mercoledì 29 novembre 2017

SAGGIO E’ un mondo difficile


E’ un mondo difficile


Il bizzarro compito dell’economia e dimostrare agli uomini quanto poco sanno.
Come esemplificare al meglio questa ignoranza messa in luce da quelle discipline economiche che la danno per scontata?
Prendiamo come esempio un oggetto banale di uso comune, un oggetto presente in tutte le case, un tostapane. Cosa c’è di più triviale? Cosa c’è di più semplice?
Ebbene, provate a costruirne uno!
Oppure seguite le peripezie di chi c’ha provato, uno come Thomas Thwaites, dottorando in design del Royal College of Art di Londra.
Una volta imbarcatosi nel “progetto tostapane” si è subito reso conto della montagna di complicazioni che sta dietro un’opera tanto banale, i pezzi da procurarsi sono più di 400!
I materiali che occorrono non sono banali, il rame per i cavi degli spinotti elettrici e il fili di collegamento. L’acciaio, per il sistema di griglie e la molla. Il nichel, per il componente che scalda. L’amica, per raffreddare il componente che scalda. Infine la plastica per l’isolamento dei figli e della spina.
T. si rese conto che se uno parte completamente da zero ci mette una vita per fabbricare un tostapane. E questo senza nemmeno andare in Cile ad estrarre di persona il rame necessario o in Russia per la mica.
Viviamo circondati da oggetti che non sapremmo mai fabbricare.
A dir la verità tanti di noi non sanno neppure quale sarà la destinazione finale del loro lavoro. Il boscaiolo che taglia un albero non sa se il legno verrà usato per uno stuzzicadente, per la struttura di un letto o per una matita.
L’unico a sapere è “il sistema”. Un sistema in grado di coordinare migliaia di ignoranze sparse sul pianeta.
Questa santa ignoranza affidata al giusto sistema ci rende disponibili una varietà sbalorditiva di prodotti. Basta entrare in un grande magazzino per accorgersi che centinaia di migliaia di articoli diversi sono presenti sugli scaffali. Su piazze come Londra e New York vengono offerti più di 10 miliardi di prodotti diversi.
L’unico a sapere la destinazione dei lavori è il sistema. Strategie alternative con la medesima ambizione, dal feudalesimo alla pianificazione centralizzata, sono finite nei libri di storia.
Ma c’è di più: tostare il pane non è affatto complicato, il pane, diciamo così, non assume un ruolo attivo, non prova a fregarti come potrebbe fare una squadra di banchieri di investimento. Il vero miracolo del sistema non è tanto la fabbricazione di un tostapane ma il coordinamento di migliaia di persone impegnate in quest’opera con i bisogni dei clienti. I problemi con le persone sono enormemente più complicati del già complicatissimo tostapane: le persone non collaborano, non stanno mai ferme, voi cominciate a risolvere un problema e vi accorgete che il problema cambia continuamente sotto le vostre mani.
Un cervello non basta, per quanto sia geniale. Tutti noi ci aspettiamo troppo da un uomo solo. Ci aspettiamo troppo dal capo di governo. Ci aspettiamo troppo da un eroe. Ci aspettiamo troppo da un valoroso militare. Abbiamo il tremendo bisogno di credere nell’efficacia di un leader ma costui resterà sempre un nano se paragonato al “sistema”.
Forse tale istinto oggi perverso ha origine nel fatto che ci siamo evoluti operando in piccoli gruppi di cacciatori e risolvendo problemi che erano, per l’appunto, quelli di un piccolo gruppo. Problemi banali, in un certo senso, problemi che potevano essere risolti anche da un genio. Non riusciamo così a capire come i problemi più complessi possano e debbano essere risolti involontariamente grazie all’ignoranza coordinata di molti.
