L’ispiratore di questi studi è Luca Cavalli-Sforza che nel 1994 pubblicò la summa del suo lavoro: The History and Geography of Human Genes. L’intento era quello di scoprire il nostro passato affiancando la genetica ad altre materie come l’archeologia, la linguistica e la storia.
La domanda di partenza: perché i popoli del mondo sono come sono oggi? L’ostacolo: la penuria di dati genetici e la loro quasi inutilità rispetto alle informazioni molto più ampie raccolte nel tempo da archeologia e linguistica.
Oggi il lavoro di LCS è venerato come pionieristico ma del tutto accantonato nei contenuti. Le scarse affermazioni fatte dallo studioso nel corso della sua opera sono state sostanzialmente tutte smentite. La sua epoca viene etichettata come “l’era oscura del DNA”.
La scommessa di LCS negli anni sessanta: ricostruire le grandi migrazioni del passato basandosi interamente sulle differenze genetiche dei popoli.
L’unico approssimativo strumento nelle sue mani: valutare la configurazione delle proteine nel sangue. Con i suoi colleghi aveva raccolto dati isolando oltre 100 variazioni proteiche.
Il secondo passo: andare oltre la variazione proteica ed esaminare direttamente il DNA. I risultati corrispondevano incredibilmente bene alle intuizioni che comunemente abbiamo sui nostri antenati.
I gruppi umani più omogenei secondo LCS: eurasiatici occidentali, asiatici orientali, nativi americani, nuovi guineani/africani.
Esempio di un’ipotesi formulata da LCS: l’impronta genetica sembra testimoniare una migrazione di popolazioni agricole dal Vicino Oriente all’Europa nord occidentale (ipotesi della diagonale).
Le ipotesi di LCS: intellettualmente stimolanti ma sostanzialmente sbagliate. Per quanto riguarda l’ipotesi della diagonale, questo fu chiaro a partire dal 2008. John Novembre dimostrò come gradienti del tipo di quelli osservati in Europa possano sorgere senza migrazione.
Il chiodo nella bara di LCS arrivò con la rivoluzione nella capacità di estrarre il DNA dalle ossa antiche. Un’ipotesi come quella di cui sopra fu ribaltata: la migrazione dal Vicino Oriente si ebbe da sud est a sud ovest per poi spostarsi verso nord.
L’intuizione da salvare: ritenere che l’attuale struttura genetica delle popolazioni riecheggi i grandi eventi migratori del passato.
La questione del passato. Il problema non era soltanto che le persone si sono mescolate con i loro vicini, di questo LCS era consapevole ma tenne conto solo di migrazioni molto recenti. Si ipotizzò che il passato remoto fosse un periodo molto meno “movimentato” e che si poteva trascurare senza danno. Ora sappiamo che il passato remoto non era meno incasinato di quello prossimo.
LCS: un visionario, un profeta. Senonché, proprio come un Mosè, fallì nel condurci verso la terra promessa.
In breve: Cavalli-Sforza vide prima di chiunque altro il potenziale della genetica nel rivelare il passato dell’uomo, ma la sua visione precedette la tecnologia necessaria affinché si potesse mettere a punto una ricerca attendibile. Oggi abbiamo una caterva di dati in più.
Esempio. Nel 2010 sono stati pubblicati i genomi neandertaliani arcaici, il genoma arcaico di denisova, e il genoma completo di un individuo di circa quattromila anni fa ritrovato in Groenlandia. Nel 2015 è stato reso disponibile l’intero genoma del DNA arcaico su supporti digitali (hyperdrive). Nell’ agosto 2017 il solo laboratorio di Harvard aveva generato dati sull’intero genoma per oltre tremila campioni antichi. Eccetera, eccetera, eccetera. Un’abbondanzaincredibile e tutta nelle nostre mani da poco.
Riconoscimenti. Tanta abbondanza è stata resa possibile dal Plank Institute di Lipsia: il suo direttore Svante Pääbo ha di fatto inventato la tecnologia rivoluzionaria per ricavare il genoma da reperti arcaici.
Un primo problema: quando al Plank, Meyer e Fu estrassero il DNA da ossa antiche scoprirono che solo lo 0,02% di esso proveniva dall’uomo esaminato. Il resto proveniva da microbi che avevano colonizzato le sue ossa dopo la sua morte. Il metodo di “isolamento” elaborato dai due cambierà la disciplina.
