giovedì 12 ottobre 2017

L’ambiente ostile

L’ambiente ostile

La legge proibisce i comportamenti illeciti.
Ma anche i comportamenti che sembrano illeciti.
La cosa sembra trascurabile, cessa di esserlo quando parliamo di leggi contro le molestie sessuali sul luogo di lavoro, laddove la seconda categoria di comportamenti è più estesa della prima.
Le misure anti-molestia risultano di fatto un deterrente anche verso la comunicazione più innocente e fruttuosa.
I rischi sono evidenti: colpire le relazioni sociali in azienda. Per come le imprese generano il loro valore, la cosa è tutt’altro che marginale.
La molestia sessuale si distingue per intervenire in uno spazio molto privato. Gli equivoci sono sempre dietro l’angolo: è facile dimostrare che qualcuno vi ha rotto una gamba, molto meno che qualcuno vi ha mancato di rispetto.
Nelle aziende i manager hanno imparato a temere le denunce e su questo rischio tarano le loro scelte. Parliamo di una categoria particolarmente dedita alla scelta razionale.
Naturalmente, i manager sanno bene che una lavoratrice scontenta o di cattivo umore è anche una mina vagante per la loro carriera. Scansarla diventa una priorità.
La molestia è definita come “un approccio fastidioso a sfondo sessuale” realizzato in ambito lavorativo.
Fastidioso? Sì, la dimensione soggettiva predomina. Evidentemente parliamo di qualcosa di molto vago.
Il legislatore, per combattere al meglio lo spiacevole fenomeno, ha responsabilizzato le imprese colpevoli in automatico di creare un “ambiente ostile” laddove la molestia prende corpo.
Si ritiene che la presenza di molestie sia una forma di segregazione sul posto di lavoro.
Nel disperato tentativo di evitare un coinvolgimento giuridico le imprese si son messe ad organizzare corsi per i dipendenti sul tema. È sorta una vera e propria “industria della prevenzione” con la filiera degli avvocati, quella degli psicologi e quella dei sessuologi.
Una reazione del genere, per quanto comprensibile, ha solo peggiorato le cose. Vediamo perché valutando le conseguenze del proibizionismo.
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Sul piano delle conseguenze gli studiosi si dividono, alcuni ritengono che le politiche proibizioniste siano necessarie ed efficienti, altri che il problema si affronti meglio affidandolo alle naturali correzioni del mercato.
Il problema centrale di tutta la faccenda è capire quando siamo di fronte ad una molestia sessuale. La possibilità di incorrere in errori è elevata, questo anche perché lo stesso comportamento puo’ essere molesto oppure no: dipende dal contesto e dai soggetti coinvolti.
Se diamo una scorsa ai casi approdati in aula giudiziarianotiamo molte situazioni che sembrano inoffensivi ai più ma che contestualizzate possono turbare le persone coinvolte.
Per mettersi al sicuro da eventuali denunce molte multinazionali scelgono una policy più stringente di quella prevista dalla legge, a volte sfiorando il ridicolo. Forse è anche un modo per apparire “all’avanguardia” sul fronte dei diritti. Sta di fatto che ne esce un quadretto piuttosto comico.
Sia come sia una cosa è certa: la legge ha sensibilmente diminuito gli incentivi ad interagire in modo spontaneo. Meglio isolarsi dedicandosi al proprio smartphone.
Probabilmente, rischi del genere contribuiscono al cosiddetto “soffitto di vetro”, ovvero quella roba per cui le donne ormai costituiscono la maggioranza della forza lavoro ma sono scarsamente rappresentate al top della piramide gerarchica. Gli uomini vedrebbero come un rischio la loro vicinanza ed evitano finché possono di “promuoverle” al loro livello.
Un altro effetto è il cambio nella composizione della forza lavoro. Diventa molto più conveniente per l’azienda concentrare persone dello stesso sesso negli stessi uffici. Basta con gli uffici “misti”… o gli avvocati ci dissanguano!
A volte sembra si esageri ma la cosa non va sottovalutata: nella scuola la sensibilizzazione al rischio pedofilia ha di fatto generato la scomparsa di un mestiere un tempo onorato: quello del maestro.
D’altro canto le molestie sul lavoro moltiplicano i divorzi, un costo sociale decisamente importante.
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La letteratura empirica ha cercato di pesare gli effetti di una molestia. Le variabili prese in considerazione sono state essenzialmente lo stress sul posto di lavoro, il calo di produttività e le dimissioni.
Le conclusioni raggiunte sono miste: alcuni riscontrano un collegamento tra molestia e soddisfazione lavorativa, altri no.
I secondi criticano le proxy scelte dai primi e rilevano il trascurato problema dell’ “endogenità”: le donne che riferiscono di molestie potrebbero essere anche quelle meno soddisfatte del loro lavoro a prescindere.
Inoltre, il collegamento si dissolve se “controllato” con la “personalità psicologica” delle vittime.
A proposito, ecco un’altra importante scoperta: quel che conta è ciò che la donna sente più che quello che gli accadde. Quel che conta è la percezione dei comportamenti altrui e non i comportamenti in sé.
La percezione è tutto.
Esempio: entrambi i generi sono molto più predisposti a percepire molestia se a relazionarsi con loro è un capopiuttosto che un collega. Dal capo l’abuso è più atteso, e il fatto di essere atteso basta per “vederlo”.
Da un certo punto di vista la cosa ci tranquillizza: all’interno dell’azienda le relazioni con i colleghi sono molto più frequenti ed intense rispetto a quelle con i capi.