Philip Tetlock è il più grande esperto di esperti. La sua opera ci fa notare come la contraddizione tra esperti sia all’ordine del giorno, oppure che le previsioni sulla politica Russa pronunciate da esperti di cose sovietiche non fossero più precise di quelle pronunciate da specialisti della politica canadese. Oppure che più gli esperti erano famosi, più erano incompetenti.
Gli esperti, secondo le ricerche di Tetlock, fanno meglio dei non esperti ma “leggerissimamente”, e questo dopo aver studiato “moltissimamente” di più. La colpa non è loro, è che viviamo in un mondo difficile. Viviamo nel mondo in cui il complicatissimo problema del tostapane si archivia nello scaffale dei “problemi semplici”.
Il sistema di mercato sembra l’unico in grado di approcciare questa complessità, ma qual è il suo segreto?
La lezione sembra essere che il fallimento sia parte integrante del metodo risolutivo come del sistema di mercato.
Più un settore economico è giovane, dinamico e promettente più i tassi di fallimento delle sue aziende è elevato.
La macchina per stampare fu inventata da Johann Gutenberg, un uomo che cambiò con la sua invenzione il corso della storia facendo fallire molti progetti alternativi. Ma lui stesso, nel tentativo di realizzare la famosa Bibbia che porta il suo nome, fallì e fu accantonato (il centro dell’industria della stampa si spostò Venezia). Non si guarda in faccia a nessuno nel nome di sua maestà il Fallimento, ovvero il motore per la soluzione di problemi complicatissimi.
Quando esplose la bolla delle cosiddette Dot-com, spazzò via innumerevoli giovani realtà economiche. Grazie ha questa capacità di far piazza pulita il business di Internet fiorì e si affermò.
La moderna industria informatica costituisce un esempio eclatante, il settore più dinamico dell’economia è stato anche quello in cui si sono osservati fallimenti a catena: Hughes,  Transitron, Philco, Intel, Hitachi, Xerox… Tutti nel buco nero per risolvere problemi incasinatissimi e realizzare cio’ di cui oggi possiamo godere.
Non sono tanti i dirigenti d’azienda che amano ammetterlo, ma il mercato trova tentoni la via giusta.
La stessa selezione naturale in campo biologico, spesso sinteticamente definita come il processo di sopravvivenza del più adatto, è in realtà innescata dalla “sconfitta del meno adatto”.
Dicevamo che i problemi che coinvolgono gli esseri umani sono particolarmente difficili da trattare. I manager li hanno sul tavolo ogni giorno.
Molti ritengono che i dirigenti delle grandi aziende debbano avere delle qualità eccezionali, lo pensano sicuramente gli azionisti che pagano loro stipendi profumati, ma lo pensano molte persone della strada (che vengono a sapere di quegli stipendi). Ma e poi davvero così? In fondo non si capisce bene cosa facciano di tanto eccezionale.
Un tentativo interessante di risposta all’enigma lo fornisce l’economista Paul Ormerod che ha confrontato quel che i reperti fossili ci ci dicono circa le estinzioni (fallimenti biologici) avvenute negli ultimi 550 milioni di anni con le statistiche di Leslie Anna sulla morte dei giganti industriali. Ebbene, il rapporto opportunamente normalizzato delle estinzioni biologiche e delle estinzioni aziendali appare molto simile, e questo nonostante che il processo biologico sia cieco mentre invece quello economico guidato dai geni del management.
Vogliamo tradurre? Beh, secondo Ormerod Apple potrebbe tranquillamente sostituire Steve Jobs con uno scimpanzé.
Non sono i manager ad essere dei geni, è il mercato (ovvero il sistema in cui sono inseriti) ad essere geniale.