Altra rivoluzione: il costo della produzione di dati utili sull’intero genoma è collassato scendendo a meno di cinquecento dollari per campione analizzato.
I continui progressi hanno implicato che lo studio dell’intero genoma del DNA antico non richiedesse più lo screening di un gran numero di resti scheletrici prima di poter trovare alcuni individui con un DNA “utilizzabile”. Ormai si va a colpo sicuro.
Esempio di una scoperta recente: la popolazione del nord Europa è costituita in gran parte da persone migrate in massa 5.000 anni fa dalla steppa orientale.
Altra scoperta: l’agricoltura si sviluppò nel Vicino Oriente più di diecimila anni fa tra molteplici popolazioni altamente differenziate che successivamente migrarono in tutte le direzioni.
Altra scoperta: le popolazioni migrate da 3.000 anni a questa parte nelle remote isole del Pacifico non sono le uniche antenatei degli abitanti odierni.
Una rivoluzione. Prima del 2009 le prove genetiche degli spostamenti umani erano per lo più accessorie agli studi condotti in altri campi. Oggi sono la prova regina e probabilmente molte ricostruzione ante-2010 sono da riformulare completamente, la rivoluzione del DNA sta rapidamente sconvolgendo le nostre supposizioni sul passato.
L‘ortodossia emersa nel secolo scorso – l’idea che le popolazioni umane siano troppo strettamente collegate l’una all’altra perché ci siano sostanziali differenze biologiche tra loro – non è più sostenibile.
L’ambizione del genetista delle popolazioni oggi. Un esempio: la storia della mescolanza di africani occidentali e europei nelle Americhe permetterebbe di risalire ai fattori di rischio che contribuiscono alla disparità di salute per malattie come il cancro alla prostata, che si verifica ad un tasso circa 1,7 volte più elevato negli afroamericani. In casi come questi differenze dietetiche e ambientali sono irrilevanti.
Malattie con origine genetica: cancro alla prostata, fibromi uterini, molte malattie renali, sclerosi multipla, carenza di globuli bianchi, diabete di tipo 2… e un’altra marea.
Il genetista delle popolazioni non è una figura ben vista da tutti gli scienziati. Nella conferenza tipo viene puntualmente apostrofato con rabbia da qualche antropologo in platea, il quale crede che studiando segmenti di DNA “dell’Africa occidentale” o dell’ “Europea” per capire le differenze biologiche tra i gruppi, si flirti con il razzismo.
Il trucco consigliato da molti: fare riferimento alle popolazioni da cui gli afroamericani discendono come “cluster A” e “cluster B”. Un po’ come genitore 1 e genitore 2. Tuttavia, sarebbe disonesto mascherare il modello di fondo oggi adottato dai genetisti, innanzitutto perché è un modello che funziona!
Questo non significa che il pericolo non esista. Il lavoro di chi esplora le differenze biologiche tra le popolazioni umane si svolge su uncrinale insidioso.
Nel 1942 Ashley Montagu scrisse “Man’s Most Dangerous Myth: The Fallacy of Race”, in cui sosteneva che il concetto di “razza” è un costrutto sociale non una realtà biologica.
Nel 1972, quando fu chiaro che una simile posizione non reggeva, Richard Lewontin fissò la nuova ortodossia: esistono differenze biologiche tra le popolazioni umane ma non sono sostanziali. A quell’epoca tali affermazioni si reggevano su studi condotti ancora sulla variazione dei tipi di proteine nel sangue.
Lo studio di Lewontin: L’85 percento della variazione nei tipi di proteine puo’ essere spiegata dalla variazione all’interno delle popolazioni, e solo il 15 percento da variazione tra popolazioni. Per questo la classificazione razziale umana non ha alcun valore sociale ed è anzi pericolosamente distruttiva nei rapporti sociali. Tradotto: le differenze biologiche tra le popolazioni umane sono così modeste che dovrebbero in pratica essere ignorate.
Corollario della nuova ortodossia: l’ignoranza ci protegge! Ovvero, lo studio delle differenze biologiche tra le popolazioni dovrebbe essere evitato, se possibile. Esiste un piano inclinato che in queste materie rende la conoscenza pericolosa.