Ma c’è di più: la partecipazione a corsi anti-molestia acuisce la sensibilità e il malessere. Chi “frequenta” comincia a vedere abusi ovunque e a star male anche dove prima stava bene.
La partecipazione ai corsi anti molestia è fortemente correlata con l’insoddisfazione lavorativa.
Del resto, abbiamo appena detto che la partecipazione ai corsi fa percepire molestie ovunque e la percezione di molestie e correlata al insoddisfazione lavorativa.
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C’è poi un’osservazione empirica indiretta ma decisiva: la produttività di un ufficio è “interdipendente”. Si basa cioè da come si coordinano le produttività dei singoli.
La fonte principale del circuito virtuoso è lo scambio intenso e continuo di informazioni tra gli appartenenti allo stesso ufficio, qualcosa che la lotta alle molestie mina alla radice.
Questo fatto è estremamente rilevante e sostiene l’importanza di esaminare qualsiasi “politica dei diritti” alla luce dell’ostacolo comunicativo che introduce.
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In generale, gli economisti sottolineano l’inefficienza di qualsiasi proibizione: proibire le molestie significa di fatto proibire un contratto volontario.
In che senso? Un datore di lavoro che intende provarci col suo personale femminile potrebbe pagare alle donne uno stipendio più elevato affinché costoro affrontino il rischio correlato, e per molte – quelle con più pelo sullo stomaco – la cosa si trasformerebbe in un affarone… che il proibizionismo manda in fumo.
Del resto, prima parlavamo di ambiente ostile. Ebbene, ci sono moltissimi casi in cui un premio salariale compensa chi lavora in “ambienti ostili”. L’autista che trasporta esplosivi ha una paga ben più elevata di chi trasporta barbabietole.
Ma alcuni ritengono che il proibizionismo sia efficiente poiché abbiamo a che fare con preferenze malleabili. Il molestatore può essere “curato” e perdere il vizietto. D’altronde, chi tollera la molestia può essere “curata” e rimuovere questa insana tolleranza. Il proibizionismo sarebbe quindi è “dinamicamente efficiente“.
C’è poi chi sottolinea l’asimmetria informativa che renderebbe più difficoltosa l’autocorrezione del mercato. Vale a dire, quando una donna cerca lavoro non sa a priori se l’ambiente in cui andrà a lavorare sarà più o meno ostile, il che non rende l’antiproibizionismo più efficiente a prescindere. Inoltre, le lavoratrici più virtuose sarebbero comunque penalizzate da salari più bassi, e questo va in ogni caso evitato per ragioni etiche.
Ma l’antiproibizionista insiste che si tratta pur sempre di un problema di produttività e in quanto tale può essere trattato efficientemente all’ interno dell’azienda. Perché mai un’ azienda, infatti, dovrebbe accettare che alcune sue lavoratrici siano insoddisfatte e non contribuiscano come possono allo sforzo produttivo? Lavoratrici insoddisfatte e desiderose di andarsene rendono meno e sono quindi un problema innanzitutto per il padrone. E’ il mercato stesso a fare piazza pulita delle imprese meno efficienti che, per quanto detto, sono anche quelle che più tollerano la molestia sessuale.
Sì ribatte che la legge può comunque velocizzare questo processo virtuoso di espulsione.
Altra critica al proibizionismo: le leggi sulle molestie creano degli enormi quanto ingiustificati costi di applicazione (telecamere, processi, interrogatori, divisioni, errori giudiziari…). In questo senso, poiché tali costi vengono poi trasferiti ai consumatori, sono un danno per la collettivitàintera.
Gli antiproibizionisti fanno anche notare che la presenza di leggi ambigue contro le molestie danneggia innanzitutto il gentil sesso: le donne potrebbero avere più difficoltà ad essere assunte o comunque a godere di salari parificati all’uomo. Si tratta in pratica di una versione estesa a tutte del “soffitto di vetro”.
Ma la critica più ficcante contro il proibizionismo è decisamente quella che punta il dito sul declino delle relazioni sociali.
Facciamo un esempio: l’azienda, insieme all’università, e anche la più efficiente agenzia matrimoniale. Una funzione destinata a subire un duro colpo.
Altro esempio: molto spesso il capitale umano in azienda si forma attraverso una vicinanza al capo chiamato praticamente a fare da chioccia e a instaurare una relazione vicina a quella del mentore. Una procedura destinata a  svanire per i rischi che comporta.
Altro esempio, il valore della diversità. Se persone diverse lavorano insieme probabilmente queste differenze verranno valorizzate in un interscambio. Ma se la vicinanza di uomini e donne (una delle differenze più benefiche) diventa problematica questi benefici collassano.
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Quando una persona sa generare valore costruendo una fruttuosa rete di contatti si dice che possiede un elevato capitale sociale.
In azienda il capitale sociale delle persone è una manna: intense relazioni sociali possono essere sfruttate per realizzare forme di cooperazione produttiva.
In altre parole, l’impresa ha un chiaro incentivo ad impiegare persone che posseggono un alto capitale sociale. Bene, provvedimenti contro le molestie disseccano questa fonte di valore.
Meno relazioni, meno cooperazione, meno diversità, meno socialità, meno interazioni, meno produttività.
Il punto chiave di tutto è quindi il trade-off che esiste tra deterrenza della molestia e deterrenza alla libera comunicazione.
La paura della molestia e la paura dell’equivoco comprimono la produttività dell’impresa.
Abbiamo appena visto che  la percezione e tutto, i fatti oggettivi quasi niente. Per questo l’equivoco si annida ovunque.