Ma il modo più efficace per vincere la complessità è anche il meno popolare, chi ha voglia di brancolare nel buio in cerca di una soluzione vincente commettendo ripetuti errori sotto gli occhi di tutti? Chi vuole votare per un politico che segue questo metodo, o sostenere un manager di livello la cui strategia sembra quella di sparare ideee casaccio?
Di solito i politici si presentano come gente che promette di tirare dritto per la sua strada, di non cambiare mai idea, di essere coerenti. Dovremmo invece tollerare, persino celebrare tutti i politici che mettono alla prova le loro idee in modo talmente coraggioso da dimostrare che alcune non funzionano. Ma in realtà non lo facciamo mai!
La varietà di opinioni e la diversità di approcci è una ricchezza, ma a quanto pare poco apprezzata anche nei luoghi deputati al culto dell’efficienza. Ci sono alcune dimostrazioni del fatto che più una persona è ambiziosa, più sceglierà di essere uno Yes Man, e per buone ragioni visto che questi tendono essere premiati. Persino quando i leader e i manager vogliono davvero un onesto riscontro delle loro azioni, spesso non riescono a riceverlo.
Tendiamo a presumere che l’economia pianificata dell’Unione Sovietica sia crollata perché mancava l’effetto galvanizzante della ricerca del profitto e la creatività del settore privato. Molto più probabilmente è crollata perché mancavano i fallimenti, ovvero quei segnali che ci indicano più o meno direttamente la direzione da prendere. L’Unione Sovietica ha tirato dritto con i suoi progetti faraonici messi al riparo da ogni fallimento… ed è finita nel burrone. Una patologica incapacità di sperimentare.
Ma anche in una moderna multinazionale la diversità degli approcci è difficilmente tollerata, gli ostacoli sono almeno due. Il primo è la mania di grandezza: sia i politici sia i capi d’azienda a mano i grandi progetti. Il secondo è che noi raramente amiamo la convivenza di un’accozzaglia di principi incoerenti fra loro, è come se turbassero la nostra naturale inclinazione all’eleganza e all’uniformità. Ci piace pensare che tutto sia uniforme.
Sarà anche per questo che gestiamo tremendamente male i nostri fallimenti, a volte ci deprimiamo ma l’insidia maggiore non è la depressione.
Prendiamo il mondo del poker, un mondo dove regna il sangue freddo. Diversi giocatori professionisti raccontano che esiste un momento specifico in cui il rischio di perdere il controllo è molto alto, non è quando vincono e l’euforia li coglie ma quando hanno appena perso un sacco di soldi per una cattiva giocata e siamo colti da un demone pericolosissimo: la voglia di riscatto. Riconoscere la sconfitta e ricalibrare il gioco è l’unica cosa da fare, per quanto dolorosa. Una persona che non si fa una ragione delle proprie perdite è probabilmente destinata a correre rischi che in altre situazioni non prenderebbe nemmeno in considerazione.
La perdita ci fa perdere la ragione, gli economisti parlano di “sunk cost”, se al ristorante abbiamo ordinato il piatto sbagliato ci sentiamo in dovere di mangiare ugualmente, il fatto di dover pagare (e quindi buttato i nostri soldi) è come se ci imponesse un dovere, ovvero sacrificare ulteriormente il nostro piacere sorbendoci una schifezza. Se ho prenotato una vacanza pagando un congruo anticipo mi sento in dovere di partire anche se non sto bene, lo trovo un modo per non sprecare i soldi versati. Non appena ci accade qualcosa di negativo noi evitiamo ogni analisi accurata abbandonandoci alla voglia di riscatto. La giusta reazione sarebbe quella di incassare la battuta d’arresto e cambiare direzione, sebbene l’istinto ci spinga nella direzione opposta.
Questo spiega perché il detto “sbagliando si impara”, che è un saggio consiglio, sia tremendamente difficile da seguire.
complicato

