che gironzolano in questi ambientini, che si affeziona un po' troppo a questi diversivi. Ognuno di noi "giaceva" sui divani e, facendo finta di aspettare l'apparizione di una ragazza meravigliosa, si aspettava Godot. Sono feste che ti fanno diventare prematuramente cinico e stanco del mondo. I sani di mente, dopo un paio d'ore, desiderano ardentemente essere altrove. La maggioranza questo "altrove", poi, lo trova, si costruisce una vita migliore lontano dalla compagnia, ha un nuovo inizio e fugge dall'opprimente cultura adolescenziale, esce dal "tunnel del divertimento". Poi, un giorno, vieni a sapere del tramonto di Tizio, uno che in quel tunnel è rimasto intrappolato. O magari lo reincontri cogliendo nel suo imbarazzo gli inevitabili segni del declino.
Che cosa ha reso questa gente degli eterni adolescenti incapaci di cambiare o di migliorare le le loro amicizie? Era tutto inevitabile? Una mera conseguenza di limitazioni già presenti fin dall'inizio e/o imputabili a traumi del passato? L'uso pesante di marijuana ha peggiorato i problemi o è stata una forma di automedicazione palliativa? È stato il nichilismo a spianare la strada al collasso, o quel nichilismo era solo una razionalizzazione intellettuale del disagio? La tara innata è maggiore di quanto pensi l'inguaribile ottimista, ma non è tutto.
Sentiamo gli psicologi. Loro dicono che a volte, quando le persone hanno una bassa opinione di se stesse - o, forse, quando impaurite rifiutano le responsabilità della vita - scelgono di insistere nei loro errori, per quanto riescano a discernerli come tali. Queste persone non credono di meritare alcunché e cio' genera una spinta inconscia a ripetere gli orrori del passato. Lo chiamano "comportamento compulsivo". C'è come una riluttanza ad imparare. Anzi, un vero rifiuto. Quasi dicessero: "io sono così, che vuoi fare di me?". Frequentare una cattiva compagnia è una conseguenza di questa inclinazione.
Ma una cattiva compagnia si frequenta anche in preda alla ben nota "sindrome della crocerossina": le persone scelgono gli amici sbagliati perché vogliono "salvarli". La colpa è dell'eccessiva empatia oppure dell'eccessiva ingenuità. Non tutti i falliti sono vittime, infatti. Molti di loro, non solo accetteranno ma addirittura amplieranno la propria sofferenza (cercando di coinvolgere chi sta loro vicino), come prova dell'ingiustizia del mondo. Non è facile distinguere tra qualcuno che ha bisogno di aiuto e qualcuno che sta semplicemente sfruttando una persona volenterosa. C'è una "tirannia dei barboni" da cui tenersi alla larga. Ma, oltre all'ingenuità, il tentativo di salvare qualcuno è spesso alimentato dalla vanità e dal narcisismo. Avete presente l'amaro classico di Fedor Dostoevskij "Memorie dal sottosuolo"? Un libro che a suo tempo elevai a culto. Proprio all'inizio, l'auto-candidato "salvatore" si descrive così: "Sono un uomo malato ... Sono un uomo sgradevole. Sono un uomo poco attraente. Credo che anche il mio fegato sia malato...". Offrirà il suo aiuto a una persona veramente sfortunata, Liza. Su di lei scatenerà le sue fantasie messianiche. Le cose finiranno male, ovvio. Una perversione così spaventosa e credibile è oro per la penna di uno scrittore dotato. Quest'uomo era era stato umiliato, quindi voleva umiliare; era stato trattato come uno straccio, quindi volevo mostrare il suo potere. In fondo è un cattivo consapevole e disperato per la sua cattiveria. Ma un malvagio consapevole e disperato per la sua sorte non diventa certo un eroe, occorre, per la propria sanità mentale, girare al largo da lui. Obiezione: ma Cristo ha cercato l'amicizia di prostitute ed esattori delle tasse? Il peggio del peggio. Perché giudicare così aspramente chi cerca di aiutare? Risposta: Cristo era l'archetipo dell'uomo perfetto. Pensi davvero di essere vicino a quel modello? Pensaci due, tre volte.