Le politiche pubbliche – come le politiche aziendali – che acuiscono la percezione della molestia, acuiscono anche la repressione comunicativa. L’azienda dovrebbe scoraggiare l’ipersensibilità delle donne. Qualora non si agisca efficacemente su questo fronte la donna rischia di essere vista come collega indesiderabile e da evitare: la sua promozione ai ranghi più elevati si trasforma in un costo innanzitutto per chi la promuove, il quale agirà con riluttanza.
Si può concludere dicendo che la molestia sessuale non puo’ essere trascurata per i costi che genera, soprattutto a livello familiare (divorzi). Tuttavia, qualsiasi sia la politica per combatterle, bisognerebbe lasciare un ruolo anche al mercato, ovvero all’istituzione più flessibile e informata a nostra disposizione. Inoltre, la formalizzazione della prostituzionepotrebbe attenuare il problema mantenendo la sfera sessuale e quella lavorativa ben distinte.
6 letture
David Laband+Bernard Lentz “The Effects of Sexual Harassment on Job Satisfaction, Earnings, and Turnover among Female Lawyers.”
Heather Antecol+Deborah Cobb-Clark: “Does Sexual Harassment Training Change Attitudes? A View from the Federal Level.”
Kaushik Basu: “The Economics and Law of Sexual Harassment in the Workplace”
John Donohue: “Prohibiting Sex Discrimination in the Workplace: An Economic Perspective.”
Richard Posner: “Employment Discrimination: Age Discrimination and Sexual Harassment.”
Elizabeth Walls: “Sexsual Farassment policy and incentives to social interaction”
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13-14 Il mito della buona politica

Il mito della buona politica

No. Il cancro della povertà non si estirpa con la buona politica.
Le istituzioni non bastano, mi spiace.
Lo hanno creduto in molti studiosi di vaglia, Douglas North e Daron Acemoglu su tutti. Il mio rispetto è massimo ma nel loro resoconto qualcosa non quadra.
Il Medio Oriente – ma anche l’Oriente – tra il 1500 e il 1800 esprimeva società economicamente vitali, le (buone) istituzioni arrivavano ovunque, erano una panoplia estremamente curata. Come mai questa civiltà non si mise a capo nella marcia del mondo verso la ricchezza?
Gengis Khan ottenne la sua supremazia mongola attraverso un’applicazione rigorosa della “rule of law”. Implacabili sanzioni colpivano chi rubava una bestia, e gli animali erano il capitale di allora. Il risultato fu l’assai ammirata pax mongolica del XIII secolo. Pace e certezza del diritto assicurati per tutti. Ma come mai una simile pulizia istituzionale non partorì sviluppo e modernità? Come mai l’idea di “innovazione” sistematica non toccò mai queste linde lande?
I mercanti italiani dopo il 1300 continuarono a battere le rete viaria tra Ungheria e Corea elogiando la sicurezza e il controllo dell’autorità preposta alle comunicazioni.
Ma l’affermazione della legge si diffonde anche nelle società prive di autorità formale, nell’Islanda narrata dalle saghe, per esempio. Il motto dell’antica – e anarchica – Islanda: “solo la legge fa fiorire la vita dell’uomo”. Niente polizia in Islanda, ma una legge certa sì. Quando Gunnar Andersson uccise due membri della famiglia Giuriss, la famiglia fu autorizzata dalla legge ad ucciderlo e alla fine lo fece. Nessuno andò dalla polizia ma la legge parlava chiaro e fu applicata: la vendetta fu vista con favore da tutti. Il diritto trionfò.
I recenti esperimenti da laboratorio del premio Nobel Vernon Smith mostrano che la proprietà privata emerge dall’interazione spontanea anche in mancanza di un’autorità centrale. In compenso la storia ci dice come un’autorità centrale possa ostacolare la nascita del diritto di proprietà: la politica non è tutto, e a volte è molto meglio così.
Per sostenere l’ardita tesi per cui senza un re non c’è legge bisogna prelevare ad hoc campioni estremamente angusti della storia umana.
Le leggi nell’Inghilterra di fine Settecento dipendevano forse della politica? Uno studioso come Joel Mokyr ha dedicato buona parte dei suoi sforzi per negare con forza l’asserto! Non parliamo di uno studioso marginale e velleitario, parliamo di uno dei padri della storia economica contemporanea.
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Soprattutto l’etica, non la politica, teneva insieme le società di allora.
Le regole del gioco non ci fanno giocare bene se noi non vogliamo giocare a quel gioco.
Le regole del gioco non ci fanno essere persone corrette se noi non le sentiamo corrette.
I codici legali dell’antica Mesopotamia, come per esempio il codice Hammurabi di Babilonia, non bastano a proiettare un popolo nella modernità.
Sostenere che la buona legge fa la buona società è come dire che l’incendio nel granaio è causato dal granaio. Magari il granaio lo attizza ma…
Purtroppo, l’economista ha una deformazione professionale, vuole spiegare la storia solo con gli incentivi, e quando non ci riesce non rinuncia, non molla la sua preda nemmeno di fronte all’evidenza. Nell’ economista manca la volontà di prendere l’etica sul serio: lo capisco, vorrebbe dire rinnegare interamente il suo paradigma di riferimento.
Che la corruzione sia illegale è una regola che vale a Stoccolma come a Dehli. Eppure…
La differenza la fa l’etica, inutile girarci attorno.
La cultura italiana per esempio è una cultura di norme ambigue. E’ spesso la cultura del furbetto che salta la coda.  Queste istituzioni informali contano più delle regole scritte.