La proposta di Jacqueline Stevens: la ricerca e anche le e-mail tra accademici con argomento le differenze biologiche tra le popolazioni dovrebbero essere vietate per legge, o per lo meno occorre fermare qualsiasi finanziamento o borsa di studio destinata a questi studi.
I nuovi studi rendono impossibile mantenere l’ortodossia stabilita nell’ultimo mezzo secolo in quanto rivelano prove concrete di differenze sostanziali a livello biologico tra le popolazioni.
Il primo trauma risale al 2002. Marc Feldman ed i suoi colleghi hanno dimostrato che studiando diversi segmenti del genoma – hanno analizzato 377 posizioni variabili – era possibile raggruppare la maggior parte della popolazione umana in cluster che si correlano fortemente con le categorie “popolari” di razza: “Africani”, “Europei”, “Est asiatici “, “Oceaniano” e “Nativi americani”.
Un altro protagonista della ricerca fu Svante Pääbo, direttore del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, che nasce con l’intento di convalidare l’idea del famoso antropologo Frank Livingston secondo cui “non ci sono razze ma solo gamme”. Si comincia con il vagliare il lavoro di Feldman confermandone però sostanzialmente i risultati.
Un’altra discussione scaturì da un documento del 2003 realizzato da Neil Risch, il quale sosteneva che il raggruppamento razziale è utile nella ricerca medica. L’ispirazione fu fornita da disturbi come l’anemia falciforme, che colpisce molto più spesso gli afro-americani rispetto altre popolazioni. La stessa FDA cominciò ad approvare farmaci selettivi come il BiDil, una combinazione di due farmaci approvati per trattare l’insufficienza cardiaca negli afro-americani poiché i dati suggerivano che fosse più efficace per loro che per gli americani in generale.
Secondo l’antropologa Duana Fullwiley la comunità dei genetisti ha inventato una serie di eufemismi per discutere di argomenti che erano diventati tabù. A volte questa situazione sconfina nel ridicolo.
Occorre superare questo ostacolo se si vuole lavorare in modo proficuo. Ora è innegabile che ci siano differenze genetiche non banali tra le popolazioni in più tratti, così come è vero che un termine come “razza” è ambiguo e troppo carico di un bagaglio storico pesante per essere reso disponibile a cuor leggero.
Si viaggia a tentoni tra Scilla e Cariddi. Da una parte ci sono convinzioni sulla natura delle differenze razziali che sono radicate nel bigottismo e hanno poche basi nella realtà. Dall’altra parte c’è l’idea che ogni differenza biologica tra le popolazioni sia così modesta che, per questioni di politica sociale, possa e debba essere ignorata e dimenticata.
Rischiamo di fare il gioco dei razzisti. Le persone che negano la possibilità di sostanziali differenze biologiche tra le popolazioni su una serie di tratti si stanno trincerando su una posizione destinata ad essere indifendibile. Negli ultimi due decenni, la maggior parte dei genetisti ha cercato di evitare di contraddire l’ortodossia politicamente corretta ricorrendo ad astruse affermazioni matematiche nello spirito di Richard Lewontin, tuttavia oggi possiamo ben dire che questo sforzo inane ha perso ogni senso. Peggio, il tutto puzza sempre più di ipocrisia deliberata con lo scopo di mascherare le differenze sostanziali medie nei tratti biologici delle popolazioni.
Intanto avanzano nuove figure. Rispetto alla maggior parte degli accademici, la politica dei blogger del genoma tende a “destra” dove c’è molto campo libero. Razib Khan e Dienekes Pontikos, tanto per fare due nomi, postano di continuo sulle differenze razziali nei tratti della personalità, travolgendo così l’inutile prudenza degli scienziati e insinuando nel grande pubblico l’idea non peregrina che costoro non onorino lo spirito della ricerca scientifica e della verità. Il godimento di questi blogger talvolta sta proprio nel sottolineare le contraddizioni tra i messaggi politicamente corretti che gli accademici danno e i risultati delle loro ricerche.