La mela marcia contagia tutto il cesto, questa è una verità acclarata. Immagina il caso di un supervisore aziendale che metta insieme una squadra eccellente, tutti tesi verso lo stesso obbiettivo, tutti laboriosi, brillanti, creativi e uniti. Ma c'è anche un lavoratore in difficoltà, svogliato, in ritardo, deconcentrato. Puo' darsi che il nostro manager ben intenzionato sposti quella persona problematica inserendola nel dream team. Assisteremmo ad una redenzione? No. La letteratura psicologica è chiara su questo punto. Sarebbe il dream team a risentirne, a degenerare. Il nuovo arrivato rimarrebbe cinico, arrogante, nevrotico e pigro. Si lamenterebbe, si agiterebbe, contagerebbe il prossimo per il semplice fatto che essere viziosi è molto molto molto più facile che essere virtuosi. La stessa cosa accade puntualmente quando si cerca di reinserire un delinquente adolescente tra pari relativamente civilizzati: è lui che prenderebbe le redini del comando diffondendo il suo stile di vita. Ergo: quando vuoi fare del bene, sei davvero così sicuro che la persona a cui ti dedichi non abbia già deciso di accettare la sua "comoda" sofferenza? Non abbia già deciso di peggiorare? No perché quella è la strada più facile da battere, e quindi quella sarebbe la decisione più semplice. In questi casi il tuo disprezzo sarebbe più salutare della tua pietà! La vicinanza di quelle persone sarebbe un danno per te, la loro malvagità è una comoda scorciatoia, hanno deciso di sacrificare il futuro al presente.
Prima di aiutare qualcuno, dovresti scoprire perché quella persona è nei guai, non dovresti semplicemente supporre che sia la nobile vittima di un qualche sfruttamento: sarebbe la spiegazione più improbabile. Convincersi che il responsabile del male sia sempre da cercare lontano dalla vittima significa togliere dignità alla vittima stessa spogliandola di ogni potere su se stessa. Pensare che il vizio non esista, che pensarci sia il residuo di una mentalità passata è facile ma illusorio. Al contrario, spesso il vizio non solo atterra le persone ma persiste nel momento in cui chiedono aiuto, talvolta, infatti, la sofferenza esibita non è che la richiesta di un martirio altrui che cerchi di evitare l'inevitabile. Un martirio sprecato per stupidità o narcisismo di chi lo offre. Talvolta la miseria di chi chiede è una trappola per atterrare chi risponde, un modo per ridurre il divario che fa tanto soffrire gli invidiosi e i perversi. Talvolta la volontà di fallire è inesauribile, serve al fallito, non puo' farne a meno, è la sua droga (qui dovrei citare Cioran). Forse è la sua personale vendetta contro l'Essere. Come puoi farti amico un tipo del genere? In fondo fallire è facile e comodo, per fallire devi semplicemente coltivare alcune cattive abitudini e attendere che le cose si compiano. Carl Rogers, il famoso psicologo, ci garantisce che è impossibile convincere qualcuno a cambiare in meglio se lui non lo desidera. Chi resta in una relazione malsana col fallito, lo fa perché troppo debole e indeciso per squagliarsela, continua ad aiutare e si consola con il suo inutile aiuto. Se hai un amico la cui amicizia non consiglieresti a tua sorella, perché dovresti tenertelo tu? La lealtà non coincide con la stupidità. La lealtà deve essere negoziata in modo equo e onesto. Per questo sei chiamato a giudicare anche i tuoi amici: se ti vuoi fare promotore del bene disturberai necessariamente qualcuno allontanando chi ti fa perdere tempo. E non pensare che sia più facile stare con i "buoni": è molto più facile la compagnia dei cattivi. Una persona buona è un ideale, starle accanto richiede forza, audacia e tanta umiltà. Ma soprattutto il buona non tollera la compassione acritica, uno specchietto per le allodole in cui cascano regolarmente tutti gli aspiranti alla santità.