martedì 28 novembre 2017

Il robot pensa

Il robot pensa

I robot del futuro saranno più intelligenti di noi, più razionali di noi, commetteranno meno errori di noi. Sarannomigliori di noi.
Ma saranno pur sempre programmati da noi, almeno all’inizio.
Per questo, in via di principio, noi dovremmo avere un’idea abbastanza precisa di come penserà un robot delle prime generazioni.
Matematici, psicologi e altri scienziati sociali studiano da tempo cosa sia la razionalità: quella roba che vi fa prendere decisioni buone, anche quando è difficile farlo; quella roba che vi fa imboccare la strada giusta, anche quando l’incertezza incombe. Ma anche quello strumento che valorizza – anziché accantonarle – le vostre intuizioni e le vostre emozioni.
Le intuizioni e le emozioni sono un deposito di conoscenza pregressa che puo’ sviarci ma puo’ anche aiutarci. Il robot – ossessionato com’è dalla conoscenza – sarà ben consapevole di tutto questo.
Il robot non sarà un matematico, altrimenti, come tutti i grandi matematici, sarebbe un imbranato.
Il robot deve agire qui e ora, nella stessa realtà dove viviamo io e te. Deve essere razionale in presenza di un mondo complesso, non su un foglio di carta dentro un aula universitaria. Deve avere valori morali, deve sviluppare credenze sulla realtà, deve avere persino affetti, forse. Altrimenti come potrebbe muoversi e interagire in uno spazio dove l’imprevisto è la regola?
La razionalità di un computer è per lo più deduttiva mentre quella di un robot è per lo più induttiva: si esce quindi dal mondo del silicio e si entra in quello fatto di terra, carne e sangue.
Ma il fatto centrale è che noi, a grandi linee, già oggi conosciamo l’algoritmo di razionalità induttiva alla base di AI. Potremmo anche scriverlo.
Cerchiamo invece di descriverlo a parole.
Nessun testo alternativo automatico disponibile.
Il robot nascerà con delle convinzioni sulla realtà che lo ospita.
Potremmo chiamarle credenze a priori, o credenze intuitive. Ogni robot avrà le sue.
Puo’ anche darsi che un’autorità centrale imponga una certa diversità a tutela di un panorama cognitivo più ricco e imprevedibile. un equivalente della biodiversità nel campo delle idee.
Potremmo ben dire che saranno credenze soggettive: la razionalità applicata ha sempre una solida base soggettiva.
In questo senso un algoritmo random – magari entro certi limiti – puo’ assolvere al compito di attribuire delle credenze native al nascente robot.
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Le credenze del robot saranno probabilistiche.
Un robot non ragiona in termini logici ma in termini statistici.
Esempio: ammettiamo che un certo robot sia cattolico.
Cio’ non significa che attribuisce all’esistenza del dio-cattolico una probabilità del 100% e al dio-protestante una probabilità dello 0%.
Il rapporto sarà per esempio del 60/40 o 51/49. Dichiararsi “cattolico” ha dunque un significato un po’ diverso da quello che ha ora.
In un esempio più realistico il robot cattolico crederà all’esistenza del suo dio con probabilità 2/3%, questo perché l’opzione cattolica risulterà la più razionale tra molte (e non solo tra due). Evidentemente, una probabilità del 2-3% nel quadro di una scommessa pascaliana, è sufficiente per convertirsi.
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Credenze iniziali a parte, il robot avrà un metodo computabile per assegnare e riassegnare nel tempo le probabilità ad ogni credenza.
Magari il processo di calcolo non sarà finito: in fondo quanto più uno ci pensa, tanto più giunge ad una credenza affidabile. In questo senso il robot sarà un tale per cui il pensiero ha sempre un valore conoscitivo.
Tempo e pensiero sono una miscela che migliora la conoscenza dei robot.
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Le preferenze del robot saranno tra loro coerenti.
Per esempio, se due credenze si escludono a vicenda, la somma delle probabilità assegnate non sarà mai superiore ad 1.
Nel gergo degli scommettitori, il robot non si fa fregare dal trucco delle “pompe di denaro”. Non sarà mai possibile compilare un Dutch Book ai danni di un robot.
Cio’ significa che le preferenze del robot saranno transitive: se preferisce A a B e B a C, allora preferirà anche A a C.
Non a caso ai robot piacerà scommettere. Nel loro mondo – diversamente che nel nostro – scommettere sarà un atto virtuoso e segnalerà onestà intellettuale. Ogni discussione di alto profilo implicherà delle scommesse e ogni robot girerà portando sempre con sé il record delle scommesse a cui ha partecipato.
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Il robot sa correggersi, sa cambiare idea quando gli eventi lo inducono a farlo. Il robot non ha dogmi.
D’altra parte non crede né al concetto di verifica, né a quello di confutazione. Se perde una scommessa sa benissimo che la ragione puo’ essere ancora dalla sua parte, sebbene aggiorni le sue credenze non si uniformerà a quelle del vincitore.
Così come non ha certezze positive, il robot non ha nemmeno certezze negative: non ride dei no-vax o dei complottisti. Ogni teoria ha la sua brava probabilità di essere vera. L’ipotesi miracolista è sempre mantenuta in vita dai robot.