Non possiamo negare l’esistenza di sostanziali differenze genetiche medie tra le popolazioni, non solo nei tratti come il colore della pelle, ma anche nelle dimensioni corporee, nella capacità di digerire efficacemente l’amido o il latte, nella capacità di respirare facilmente ad alta quota e nella predisposizione verso certe malattie particolari. Queste differenze sono solo l’inizio di quella che probabilmente sarà una lunga lista. Prepariamoci.
Joseph L. Graves Jr. ha avanzato un’obiezione: solo i tratti fenotibici che dipendono dal gioco di poche mutazioni genetiche sono soggetti a variazioni significative tra gruppi umani. Ha torto: se la selezione naturale ha esercitato pressioni differenti su due popolazioni separatesi in passato, i tratti influenzati da molte mutazioni genetiche sono altrettanto esposti a differenziarsi tra loro quanto quelli che dipendono da poche mutazioni. Il miglior esempio che abbiamo attualmente di un tratto governato da molte mutazioni è l’altezza.L’altezza è determinata da migliaia di combinazioni genetiche variabili. Joel Hirschhorn: gli europei meridionali sono mediamente più bassi di quelli settentrionali anche e soprattutto per cause genetiche. Jonathan Pritchard ha registrato negli ultimi 2000 anni l’ aumento della dimensione media del cranio del bambino in GB. E’ questo un altro tratto che dipende da mutazioni che interessano moltissimi geni.
Altra obiezione: l’influenza genetica sulle dimensioni corporee è una cosa, ma i tratti cognitivi e comportamentali sono un’altra cosa.
Purtroppo anche questa obiezione è destinata a cadere. Esempio. Dalla compilazione dei moduli di chi si sottopone a test genetici sono state ricavate da Daniel Benjamin informazioni utili sul numero di anni di istruzione. Sono state scoperte settantaquattro variazioni genetiche ciascuna delle quali è più comune nelle persone con più anni di istruzione, anche dopo aver controllato con le classiche “variabili di confusione”. Possiamo ben dire che il potere della genetica nel prevedere il numero di anni di istruzione è tutt’altro che banale. La probabilità di completare dodici anni di istruzione è del 96% per il ventesimo delle persone con la previsione più alta, rispetto al 37% per il ventesimo più basso.
Uno studio che ha coinvolto oltre centomila islandesi ha dimostrato che le variazioni genetiche predicono con buona approssimazione l’età in cui una donna avrà un figlio. Chiaramente questo è un effetto indiretto poiché il completamento della propria istruzione spinge le persone a rinviare la maternità.
Augustine Kong: lo studio islandese ha anche evidenziato come la selezione naturale abbia lavorato a favore di chi studia meno (e quindi ha mediamente più figli). Una cosa del genere puo’ essere motivo di preoccupazioni sociali.
Sempre Benjamin ha isolato più di venti mutazioni genetiche significativamente predittive delle prestazioni nei test di intelligenza.
Ultima disperata difesa: anche se esistono tali differenze, saranno piccole. Argomento collaterale: è passato troppo poco tempo dalla separazione delle popolazioni affinché si producano differenze significative.
Neanche questo argomento puo’ convincere chi conosce come stanno realmente le cose. I tempi nella separazione dei popoli sono tutt’altro che trascurabili rispetto alla scala temporale dell’evoluzione umana. Se, come abbiamo visto, la selezione su altezza e circonferenza cranica del neonato può verificarsi nel giro di un paio di migliaia di anni, significa che in quel lasso tutto è possibile.
Che fare? Anche se non sappiamo ancora quali siano le differenze, dovremmo preparare la nostra scienza e la nostra società ad affrontare nel migliore dei modi queste notizie visto che sarà impossibile nasconderle. Non possiamo permetterci di stare zitti e far finta di niente, lasceremmo un vuoto che sarà riempito dalla pseudoscienza.
Cosa dobbiamo intendere per razza? Ancora nel 2012 si indicavano categorie immutabili come “asiatici orientali”, “caucasici”, “africani occidentali”, “nativi americani” e “australasiani”, con ciascun gruppo concepito come isolato per decine di migliaia di anni. La storia è più complessa.