giovedì 19 dicembre 2019

GRAZIE, GESU' BAMBINO.

GRAZIE, GESU' BAMBINO.
La parte più odiosa del Natale è la mattina quando i bambini eccitati e con la bava alla bocca si fiondano su dei regali che, sotto l'albero, assumono un'aria terrorizzata. Frammenti di carta multicolore che volano verso il cielo come coriandoli a Carnevale e ricadono invadendo il soggiorno. Cinque minuti dopo, i pacchetti sono tutti sventrati, i bambini siedono ansimando sul divano e gli astanti si chiedono che cavolo fare per le prossime 10/11 ore. Se devo figurarmi l'orgia consumistica non penso alle strade del centro o ai furgoni delle consegne Amazon parcheggiati sul marciapiede, penso alla fregola nel disimballaggio della mattina di Natale.
Ecco, mi piacerebbe che questo incubo non si ripetesse. Ma come fare? Potrei schedulare i regali: il regalo delle 8.00, quello delle 12.00, quello delle 17.00, eccetera. Chi rispetta gli orari avrà un regalo supplementare il ventisei. Oppure una regola del tipo: non puoi scartare il prossimo regalo finché non avrai scritto un biglietto di ringraziamento per quello che hai appena scartato. Niente più dell'idea di "ringraziare" è lontana dalla mente di un bambino che si aggira per casa famelico la mattina di Natale. La mia speranza è che espedienti del genere ci costringano a rallentare, a guardare seriamente ogni dono e magari - miracolo! - a riflettere un nano-secondo sul donatore. Non so se la gratitudine come conteggio forzato delle benedizioni funzioni, la mia speranza è che sia meglio di niente, che sia una forma di introduzione ad un sentimento ingiustamente obsoleto.
Le gratitudini sono di tanti tipi, c'è quella consapevole che fa caso a quanto c'è di buono al mondo. La considero completamente estranea alla nostra dimensione. Pura formalità da relegare nelle preghiere recitate senza ascoltarsi. C'è poi la gratitudine come cortesia, a cui la mia prole - con mio grande scandalo - oppone una strisciante resistenza nonostante le mie urla sottovoce e a mezza bocca: "contatto-visivo, contatto-visivo". Tanta sensibilità da parte mia su questo tema è dovuta probabilmente al fatto che un eventuale cattivo pensiero dell'adulto umiliato ricada sul genitore. C'è poi la gratitudine come reciprocità: da Adam Smith a Seneca in tanti hanno sottolineato l'idea di gratitudine come rimborso parziale di un debito. Qui i bambini sono solo leggerissimamente più sensibili ("cos'è quella roba Vichi?", "un regalo per la Miriam che mi ha regalato gli orecchini della Barbie...").
Eppure, la gratitudine di stare al mondo dovrebbe abbondare presso le nuove generazioni, ereditano un mondo fantastico: la violenza e le malattie sono più rare; siamo straricchi, siamo stra-istruiti. Rispetto solo a 100 fa andiamo che è una favola, perché allora la gratitudine è tanto difficile? Faccio un po' il finto tonto, in realtà lo so bene perché: sono i problemi che ci chiedono di agire, i "non problemi" no. Perché mai dovrei spendere energie per i "non problemi"? Gli psicologi chiamano questo fenomeno "l'asimmetria del vento": i ciclisti si accorgono che c'è vento solo quando spira contro, mai quando ce l'hanno alle spalle.
Eppure leggo che la gratitudine è un sentimento potente, difficile da far scattare ma quando la esprimi a qualcuno in modo diretto e inaspettato, ti puo' riscaldare il cuore per settimane. Se c'è una persona che a queste cose ci crede è A. J. Jacobs, un tale che ha cercato di ringraziare chiunque abbia contribuito alle sue gioie. Si è accorto così della moltitudine che ha al suo servizio. Prima di bere il caffé diceva una breve preghiera per il barista. Ma non si è fermato lì: ha persino telefonato all'esperto del controllo di qualità della sua marca preferita per ringraziarlo personalmente. Lo stesso ha fatto con gli agricoltori che producevano i magici chicchi e con i lavoratori che spargevano regolarmente gli anti-parassitari nei magazzini di deposito. Non la finiva più di telefonare, e più telefonava più si sentiva meglio. Da qualche parte sulla rete potete trovare il libro dove racconta bene la sua storia.
Ecco, se il buon Jacobs ha fatto più di 1.000 telefonate per quella tazzina di caffè, noi potremmo benissimo scrivere un biglietto di ringraziamento alla nonna o a Gesù Bambino prima di aprire il prossimo regalo. O no?