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Per il robot tutto è rilevante. Tutto contiene un indizio per rettificare una credenza, e spesso una rettifica ne comporta altre fino a smuovere una valanga.
In questo senso il robot è sessista, razzista e discriminatorecompulsivo. Ovvero, il fatto di relazionarsi con una donna cambierà le sue aspettative; e così pure quando si relazionerà con un asiatico, o con un nero, o con un europeo, con una persona alta, bassa, grassa…
Poiché il robot s’imbatterà continuamente in nuovi eventi, le sue credenze  cambieranno di continuo. Anche le credenze dei suoi colleghi sono da annoverarsi tra i “nuovi eventi”, e non puo’ darsi discussione senza cambio di idee.
Anche la sua fede religiosa, per esempio, cambierà ogni ora: al mattino crede al 2%, a mezzogiorno al 2.2%, alla sera al 3% eccetera.
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Ad ogni incontro con eventi reali, il robot aggiorna le sue credenze sulla base di formule probabilistiche ben note.
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I robot – almeno quelli delle prime generazioni – saranno fondamentalmente onesti tra loro, almeno quando cercano insieme la Verità. Lo saranno un po’ meno con gli uomini, ben sapendo che raramente sono degli onesti cercatori di verità.
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Il robot sa molte cose, ma sa anche di sapere molte cose e sa di sapere che sa. In questo senso potremmo dire che il robot possiede una qual forma di introspezione.
Un algoritmo di questo tipo elude i noti problemi legati all’autoreferenzialità.
Poiché il sapere dei robot ha un fondamento soggettivo, le idee dei robot non coincideranno anche se la prospettiva sarà necessariamente quella di un accordo. Per quanto detto, infatti, non è concepibile un disaccordo prolungato tra due robot che discutono. A volte non c’è tempo per raggiungere un pieno accordo, tuttavia, accordarsi sui motivi del disaccordo non costituisce mai un punto di equilibrio nella discussione tra robot.
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Il robot è ottimista: sa che approfondire un problema incrementerà la sua conoscenza. Sa che in futuro le sue credenze saranno più affidabili, fosse anche solo per il fatto che disporrà di più informazione.
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Il robot pensa in modo efficiente, ovvero, poiché le risorse computazionali ed energetiche sono limitate, sa quando arrestare il suo pensiero e prendere una decisione.
Pensare ha un costo, e ogni robot sarà anche un economista del pensiero.
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Il robot sa reagire anche di fronte ad ipotesi impossibili. Sa cos’è l’assurdo ed è pronto ad affrontarlo.
Poiché la logica deduttiva classica ci dice che da situazioni contradditorie puo’ conseguire di tutto, puo’ darsi che il robot reagisca con una ripartenza delle sue credenze in quell’ambito. In ogni caso evita il blocco.
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Nella discussione tra robot ogni credenza ipotizzata puo’ essere assimilata ad un titolo azionario.
Così come i giocatori di borsa attribuiscono al titolo un valore, i robot attribuiscono alle varie credenze una probabilità di essere vere.
Se la quotazione del titolo è inferiore al valore attribuito dal giocatore, allora costui compraSe è superiore, costui vende.
Allo stesso modo: se le probabilità attribuite dalla discussione ad una certa credenza sono inferiori a quelle personali del robot X, allora costui interviene per difenderla; se sono superiori, interviene per confutarla.
Proseguendo questa analogia, è illuminante assimilare la discussione tra robot ad una borsa efficiente.
Gli economisti – nel caso di mercati finanziari efficienti – parlano di Efficient Market Hypothesis (EMH).
L’ EMH significa sostanzialmente che le quotazioni ufficiali di un titolo riflettono tutte le informazioni disponibili su quel titolo.
Un altro modo più eloquente di dire la cosa: “non si puo’ battere il mercato”.
Dove per “battere il mercato” significa “guadagnare più di un fondo indicizzato ai valori di mercato”.
Naturalmente si puo’ battere il mercato occasionalmente, ma non si puo’ farlo sistematicamente. Non esiste la ricetta per far soldi in borsa. Neanche Warren Buffett l’ha possiede (e non a caso ora detiene quasi tutti negli index fund). La strategia di gestione passiva è sempre vincente in un periodo sufficientemente lungo.
Allo stesso modo possiamo dire che quando dei robot discutono sulla Verità, la voce più affidabile è quella astratta rappresentata dalle probabilità così come sono assegnate nel punto di equilibrio (quello dove nessuno “vende o compra”, ovvero “perora o confuta”).
Ma per quanto detto prima sappiamo che non esiste un punto di equilibrio in una discussione tra robot, almeno finché non si realizza un accordo assoluto.
Probabilmente l’accordo assoluto richiede un tale dispendio di energie che in base al principio di efficienza ci si fermerà prima lasciando che la quotazione delle varie idee sia sempre in itinere. 