La legislazione è un conto, la regola interiore un altro. Altrimenti, nel giro di una settimana trasformeremmo l’Africa in un’ immensa Svezia: basterebbe traslare laggiù le leggi di lassù.
Senza una comprensione adeguata della moralità e delle convenzioni sociali, lo storico non può nemmeno comprendere l’influenza reale delle istituzioni formali.
Con l’invenzione della stampa la regola può essere fissata una volta per tutte, ma questo non fa perdere in nulla l’importanza dei costumi.
La legge reale emerge da una dialettica tra l’ethos della popolazione e la legge formale. Qualcuno ha detto che la legge è una “conversazione”. Potremmo anche paragonarla ad una “danza”: una danza non può essere ridotta ad uno schema di passi.
Lo aveva capito Aristotele nell’ Etica Nicomachea, lo aveva capito l’autore dell’ Esodo e lo aveva capito anche l’autore della Mahabharata: la scelta di sottomettersi a una regola è un doloroso esercizio di identità. Non c’è una regola scritta e un soggetto che la osserva; c’è invece un soggetto in cerca della sua identità che si confronta con la regola scritta e delibera nel foro della sua coscienza.
Non c’è solo la l’autorità che verga un codice: c’è la dialettica, la conversazione, la storia, la vergogna, il senso del sacro… tante cose interagiscono. Cio’ che succede è la risultante di tutto questo. Se uno si limita al codice non capirà mai nulla di quello che accade.
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A cosa si deve la resurrezione di San Francisco dopo il terrificante terremoto del 1906?
Non alla politica, la politica in quel frangente fu messa da parte. Un comitato di imprese e leader civici prese in mano la situazione. Grazie alla coscienza e all’opera di queste persone la città si riprese prontamente. La politica ha avuto un ruolo marginale.
Nel 2005 la storia si ripete a New Orleans con Walmart e Home-Depot che si sostituiscono alla politica.
A volte un economista come Oliver Williamson fa finta di prendere l’etica in considerazione ma lo fa riducendola a semplice incentivo.  Non riesce a pensare che in termini di incentivi.
Chi svaluta il ruolo dell’etica dice che muta lentamente, che il suo gradualismo non dà conto dei fenomeni ma li segue pedestremente.
Sbagliato. L’etica che giudicava le donne al lavoro è cambiata repentinamente nel corso degli anni 60 e 70. L’etica presso i romani alla fine del primo secolo è cambiata rapidamente passando dai valori repubblicani e quelli imperiali. L’etica della cristianità tedesca agli inizi del XVI secolo si è trasfusa rapidamente dal rilassato regime delle indulgenze a quello rigoroso del protestantesimo. L’etica con cui gli inglesi giudicavano il commercio e le innovazioni tecnologiche alla fine del 700 è passata dal disprezzo all’ammirazione, e non lo ha fatto gradualmente ma pressoché di colpo.
Un cambio molto più rapido di quello istituzionale!
I tribunali, nel frattempo, hanno continuato a “giudicare” secondo le prolisse procedure precedenti. Il diritto di proprietà non si smuoveva. La legge penale era ancora fortemente sbilanciata contro i poveri. Eppure, il giudizio e la retorica sugli innovatori è cambiata. È bastato quello per realizzare una rivoluzione.
L’etica può svoltare in un attimo. Considera in Italia le vicende di mafia nei primi anni 90 e la sollevazione di popolo a favore di certi giudici: una svolta inattesa quanto repentina che ha cambiato le carte in tavola dopo decenni di omertà. È stato un cambio ideologico, non istituzionale.
L’istituzionalista e l’economista di fronte al mistero delle idee e dell’ideologia restano spiazzati e si oppongono, di solito tendono a ridurre l’idea a puro stimolo biologico. Ci si appella alle scienze neurobiologiche. Tutto deve essere inquadrato come “meccanismo”, l’ umano va espulso.
Ma per comprendere l’azione rivoluzionaria delle idee pesa di più l’approfondimento umanistico che discende dall’abbracciare 2000 anni di storia che l’approfondimento scientifico sul cervello partito negli anni 80.
Chi trascura la cultura e si concentra sulle regole del gioco, non comprende che le regole del gioco sono sempre in discussione.
Quando, tanto per dire, l’economista pensa alla teoria della “broken window” elaborata nel mondo della criminologia da Kelling e Wilson la pensa come mero incentivo e non come “conversazione”, ovvero come messaggio culturale del tipo: “questo posto è carino e ben curato perché chi abita qui trova che valga la pena di averne cura, vuoi unirti a questa comunità civile? Vuoi partecipare anche tu?”. No, l’unica cosa a cui pensa l’economista è la logica law&order: dove c’è ordine, c’è nascosta la pula da qualche parte.
L’economia trascura il linguaggio. L’economia è una scienza prelinguistica. In Marx come in Samuelson la valenza del linguaggio è azzerata.
Ma per avere un obbligazione bisogna sentirsi in obbligo, bisogna riconoscere un dovere, bisogna saperselo rappresentare, bisogna avere le parole giuste per rappresentarselo.
Agli economisti piace molto la teoria dei giochi, che come premessa ha il “taci e gioca”. In quel taci c’è l’azzeramento del linguaggio: tutti giocano capendo il gioco allo stesso modo, lo si dà per scontato. Il gioco, in un certo senso, si oppone al linguaggio.
Se ti prometto di fare qualcosa tu reagirai a seconda di cosa intendi con il termine “promessa”. Io che ricevo la tua promessa farò altrettanto. Dentro questa presunta comprensione scatta un corto circuito che sfugge all’economista ma non è affatto irrilevante.