https://feedly.com/i/entry/gj49Ct2pFQH7aQI92pAQT83HaIjwDuyYZb9Mvj40IpM=_16f1e1199eb:64057:d0c89438
https://feedly.com/i/entry/Nkn6RK6HwBgWrvMj84SxHg63I5Wn8O87ZvoPCQT30Mw=_16f1e245ff0:2f268c:c84ffc39

Polemiche negli USA: gli studenti americani sembrano indietro nei test PISA.

O forse no? O forse è vero il contrario?

In fondo gli asiatici americani fanno abbastanza bene rispetto agli asiatici di altri paesi, i bianchi americani fanno abbastanza bene rispetto ai bianchi di altri paesi, e così via. Se intendi spiegare le differenze tra i vari paesi, la razza sembra essere una variabile potente. Naturalmente, ciò è coerente con l'ipotesi nulla, secondo cui le differenze nei sistemi educativi non contano granché.


https://feedly.com/i/entry/ty+AzTYZ3TUuMuPycOdkUNamwQCXNpDbajbdLnbrc5c=_16f1ce06cd0:116bb2:c84ffc39

mercoledì 18 dicembre 2019

TABELLA DEL RISCHIO ESISTENZIALE

https://feedly.com/i/entry/ty+AzTYZ3TUuMuPycOdkUNamwQCXNpDbajbdLnbrc5c=_16f176f7813:1f7c171:69b9f616