logical introdution scott garrabrandt 

Can Teachers Own Their Own Schools?: New Strategies for Educational Excellence Richard K. Vedder

Can Teachers Own Their Own Schools?: New Strategies for Educational Excellence
Richard K. Vedder and Chester E. Finn Jr.
Last annotated on Tuesday November 28, 2017
51 Highlight(s) | 30 Note(s)
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1 Introduction
Note:1@@@@@@@

Yellow highlight | Page: 1
an idea with strong historical roots
Note:TOPS TEACHER OWNED FOR PROFIT SCHOOL

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evidence that it was improving literacy.
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despite a huge increase in resources devoted to public schooling.
Note:OGGI

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declined significantly.
Note:EFFICIENZA

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strengthened teacher certification, merit pay, decentralized management, reduced class size, public-school choice and curricular innovation (e.g., whole language approach, block scheduling, Core Knowledge)
Note:PRECEDENTI RIFORME NULL HYP

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more market-based approaches
Note:DI COSA C È BSOGNO...SEGUE LISTA DEO TENTATIVI

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outsourcing
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vouchers
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charter
Yellow highlight | Page: 2
home.
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for-profit education
Yellow highlight | Page: 2
productivity improves.
Yellow highlight | Page: 2
vouchers, independent charter schools, home schooling) have been fought bitterly by groups with a special interest
Note:IL MOTIVO DELLA NUOVA PROPOSYA

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teacher unions,
Yellow highlight | Page: 2
department bureaucracies,
Yellow highlight | Page: 2
PTAs,
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school boards
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potential of financial rewards for teachers
Note:LA NOVITA DI TOPS

Yellow highlight | Page: 2
In return for a transfer of wealth to these employees, they would be invited, tempted, or, under some scenarios, obliged to go along with a shift to competitive for-profit delivery systems.
Note:LO SCAMBIO

Yellow highlight | Page: 2
Employee Stock Ownership Plans (ESOPs)
Note:GIÀ DIFFUSE...EPOS

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for primary and secondary
Yellow highlight | Page: 21
5 For-Profit Education in America Today
Note:5@@@@@@@

Yellow highlight | Page: 21
Skeptics of for-profit education might argue that this is an untried approach that, however appealing in theory, has no basis in experience.
Note:L OBIEZIONE

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the fastest growing form of education
Note:IL PROFIT OGGI

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twenty-two companies operated
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Their market capitalization was an impressive $7.4 billion
Note:CAPITALIZZAZ

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had an earnings increase
Note:RICAVI CHE CRESCONO PIÙ DELLA MEDIA