L’economista dà per scontata l’ inequivocabilità del linguaggio quando l’equivoco è dietro l’angolo ovunque.
Pensiamo al significato della parola “onestà” presso la nostra cultura e presso quella africana del popolo che intendiamo aiutare. Spesso c’è un abisso. Pensiamo poi alla parola “onore”, l’abisso si approfondisce. Con queste premesse aiutare sul serio dando delle indicazioni diventa difficile.
Chiamare una persona disonesta nella società aristocratica implica un duello, per esempio. Chiamare una persona disonesta nella società borghese implica scherno e derisione. I significati cambiano a seconda della cultura e l’equivoco è sempre in agguato.
Nella cultura aristocratica l’innovazione non era testata dal mercato. Inventare una nuova macchina da guerra era di per sè ammirevole anche se la profittabilità dell’innovazione restava dubbia. Il significato del termine muterà radicalmente.
Quando possiamo dire che esiste un accordo tra due parti? Che un patto è stato stipulato? Per l’economista non esistono problemi di questo genere, per lui tutto è scontato: c’è un accordo! Eccolo lì! Per lui un patto è un “fatto bruto”. Ma nella realtà le cose sono assai diverse. La società è tenuta insieme da convenzioni che ci fanno capire quando un accordo esiste, quando un patto è siglato. Queste convenzioni sono sempre sotto pressione, sono sempre in discussione, sono sempre soggette a slittamento.
Come esprimere una preferenza? Anche questo problema affonda le sue radici nel linguaggio. Bart Wilson è uno studioso che ha molto da dire in merito, e non si tratta di banalità. Noi siamo sicuri di ciò che sta nel nostro cuore ma come possiamo esserlo di ciò che sta tra noi e l’altro? Nella decifrazione di questa intercapedine la cultura gioca un ruolo centrale. Nel generare cooperazione, per esempio, la cultura è decisiva. E che cos’è il capitalismo se non cooperazione volontaria?
E’ l’approccio umanistico a gettare luce sulle istituzioni, non viceversa.
L’economista vede l’istituzione come un vincolo esterno, non come qualcosa sempre in discussione che la cultura crea e negozia di continuo. Le cose non possono essere ridotte a “preferenze+vincolo di bilancio”. Troppo facile.
Poi ci chiediamo perché in Africa certe istituzioni palesemente vantaggiose non allignano. Abbiamo smesso di capire cos’è l’uomo, se ci impantaniamo non è sorprendente!
La scienza economica, per capire, ha bisogno di più “significati” e di meno “regole del gioco”!
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Il defecatore anarchico

Il defecatore anarchico

Un orco si aggira per l’India, è il defecatore all’aria aperta (DAA). Uccide ogni anno molti bambini, e di quelli che risparmia ne mette a repentaglio la crescita mentale e fisica.
Come combatterlo? A prima vista sembra tutto facile: costruiamogli  una latrina e cesserà di defecare en plein air. Pia illusione.
Ma perché i DAA si concentrano in India? La povertà di quel grande paese spiega assai poco: altri paesi con sistemi sanitari  più precari non conoscono l’ open defecation (OD).
Nel vicino Bangladesh, per esempio, l’uso del gabinetto è pressoché universale, anche nelle zone rurali. In passato l’OD è stata all’origine del colera ma una volta individuato il problema è sfato facile debellarlo. In india le cose sono andate diversamente.
Forse vale la pena di annunciare una realtà sconcertante: il DAA possiede già un bagno dove defecare, a volte anche due, ma quando si giunge al dunque e deve farla, le sue scelte diventano inspiegabili.
Una latrina costa poco, il problema non è la disponibilità. Il governo indiano ne fornisce una montagna ogni anno. Nemmeno il più scannato governo africano sembra aver problemi in questo senso.
Al mondo ci sono 55 paesi più poveri dell’India. Almeno 46 hanno una percentuale di DAA inferiore. Come mai? Mistero.
E se il reddito pro-capite desta sospetti, scegliete voi l’indicatore di povertà che più vi aggrada, la musica non cambia. Una cosa è certa: DDA  e povertà sono scollegati, e la cosa non sorprende chi si è cacciato in testa due concetti chiave: 1) una latrina rudimentale ha costi quasi nulli 2) l’indiano povero è ben più ricco e ben meno numeroso del subsahariano povero.
Altro indizio: in India i musulmani sono mediamente più poveri degli indù ma hanno meno probabilità di praticare l’ OD.
Oltre alla povertà c’è un’altra ipotesi fallace, eccola: l’OD è una pratica peculiare di quei paesi con carenza d’acqua. L’India sarebbe tra questi.
No: l’ India rurale ha più OD che altri paesi con pari o minor accesso all’acqua. Senza dire che occorre veramente poca acqua per l’uso di una latrina economica.
I Tuareg del deserto non sono DAA. Per scavare un fosso non occorre acqua.
Il colpo di grazia all’ipotesi dell’acqua: molte famiglie indiane sono ben collegate agli acquedotti ma continuano imperterriti a defecare nella tradizione dei padri.
Altra ipotesi del menga: l’ OD è un frutto di scarsa educazione e analfabetismo.
Anche qui i confronti internazionali sono impietosi. Senza andar lontano: anche nel vicino Sud Asia ci sono paesi con più analfabetismo e meno DAA.
Altra ipotesi che non regge: il DAA si diffonde perché il governo è inerte.