CAPITALE E MERITO

CAPITALE E MERITO

Venticinque anni fa pensavo che Internet avrebbe eroso i vantaggi delle grandi corporation, creando un campo da gioco più paritario in cui le imprese meno dimensionate avrebbero potuto confrontarsi alla pari. Credevo che la rivoluzione telematica fosse un'innovazione a vantaggio dei "piccoli" e delle persone comuni. Credevo francamente che la diseguaglianza economica si sarebbe ridotta.
Come al solito mi sbagliavo. Ma perché?
Mi basavo su quanto avevo imparato a scuola, ovvero su un pensiero economico superato che metteva al centro della crescita il capitale. Internet stava rendendo il capitale relativamente marginale livellando grandi e piccoli. Ciò, pensavo, avrebbe rafforzato il potere dell'individuo senza capitale parificandolo al potere relativo delle grandi società piene di soldi da investire.
Ma l'economia del XXIesimo secolo non è come quella del XXesimo, è dominata da fattori immateriali, tra cui competenze tecniche e il talento manageriale. Questo cambia tutto: la risorsa scarsa ora è il merito, non il capitale. L'ascesa dei computer e di Internet ha aumentato notevolmente il potere economico delle élite in vari campi, non tutti tecnici. L'amara verità è che talento e merito concentrano la ricchezza ancora di più rispetto alla disponibilità di capitale.
La nuova economia del talento produce diversi effetti. Innanzitutto, piccoli team possono fare meglio di grandi masse di lavoratori. In un impianto automobilistico degli anni '70, introdurre un nuovo lavoratore nella catena di montaggio era facile. Far sì che il lavoratore fosse produttivo richiedeva una supervisione gestionale molto ridotta e solo un breve affiancamento con altri lavoratori. Ampliare la squadra era del tutto naturale per ampliare la produzione e i ricavi. Ma la programmazione del computer è diversa. Il problema della quantità non esiste: il prodotto finito è replicabile all'infinito a costo zero. D'altro canto, ogni nuova persona immessa nel progetto aumenta significativamente l'onere della gestione e della comunicazione inter-personale. Il team resta quindi piccolo per mantenere un'elevata qualità media. Pochi ma buoni vele molto di più che molti e di medio valore.
Un'altra caratteristica dell'economia postindustriale è che le persone più talentuose tendono a migliorarsi esponenzialmente. Piove sempre sul bagnato. Pensa al ciclo virtuoso di una stella del cinema. Per il suo talento e la sua reputazione, le vengono offerti ruoli sempre migliori. Chi ha già molto, avrà sempre di più. Le vittorie sono come un domino. Questo circolo virtuoso genera enormi barriere all'ingresso e crea un imperativo: "work with the best and forget the rest".
Le élite di oggi si riproducono per endogamia. Si dice che una tribù in cui i membri possono accoppiarsi solo con altri membri, si riproduca per endogamia. Oggi i dirigenti altamente qualificati tendono a sposarsi tra loro. Molto più di ieri. Non si cerca il complemento ma l'affine. Non si cerca qualcuno con cui dividere il lavoro da fare ma si cerca qualcuno con cui condividere i medesimi interessi. Un alto dirigente laureato del marketing di un importante ditta software non si unirà mai in matrimonio con un quadro diplomato di un'azienda di minuterie metalliche. Le élite si sposano per endogamia e questo è un fattore scatenante della diseguaglianza sociale.
Ci sono poi considerazioni organizzative da fare. Le start up o muoiono o esplodono. In questa fase di forte crescita devono evolversi molto rapidamente passando da una condizione di piccoli, semplici e informali a una condizione di grandi, complessi e sistematici. Il ritmo del cambiamento è sbalorditivo. Una società in forte crescita può diventare un'organizzazione completamente nuova ogni sei mesi fino a quando non raggiunge la maturità. Questo è un ambiente unico, insolito sia per chi è abituato alle piccole start-up sia per chi è abituato a lavorare in grandi aziende mature. Di conseguenza, le imprese ad alta crescita tendono ad avere bisogno di dirigenti che hanno avuto successo in altre imprese ad alta crescita. Solo loro possono vantare esperienza nel gestire questa fase "unica". Alla fine si cercano smpre gli stessi e la ricchezza si accumula sempre nelle stesse mani.
Morale: quando il merito soppianta il capitale le diseguaglianze esplodono.

martedì 17 dicembre 2019

IL MIO PROBLEMA CON IL SOVRANISMO

IL MIO PROBLEMA CON IL SOVRANISMO
Il mio principale problema con il "sovranismo" è che non credo nemmeno alla "sovranità". Non credo cioè che esista un' "obbligazione politica".