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One respected market analyst, Michael T. Moe of Merrill Lynch, predicts that education management companies will handle 10 percent of K–12 public school spending within ten to fifteen years.
Note:PREVISIONE

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Private School Performance
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In general, private schools have higher levels of student performance and lower expenditure levels than public schools.
Note:IN GENERALE

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data from Ohio
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1999,
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41 percent of the public school children failed
Note:ITALIANO

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21 percent, for private
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32 percent of public school children failed,
Note:MATH

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14 percent of private
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they put a greater emphasis on academics and achieve
Note:SCUOLE CATTOLICHE

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achieve more with far lower costs
Note:COSTI BASSI

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costs half as much per pupil
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The most extensive experiment with using public funds to finance private school education has occurred in Milwaukee,
Note:ESPERIMENTI

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The random choice of recipients is a boon to researchers
Note:RICERCA

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randomly chosen students do better in private than in public schools.
Note:RISULTATO

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Harvard’s Paul Peterson
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Cecilia E. Rouse
Yellow highlight | Page: 26
The evidence is not unanimous.
Note:@@@@@@@@@@@

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6 Illustrating The “ESOP” Approach to Public Education
Note:6@@@@@@@@@@@

Yellow highlight | Page: 27
how to get from a government run schooling system to an entrepreneurial, for-profit system.
Note:IL PASSAGGIO

Yellow highlight | Page: 27
privatize the school by giving its ownership to its teachers, principals and staff. Other stakeholders—notably parents—might also receive ownership
Note:L IDEA BASE

Yellow highlight | Page: 27
schools could be sold to existing for-profit corporations with a proviso that teachers,
Note:ALTEENATIVA

Yellow highlight | Page: 28
The district announces that it will give 100 shares of the relevant common stock to each teacher for each year
IL COMPENSO INIZIALE

Iscriversi a “Medicina”

Iscriversi a “Medicina”

Ciao, sono un giovane idealista. Mi piacerebbe curare i malati e salvare vite umane, per questo mi sono iscritto alla facoltà di medicina. Sono un figo o no?
No.
Se solo ti iscrivessi ad economia diventando il manager dell’ospedale in cui sei destinato a finire come dottore, salveresti molte più vite e cureresti molti più malati.
I dottori oggi fanno così poco per la salute dei loro pazienti! Il loro apporto è pressoché insignificante.
Se vuoi star bene, è lo stile di vita che conta!
Certo, esistono anche cure mediche estremamente efficaci, ma per promuoverle bastano pochi dottori, che già oggi sono in eccesso.
Chi ha le capacità per laurearsi in medicina – e ne occorrono non poche – potrebbe avere ben altro impatto benefico sulla società iscrivendosi ad altre facoltà!
Ha senso iscriversi a questa facoltà solo se si crede di essere particolarmente adatti a questa professione e completamente inetti altrove.
Innanzitutto, diventare dottore è molto competitivo, al punto che parecchi rinunciano dopo qualche anno: ti rendi conto dello spreco di risorse che questa cosa comporta?!
Nei paesi sviluppati avere un dottore in più conta ben pocoper la salute pubblica. Il suo apporto è facilmente compensato con qualche centinaia di euro donato ad una ONLUS con gli attributi.
Al momento, per questioni meramente simboliche, i dottori sono ancora tra i professionisti più pagati, ciò significa che averne uno in meno lascia liberi molti fondi per donazioni  di sostanza.
I dottori godono della fiducia dei loro pazienti ma non hanno grande influenza sociale, ciò significa che non “servono” nemmeno per sponsorizzare cause meritevoli. Una starlettequalsiasi è più efficace: se Burioni dice “vaccinatevi!” lo ascoltano in quattro gatti, ma se lo dicesse Fiorello…
Come se non bastasse il laureato in medicina è difficilmente riciclabile. Mentre un fisico può anche diventare analista finanziario, tanto per dire, il dottore difficilmente potrà mai indirizzare altrove le sue pressoché inutili competenze.
Morale: volete migliorare il mondo? Iscrivetevi a medicina solo in mancanza di alternative.
idealisti a medicina