Credete forse che Afghanistan, Congo, Haiti, Liberia, Myanmar, Pakistan e Sierra Leone siano più solerti nel procurare servizi igienici alla cittadinanza? No, lo sono meno. Eppure non conoscono OD di sorta!
Monty G. Marshall e Ted Robert Gurr sono i due scienziati sociali che si sono incaricati di invalidare l’ipotesi del malgoverno (misurato secondo i criteri della Banca Mondiale).
Come se non bastasse, la mancata correlazione malgoverno numero di DAA si registra anche comparando gli stati indiani.
Altra ipotesi fallace: il DAA si diffonde se mancano i cessi.
Certo, una rudimentale latrina è meno piacevole di un bagno con i marmi, detto questo l’ India è un paese che puo’ permettersi e si permette latrine per tutti.
Il fatto che molti DAA posseggano un bagno taglia la testa al toro.
Giungiamo allora al problema chiave: cosa rende l’uso del cesso così particolare in India? Sono 30 anni che il governo sussidia i bagni ma il problema degli orchi non viene scalfito in modo significativo. Perché?
Qualche numero. Dal 2001 al 2011 l’uso del cesso è aumentato solo di nove punti percentuali ma l’aumento della popolazione ha più che compensato questo leggero miglioramento: oggi esistono più DAA di ieri (8 milioni in più, per la precisione)! Questo mentre le risorse per le fogne aumentavano del 46%.
Sintetizziamo così: se il governo garantisse una latrina per tutti 2/3 della popolazione non la userebbe e i DAA stazionerebbero intorno al 50% della popolazione. Ergo: la costruzione di latrine non è la soluzione.
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Il tipico defecatore indiano la fa due volte al giorno, la prima intorno alle 5:00 del mattino e la seconda verso le 7:00 della sera. Cammina per circa mezz’ora al fine di cercare un luogo adatto: un campo, un bosco o una piazza isolata. L’unico criterio a guidarlo è il suo sfizio del momento. Mezz’ora andare e mezz’ora a tornare (ne risente anche la sua produttività!). Le donne adottano modalità simili nelle frequenze e nelle durate, il che costituisce probabilmente la principale oasi di libertà femminile concessa ad una sposa indiana. Anche per questo sono soprattutto loro ad osteggiare l’abbandono della pratica.
Il defecatore all’aria aperta afferma tranquillamente che il governo voleva rifornirlo con una latrina ma lui l’ha sdegnosamente rispedita al mittente. Perché? Perché avere un bagno in casa l’avrebbe costretto ad una “convivenza” orribile, non avrebbe potuto neanche più chiudere occhio sapendo di una presenza tanto inquietante a  pochi metri dal suo giaciglio. Un bagno in casa è quanto più disgustoso possa immaginare.
Il defecatore indiano vive in un mondo in cui defecare all’aria aperta è sinonimo di pulizia mentre la presenza di un bagno nelle vicinanze è sinonimo di sporcizia. Ma, attenzione, fa molta fatica a separare i suoi concetti di pulito e sporco dall’idea di bene e male in senso rituale e religioso.
Pulizia fisica non coincide sempre con la pulizia rituale. Alcuni oggetti sono fisicamente puliti ma nonostante ciò sono ritualmente sporchi, come per esempio un canale di scolo perfettamente nettato. La buccia della frutta e gli escrementi di topo per terra sono fisicamente sporchi ma non ritualmente inquinanti. Gli indù credono per esempio che gli escrementi e l’urina della vacca siano addirittura purificanti. Molto spesso persino le loro dimore sono costruite ricorrendo allo stallatico. Il neonato, anche se pulito, nonché la madre che si è appena sgravata, sono considerati temporaneamente inquinati e inquinanti. Bisogna poi evitare anche solo di toccare i membri di una casta inferiore. La mano sinistra è impura perché è quella con cui il defecatore all’aria aperta si pulisce.
Ora, nelle campagne indiane molto spesso si è più preoccupati della purezza rituale rispetto alla pulizia fisica. La dialettica puro/impuro domina la vita di molti indiani.
Il concetto di puro e impuro sono altresì al centro del sistema delle caste. La casta ha molte conseguenze nella vita di tutti i giorni, è ereditata dai genitori alla nascita e non può mai essere cambiata, un po’ come la razza per noi. Le persone che appartengono a caste elevate sono considerate intrinsecamente più pure mentre quelle di caste inferiori sono considerate inquinate e inquinanti. Spesso gli appartenenti alle caste superiori rifiutano il cibo preparato da persone delle caste inferiori.
I vestiti che la partoriente veste in ospedale sono considerati impuri e vengono fatti lavare da personale appartenenti alle caste inferiori. Il sistema domina ancora nelle campagne ma anche in città è tutt’altro che morto.
La regola del puro e dell’ impuro, come tutte le norme religiose, è via via divenuta norma sociale ed è stata impiegata per rinforzare le gerarchie.
Rimuovere le carcasse degli animali morti, pulire le feci e l’immondizia negli spazi pubblici, preparare il corpo dei cadaveri per la cremazione, sono tutti  compiti che spettano esclusivamente alla casta degli Intoccabili. Gli Intoccabili sono sporchi perché fanno lavori sporchi, e i lavori sono sporchi perché sono fatti dagli Intoccabili. Come dicevamo prima, non c’è infatti sempre una concordanza tra la sporcizia fisica e quella rituale: gli intoccabili infatti svolgono anche lavori che non hanno nulla a che fare con la sporcizia fisica, per esempio sono musicisti, oppure calzolai.