Si sarà già capito che questo è un post filosofico e non politico, anche perché di politica non ci capisco nulla. Non parla né di sardine né di finanziaria. Non parla neanche di "sovranismo", poiché è un termine il cui significato si sta formando in questi tempi e non mi è quindi ben chiaro. Il titolo, insomma, era solo un patetico tentativo di attirare l'attenzione.
Torniamo dunque a quel fantasma che cammina che è l' "obbligazione politica". Noto con un certo sgomento che, contrariamente a me, la maggioranza ci crede. Anzi, la dà per scontata. Gli argomenti più semplici per giustificarla sono quelli cosiddetti "consequenzialisti": se ubbidiamo al governo staremo meglio tutti. Il giudizio etico del "conseguenzialista" dipende dalle conseguenze. Il suo argomento ha due step: in primo luogo, si sostiene che il governo fa del bene a tutti noi. In secondo luogo, si sostiene che questo solo fatto ci impone dei doveri morali, in particolar modo quello di ubbidire.
Facciamo qualche esempio. Un primo effetto benefico attribuito al governo è quello della protezione dai crimini commessi da terzi. Chi è pessimista sulla natura umana - magari ispirato dal filosofo Thomas Hobbes - teme che la società priva di un governo si riduca a uno stato barbaro in preda ad una guerra perenne del tutti contro tutti. Il secondo effetto è la fornitura della legge, un insieme dettagliato, preciso e pubblico di regole di condotta sociale che si applicano uniformemente a tutti. Grazie alla legge siamo in grado di coordinarci. Il terzo vantaggio saliente è quello di avere una difesa militare contro gli attacchi esterni. Qui di seguito - nel chiedermi se esiste un obbligo di ubbidire ai politici - darò per scontato che questi benefici esistano.
Per fare un'analogia, prendiamo allora il caso in cui vedi un bambino affogare in uno stagno poco profondo: potresti facilmente salvarlo, anche se ciò comporterebbe sporcarsi i vestiti e perdere un po' del tuo prezioso tempo. Mi sembra ovvio che sia tuo dovere intervenire. Se il bambino affogasse nell'oceano e tu dovessi correre un rischio significativo per salvarlo, non saresti obbligato allo stesso modo. Ma qui siamo in un caso differente. Fuor di metafora potremmo dire che i fautori dell'argomento consequenzialista sostengono che l'obbedienza alla legge è necessaria affinché lo stato funzioni. Se troppi cittadini disubbediscono, infatti, lo stato crollerà e i suoi enormi benefici scompariranno.
Problema: molte leggi vengono regolarmente infrante ogni giorno senza che il governo crolli. Non è vero quindi che la tua obbedienza è richiesta per evitare il collasso sociale. Certo, ci sono alcune leggi alle quali dovresti obbedire per ragioni morali indipendenti. Ad esempio, non dovresti derubare altre persone. Ma questo è un dovere etico, non politico. Per difendere l'obbligo politico, si deve sostenere che esiste un obbligo di obbedienza che prescinde dal contenuto della legge.
Ritorniamo al caso del bambino che sta annegando nello stagno poco profondo ma questa volta, supponiamo che ci siano altre tre persone nelle vicinanze pronte a salvare il bambino. Sono abili nuotatori, non hanno bisogno di alcun aiuto; non vi è alcun pericolo che il bambino anneghi o soffra. L'analogia così riformulata sembrerebbe più in consonanza con l'obbligo politico: ci sono già sufficienti persone che obbediscono evitando il collasso sociale. La tua obbedianza è ridondante, non serve. Detto questo, sembreresti esonerato da ogni vincolo etico.
Ma se tutti ragionassero come te? Nel test kantiano la bontà di una regola si misura calcolando le conseguenze ipotizzando che tutti la osservino o che tutti la disattendano. Oggi parliamo di "utilitarismo della regola". Il conseguenzialismo semplice giudica i semplici atti, il conseguenzialismo delle regole giudica invece le regole generali. Prendi il caso di un prato appena seminato nel campus universitario. Studenti e professori sono tentati di prendere scorciatoie tagliando per il prato. Una persona che taglia non avrà alcun effetto evidente ma se lo fanno tutti, il prato sarà rovinato.