E’ vero che Marc Feldman con le sue simulazioni ha prodotto dei cluster che si avvicinano ai gruppi di cui sopra ma l’isolamento prolungato è una forzatura. Gli uomini fuoriusciti dall’Africa e dal Vicino Oriente circa cinquantamila anni fa hanno disseminato la loro discendenza lungo le traiettorie della migrazione, tale discendenza ha fatto altrettanto e le attuali popolazioni sono, almeno in parte, accomunate da questa origine condivisa. Non solo, dopo essersi stabilite, le popolazioni si sono ulteriormente mescolate l’una con l’altra, tanto è vero che la struttura attuale delle popolazioni non riflette quella che esisteva molte migliaia di anni fa.
Ma allora chi siamo? Le attuali popolazioni sono miscele di popolazioni altamente divergenti tra loro che non esistono più in forma “pura”. Se l’ omogeneità biologica è un mito, lo è anche la purezza della razza. Esempio: gli antichi eurasiatici del nord sono una popolazione che si è diluita negli europei e negli americani.
Chi non siamo. Non siamo i discendenti die popolazioni che vivevano negli stessi luoghi dove stiamo noi diecimila anni fa.
Quindi: razze sì ma non stereotipate. La natura delle differenze nella popolazione umana probabilmente non corrisponderà agli stereotipi razziali più comuni.
Consiglio: dovremmo diffidare degli istinti che abbiamo sulle differenze biologiche. Tali differenze esistono ma i loro effetti riserveranno parecchie sorprese.
In questo senso è imprudente sostenere – come a volte sembra fare Nicholas Wade – che esistono basi scientifiche a supporto dei vecchi stereotipi. A meno che per “vecchio” stereotipo ci si limiti ad intendere l’esistenza delle razze senza spingersi oltre.
Non ha nemmeno molto senso suggerire un’alleanza politicamente corretta di antropologi e genetisti per sopprimere la verità. Anche se talvolta certi accademici fanno di tutto per alimentare voci di questo genere tentando di difendere la vecchia indifendibile ortodossia.
Il libro di Nicholas Wade combina contenuti accattivanti e fondati con parti più speculative, presentando il pacchetto senza differenziare abbastanza.
Un esempio è lo studio di Gregory Cochran, Jason Hardy, e Henry Harpending in cui l’elevato quoziente di intelligenza medio (QI) degli ebrei ashkenaziti (più di una deviazione standard superiore alla media mondiale) e la loro sproporzionata quota di premi Nobel (circa cento volte la media mondiale) potrebbero riflettere la selezione naturale dovuta a un millennio di storia in cui le popolazioni ebraiche praticavano il prestito, una professione che richiedeva sia scrittura che calcolo. Questa è una speculazione anche plausibile ma con un fondamento che non puo’ essere rapportato a quello che hanno gli altri studi citati.
Lo stesso dicasi per l’Henry Harpending che teorizza come le origini genetiche sub-sahariane riducano la propensione all’operosità nel tempo libero (“in quelle regioni non ho mai visto nessuno con un hobby”).
Altra speculazione: l’economista Gregory Clark suggerisce che la ragione per cui la rivoluzione industriale decollò in Gran Bretagna prima che altrove è da imputare al tasso di natalità relativamente alto tra le persone benestanti in Gran Bretagna nei precedenti cinque secoli rispetto alle persone meno abbienti. Ipotesi interessante ma tutt’altro che dimostrata in modo definitivo.
Altro elefante nel negozio delle porcellane: James Watson, che nel 1953 ha scoperto la struttura del DNA. Watson era il direttore del Cold Spring Harbor Laboratory quando da lì furono avanzate imbarazzanti proposte eugenetiche facendo pressione per una legislazione volta a sterilizzare le persone considerate “difettose” e per combattere un degrado del patrimonio genetico nazionale. In un’intervista al Sunday Times si diceva “scoraggiato per le prospettive dell’Africa”, aggiungendo che “tutte le nostre politiche sociali implementate a loro favore si basano sul fatto che la loro intelligenza sia simile alla nostra”. Un’altra sua ipotesi azzardata: gli indiani sarebbero servili per la selezione naturale realizzatasi attraverso il sistema delle caste. Altre categorie su cui il buon Watson ha la sua teoria: gli studenti asiatici e il loro conformismo.