Per un indiano l’importanza della pulizia casalinga è massima. Ma il suo concetto di pulizia si ferma sulla soglia della propria abitazione. Una volta liberatosi dallo sporco strettamente casalingo, la pulizia esterna spetta agli intoccabili, dedicarvisi sarebbe una debolezza e soprattutto un segnale di basso status. La piaga della sporcizia che affligge molte città indiane non è solo un problema che deriva dalla scarsa cura per gli spazi pubblici ma anche un problema legato alla politica delle caste. Se l’indiano abbandona la sua spazzatura non è per una questione di pigrizia ma per affermare in pubblico il fatto di non essere un intoccabile. Sono gli intoccabili infatti a dover pulire gli spazi pubblici. Avevamo visto questa dinamica all’opera presso gli zingari, che d’altronde hanno origine indiana.
Si crea poi come una gara tra caste, ciascuna casta cerca di affermare la propria superiorità sull’altra adottando criteri di purezza sempre più stringenti, laddove le caste inferiori imitano il comportamento di quelle superiori le quali vorranno ulteriormente distinguersi.
Si creano anche paradossi curiosi, per esempio: se un Intoccabile anela alla mobilità sociale verso l’alto – almeno nelle apparenze – smetterà di allevare maiali, il che probabilmente lo impoverirà visto che parliamo di un’attività comunque redditizia.
Quanto abbiamo detto ha molto a che fare con il problema dei defecatori all’aria aperta, costoro ritengono che se il bagno verrà collocato nelle loro case ci sarà cattivo odore, i germi si moltiplicheranno: il bagno in casa per un defecatore all’aria aperta è un vero e proprio incubo. Tutta la casa ne sarà inquinata, ripulirla diverrà una missione impossibile, nemmeno le candele purificanti hanno potere contro un simile demonio. I problemi aumenteranno poi se il bagno verrà collocato vicino alla cucina, oppure vicino alla stanza dedicata alla preghiera.
Possiamo quindi dire che le ragioni addotte dal defecatore all’aria aperta hanno a che vedere con le sue credenze, con i suoi valori e con le norme legate al concetto di purezza, inquinamento e intoccabilità. Non sono ragioni legate alla disponibilità.
Purtroppo, l’esposizione a certi ambienti privi di sanitari è molto nociva alla salute, specie a quella dei bambini. Da questo punto di vista l’India è speciale per almeno due ragioni. Primo, possiede un numero di defecatori all’aria aperta molto più elevato rispetto a paesi anche più poveri di lei. Secondo, la grande densità di popolazione tipica dell’India rende particolarmente nociva e infausta la presenza di questa gente.
I microrganismi presenti nelle feci diffondono molte malattie. In India il problema sono gli indù, i musulmani non fanno nessuna difficoltà quando viene proposto loro di accettare un bagno in casa. Questo fatto forse spiega al meglio il cosiddetto paradosso della mortalità musulmana tipico dell’India.
Perché un bambino musulmano ha molte più probabilità di un bambino indiano di sopravvivere durante l’infanzia? La domanda è cruciale, anche perché  i musulmani indiani sono per molti versi una minoranza svantaggiata.
Secondo la teoria dei germi, la defecazione all’aria aperta diffonde molte malattie che possono uccidere o minare un bambino, la diarrea è solo il caso più ovvio. In India, un musulmano ha molte meno probabilità di un indù di defecare all’aria aperta. Inoltre, un musulmano tende a vivere vicino ad altri musulmani mentre un indù tende a vivere vicino ad altri indù. Come se non bastasse, i bambini indù che vivono in villaggi a prevalenza musulmana hanno una speranza di vita pari a quella dei bambini musulmani. L’ ipotesi dei defecatori spiega al meglio tutti questi dati.
Oggi possiamo tranquillamente affermare che probabilmente più di 200.000 bambini sotto i 5 anni, e sicuramente più di 100.000, muoiono a causa dei defecatori all’aria aperta. Adesso avete capito perché  all’inizio parlavo di “orchi”.
Un altro indicatore eloquente della salute di una popolazione è la statura.
Ricchezza e salute vanno insieme, come del resto statura e ricchezza. Le tre variabili, insomma, sono strettamente legate. Ma lasciamo perdere la ricchezza, già ampiamente trattata. E’ logico attendersi che il nesso vada dalla salute alla statura(non si vede come possa essere altrimenti).
Ebbene, gli indiani se paragonati alla popolazione di altri paesi poveri, sono particolarmente bassi. I ricercatori chiamano questa sproporzione “enigma asiatico” ma andrebbe ribattezzato più correttamente “enigma indiano”. Consiste nel fatto che una bambina indiana di 5 anni è mediamente più bassa di 2/3 di centimetro rispetto ad una coetanea subsahariana. Un’entità apparentemente trascurabile ma che gli esperti reputano invece estremamente significativa nello sviluppo successivo.
La statura sembrerebbe un parametro genetico ma la storia è piena di esempi di popolazioni che pensavamo geneticamente basse i cui bambini, non appena le condizioni di vita sono migliorate, hanno cominciato a crescere di brutto guadagnando i “centimetri perduti”. Molti i nativi messicani sembravano decisamente più bassi rispetto ai latini ma non appena è cominciata la migrazione verso gli Stati Uniti i loro figli sono cresciuti al punto da colmare il gap precedente. Alcuni ricercatori hanno tenuto sotto osservazione i bambini indiani adottati in Svezia, i risultati confermano come la statura sia estremamente sensibile all’ambiente. D’altronde, anche gli Europei di oggi sono molto più alti degli Europei di un secolo fa, e i tempi in cui si è prodotta questa differenza non sono certo legati all’evoluzione della specie. Come se non bastasse, nelle stesse regioni indiani esistono differenze, un bambino del Bangladesh è più alto di un bambino del Bengala indiano, e questo a parità di reddito e di condizione sociale. Certo, una donna del Bangladesh ha più probabilità di una donna indiana di scrivere, leggere e avere un lavoro, ma la differenza decisiva è che nel Bangladesh non si pratica ormai più, nemmeno nelle campagne, la defecazione all’aria aperta.