Ma il test kantiano non sembra uno strumento affidabile, in molti casi sembra assurdo. Supponiamo che decida di diventare ragioniere. La mia scelta sembra legittima ma cosa accadrebbe se tutti diventassero ragionieri? La società collasserebbe. La mia innocua scelta non passa il test kantiano. Certo, potrei formulare la regola in "scegli di diventare ragioniere a condizione che non ci siano troppi ragionieri" ma allo stesso modo le persone che disobbediscono alla legge potrebbero dichiarare che la loro regola è: "viola la legge se la cosa non non la violano già in molti".
A questo punto il cultore della sovranità dice: disobbedire è ingiusto nei confronti di altri membri della società, che generalmente obbediscono. Ma qui abbandoniamo le teorie "coseguenzialiste" per rivolgerci alle teorie dell' "equità".
Ragioniamo sul seguente scenario. Sei su una scialuppa di salvataggio con molte altre persone. Vi sorprende una tempesta e cominciate ad imbarcare acqua. Gli altri passeggeri si danno da fare per svuotare la barca tramite dei recipienti. I loro sforzi sono chiaramente sufficienti per stare a galla; pertanto, se rifiuti di dare una mano non ci saranno gravi conseguenze. Tuttavia, sembra ovvio che dovresti aiutare. Intuitivamente, sarebbe ingiusto lasciare che facciano tutto gli altri. Ecco, i sostenitori dell'equità dicono che disobbedire alle leggi di stato è una mancanza di rispetto verso chi adempie, esattamente come non dare una mano a svuotare la barca dall'acqua è una mancanza di rispetto verso chi lo fa alacremente.
Ma torniamo sulla barca e supponiamo che chi coordina le operazioni di salvataggio ti dica di andare a fargli un panino. Anche questo rientra nell'obbedienza dovuta? Fino a che punto devi spingerti nell'obbedire? Che relazione c'è tra equità e obblighi politici? Il fatto che esista un'obbedienza legittima non significa che tutto sia dovuto. Mi spiego meglio proseguendo con l'analogia: la scialuppa di salvataggio sta imbarcando acqua. I passeggeri si riuniscono e discutono su cosa fare. Una maggioranza (da cui ti dissoci) delega a Bob la soluzione. Bob ci pensa e decide che tutti devono smettere di scaricare l'acqua dalla barca e mettersi a pregare Poseidone, flagellarsi con il frustino e versare 20 euro a Giovanna. Domanda: se rifiuti di pregare, di auto-flagellarti o di pagare Giovanna, agisci in modo scorretto? Tratti ingiustamente i tuoi compagni di viaggio? A questo punto mi sembra logico che per capire quali sono i tuoi reali doveri, il contenuto dell'obbligazione sia imprescindibile. Non esiste un dovere di obbedienza al buio. Inoltre, se le persone sono obbligate a contribuire a mantenere l'ordine sociale, lo stato è altrettanto obbligato a formulare leggi da cui scaturisca questo obbligo. Nel deliberare leggi non necessarie per mantenere l'ordine sociale, e quindi legittimando la disobbedienza, lo stato si rende responsabile del collasso sociale, esattamente come fa lo sciagurato Bob.
A questo problema si aggancia il "problema dell'eremita".
Gli eremiti desiderano vivere in una condizione selvaggia, di certo non hanno bisogno di un governo. Quali obblighi hanno nei confronti della legge? Le popolazioni indigene preferirebbero addirittura che i coloni europei non fossero mai arrivati ​​nel loro continente. Che obblighi morali hanno? Gli anarchici rifiutano per principio ogni forma di governo. Che senso ha chiedere loro obbedienza? Difficile che esista alcun dovere in questo senso. Ci sono anche coloro che si oppongono a specifici programmi governativi, ad esempio i pacifisti. Supponiamo che gli i passeggeri sulla scialuppa di salvataggio credano che pregare Geova li aiuterà. Ma Giovanna crede che pregare Geova sarà dannoso, perché offenderà Cthulhu. Si oppone quindi al piano degli altri passeggeri. In questa situazione, sarebbe ingiusto che Giovanna si rifiuti di pregare Geova? Questo è il caso di coloro che si oppongono, per esempio, all'invasione dell'Iraq, al proibizionismo sulle droghe, alle restrizioni sull'immigrazione e a molte altre leggi controverse. Le controversie ragionevoli abbondano. Qui non c'è opportunismo e quindi non sorge nessun obbligo morale ad obbedire.