Una teoria per il caso Watson: la sua ostinazione, la sua eccentricità e la sua provocatorietà hanno probabilmente avuto un ruolo non secondario per il suo successo come scienziato. Ma ora, come uomo di ottantadue anni, il suo rigore intellettuale è sparito e ciò che resta è solo la volontà di sfogare le sue impressioni istintive. Ma l’istinto in queste materie, lo ripeto, non è certo un buon consigliere.
Un esempio di cosa sappiamo veramente: la sproporzionata sovrarappresentazione di persone di origine africana occidentale tra i velocisti d’eccellenza. La cosa è sicuramente dovuta anche a fattori genetici.
Torniamo al problema. Come prepararci alla probabilità che nei prossimi anni, studi genetici mostreranno che i tratti comportamentali o cognitivi sono influenzati dalla genetica? Perché così sarà, a meno di silenziare tutto.
La strategia più sbagliata: negare categoricamente che le differenze possano esistere. E’ la via più sicura per avere 10-100-1000 Watson vociferanti.
Altro vicolo cieco: minimizzare invocando la storia e le ripetute commistioni nel passato umano. Infatti, sarà facile verificare che molti dei lignaggi delle popolazioni hanno goduto di tempi di isolamento più che sufficienti per produrre sostanziali differenze biologiche.
Il modo giusto di reagire: rendersi conto che l’esistenza di differenze non dovrebbe influenzare il modo di attribuire i diritti.
E’ utile anche considerare che le differenze si possono compensare.Per la maggior parte dei tratti, il duro lavoro e l’ambiente giusto sono sufficienti per consentire a qualcuno con una prestazione geneticamente prevista inferiore di colmare lo iato.
La via maestra: impara dall’esempio delle differenze biologiche che esistono tra maschi e femmine, che sono più profonde di quelle razziali. Qui, messi da parte alcune posizioni estreme, tutti riconosciamo l’ esistenza di differenze biologiche, tuttavia non abbiamo problemi nell’ accordare a tutti le stesse libertà e gli stessi diritti.
Nel complesso, la rivoluzione del genoma conferma alcuni stereotipi ma ne mina altri. È importante agire su un doppio fronte.
Esempio di una credenza distrutta: l’ideologia nazista credeva ad una “pura” razza ariana di lingua indoeuropea con radici profonde in Germania. In realtà il popolo tedesco proviene da una migrazione di massa dalla steppa russa, un luogo che i nazionalisti tedeschi notoriamente disprezzavano.
Altra credenza distrutta. L’ideologia induista pensava non ci fosse un grande contributo alla cultura indiana da parte dei popoli al di fuori dell’Asia meridionale. In realtà, negli ultimi cinquemila anni si sono susseguite molteplici ondate migratorie dall’Iran e dalla steppa eurasiatica. Prendi e porta a casa!
Altra credenza nonsense: i Tutsi in Ruanda e Burundi hanno origini euroasiatiche mentre gli Hutu no. Dimostrabilmente falso.
Ma la ricerca genetica può avere un’ altra missione benefica: il recupero delle radici. Chiunque abbia letto l’epopea di Kunta Kinte narrata da Alex Haley sa quanto sia questa una missione importante per un popolo sradicato come quello degli afroamericani. Il professore di letteratura ad Harvard Henry Louis Gates Jr. ha un sogno: usare la genetica per colmare questo vuoto. In effetti, un nuovo settore legato ai “test genealogici personali” è nato per sfruttare in questo senso il potenziale della rivoluzione del genoma. Nel programma di Gates si utilizzano i test genetici per determinare non solo i continenti in cui vivevano gli antenati di una certa persona, ma anche le regioni.
Il genetista Rick Kittles ha fondato l’African Ancestry con le medesime intenzioni. Dice una persona sottopostasi al test: “la mia linea femminile risale al nord della Nigeria, la terra della tribù degli Hausa. Dopo averlo saputo sono andato in Nigeria e ho parlato con la gente del posto e ho imparato a conoscere la cultura e la tradizione di Hausa… è stata un’esperienza che mi ha cambiato…”.
Conclusione. Per esorcizzare gli spettri che ci fanno adottare linee di difesa implausibili, dobbiamo essere consci della straordinaria diversità umana. La moltitudine di popolazioni interconnesse che hanno contribuito a formare il nostro genoma è l’antidoto migliore ai pericoli che il ritorno delle “razze” reca con sé.