Una donna che appartiene a comunità che defecano all’aria aperta ha molte più probabilità di interrompere l’allattamento quando il bambino è ancora piccolo, la media dei tempi di allattamento è pari a 2 mesi, questo a causa di infezioni come per esempio la mastite. In casi del genere si passa dal latte materno al latte di bufalo mischiato con acqua che a quest’età ha certamente conseguenze negative sui piccoli. Sia il latte di bufalo che quello vaccino non sono particolarmente digeribili, almeno rispetto al latte materno. Inoltre, il latte dato nel biberon viene esposto a molti più germi, spesso contenuti nel latte stesso che non è bollito a regola d’arte. L’allattamento al seno è una barriera contro i germi diffusi dal defecamento all’aria aperta, ma le infezioni, che hanno la medesima origine, spesso ne impediscono l’adozione.
Il defecatore depone le sue feci sul terreno, le mosche si posano acquisendone i germi, oppure un adulto le calpesta, oppure i bambini stessi giocano nelle vicinanze in un ambiente sporco e contaminato. Oltretutto, in India, il ciuccio è poco diffuso e sostituito dalle dita – sporche – della mamma.
La conseguenza più ovvia di questo ambiente insalubre è la diarrea, ma molto diffuse sono anche le disfunzioni enteriche, è in genere tutte le malattie dell’intestino. I parassiti onnipresenti ostacolano la crescita del bambino in vari modi. Primo, si appropriano letteralmente delle sostanze nutritive destinate al piccolo. Secondo, causando una cronica mancanza di appetito, oltre che un intestino butterato e sanguinante che rende sempre più difficile la digestione.
Diversamente rispetto all’India, molte famiglie del Nepal hanno cambiato abitudine passando dalla defecazione all’aria aperta ai bagni e alle latrine, tutto questo nella decade precedente. Nel 2006 circa metà delle famiglie nepalesi defecava all’aria aperta, ma nel 2011 questa frazione è scesa al 35%. Si è subito registrato un miglioramento nei livelli di emoglobina, almeno in quelle regioni dove la defecazione all’aria aperta era collassata.
Ma che dire di quei bambini che in India e nelle regioni subsahariane sono esposti allo stesso ammontare di defecazione all’aria aperta? Ebbene, in questo caso non c’è differenza apprezzabile nella statura. Un altro tassello prezioso per risolvere l’enigma asiatico.
È chiaro che la conclusione è tanto più forte quante più le metodologie di ricerca convergono verso la stessa conclusione. È proprio il nostro caso, un primo metodo mette a confronto gli Stati, un altro mette a confronto le regioni, un altro ancora si basa sul cosiddetto “calcolo delle differenze”. Ebbene, qualsiasi sia la metodologia adottata,  la variabile che misura la defecazione all’aria aperta sembra la principale responsabile nei differenziali di statura.
Certo, l’approccio sperimentale più affidabile resta quello del “random trial”, difficilmente utilizzabile poiché presenta nel nostro caso parecchi problemi pratici. In genere si tratta di mettere a confronto villaggi a cui vengono forniti random dei sanitari con villaggi privi di sanitari, dove quindi l’ open defecation è diffusa. Purtroppo, in molti casi anche i villaggi ben forniti continuano a praticarla, vanificando così l’opera dei ricercatori.
Un altro problema dell’India è la densità della sua popolazione. La stessa frazione di defecatori all’aria aperta è molto più dannosa in India che altrove. Si è calcolato che la stessa esposizione dei bambini alle feci umane causa il doppio dei danni in India rispetto ai paesi africani.
Un altro importante problema è il nutrimento dei neonati. In India, i bambini tendono a nascere da madri molto giovani e di basso status, il che aumenta la probabilità di essere sottopeso. È chiaro che in queste condizioni si è più vulnerabili in partenza ai parassiti.
La defecazione all’aria aperta è, relativamente, un problema sanitario che riguarda tutti. Il denaro non può metterci completamente al riparo se viviamo in un ambiente così ricco di germi letali. Questa, in un certo senso, è una buona notizia: si spera che la riscossa parta dai benestanti desiderosi di migliorare l’ambiente in cui vivono.
Eppure, l’aspetto più rilevante dell’intera vicenda consiste nel fatto che le vittime sono prevalentemente i bambini, ovvero la generazione futura chiamata a compiere, in un paese promettente come l’India, il passo decisivo verso l’uscita definitiva dalla povertà.
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Chiudo con una curiosità personale: ma se le feci umane lasciate nell’ambiente sono tanto disastrose al punto da minare intere generazioni a venire, quelle canine sono del tutto innocue? No perché nel mio quartiere non si vive più, e non parlo solo delle zone erbose. Ci sono spazi dove ormai l’accesso dei bambini è assolutamente off limits, dove l’adozione del guinzaglio (per i bambini) è consigliabile vista l’attrazione fatale che l’erba esercita sul cucciolo d’uomo.
defecatori
(defecatore anarchico ripreso in piazzale Oberdan a Milano)