Altro problema: sembrerebbe sbagliato evadere le tasse per spendere i soldi in una nuova televisione. Tuttavia, sarebbe lecito farlo per usare quel denaro in un modo socialmente più utile rispetto al modo in cui verrà impiegato dal governo. Non sembrerebbe sorgere nessun obbligo di obbedienza se ci sono alternative preferibili.
Il conseguenzialismo non sembra fornire ragioni che legittimino l'uso della forza da parte dell'autorità politica. Supponiamo di essere a una riunione del consiglio in cui tu e gli altri membri state discutendo su come migliorare le vendite della vostra azienda. Sai per certo che il modo migliore per farlo è assumere l'agenzia pubblicitaria PIP. Il tuo piano è altamente vantaggioso per l'azienda, questo è un fatto. Tuttavia, gli altri membri non ne sono convinti. A questo punto estrai la pistola e imponi di votare la tua mozione. Un comportamento simile può essere giustificato ma solo in circostanze di emergenza. Altro esempio, se Maria ha un infarto e deve essere portata immediatamente all'ospedale potrei anche rubare una macchina per salvarle la vita e condurla al Pronto Soccorso. Quindi, forse, lo stato è giustificato nel coartare le persone violando i loro diritti se l'alternativa è il collasso sociale. Fin qui si puo' anche concordare. Quello che non è ragionevole fare è spingersi oltre. Ma la politica consiste essenzialmente proprio in questo "spingersi oltre".
Ricapitolando, nell'analogia della scialuppa hai il diritto di usare la forza per salvare l'equipaggio, ma questo diritto non è né completo né indipendente dal suo contenuto. E' un diritto altamente specifico: dipende dal fatto che il tuo piano per salvare la barca sia corretto (o almeno ben giustificato). Non puoi costringere gli altri a comportamenti dannosi o inutili. Non puoi usare le armi per costringere gli altri a pregare Poseidone, tanto per dire.
Detto questo, quante attività governative potrebbero essere considerate legittime su questa base? Dividiamole in nove categorie.
1) Leggi progettate per proteggere i diritti dei cittadini. Tipo quelle contro l'omicidio, il furto e le truffe.
2) Politiche progettate per fornire beni pubblici. Tipo la difesa militare.
3) Leggi paternalistiche. Tipo cintura di sicurezza e seggiolini per bambini.
4) Leggi morali. Tipo contro la prostituzione o il gioco d'azzardo.
5) Leggi per aiutare i poveri. Tipo salario minimo o di inclusione.
6) Leggi concesse alle lobby potenti. Tipo sussidi all'impresa.
7) Leggi progettate per garantire il monopolio dello stato. Tipo tribunali e polizia.
8) Leggi progettate per promuovere cose che sono considerate buone. Tipo pensioni, sanità e scuola.
9) Leggi per tutelare la tradizione. Tipo quelle contro i matrimonio gay.
Direi che, sulla base di quanto detto, legittime possono essere 1 e 2. Forse 7. Delle altre è concesso dubitare. Ma le altre sono il 90/80% delle attività di uno stato moderno!
Ultima questione: la sovranità puo' essere assoluta?
Torniamo sulla scialuppa e supponiamo che ci siano due passeggeri armati, Giovanni e Giuseppe, ognuno dei quali riconosce che la barca deve essere tratta in salvo e ha un progetto ragionevole per agire. Non si capisce perché uno dovrebbe avere più autorità dell'altro. Sembra, quindi, che la sovranità statale non possa essere assoluta, almeno se ci affidiamo alle giustificazioni conseguenzialiste. Altri agenti non sono meno legittimati dallo stato nel farsi obbedire tramite la forza allorché perseguano obbiettivi apprezzabili. Esempio, se lo stato non fornisce un'adeguata protezione dal crimine (1), ad esempio, non vi è alcuna ragione ovvia per cui gli agenti privati ​​non possano fornire il medesimo servizio. Concluderei dicendo che se la sovranità ha basi morali evanescenti, la sovranità assoluta è del tutto ingiustificata.