E’ possibile che nel mondo reale esista una catena infinita di eventi?
La domanda non è peregrina perché il concetto di “catena infinita di eventi” è utilizzato per esempio come alternativa al concetto di Dio nell’ argomento cosmologico.
Dobbiamo a George Cantor quanto sappiamo sugli infiniti.
William Lane Craig ha notato che applicando alcuni teoremi cantoriani alla realtà naturale otteniamo risultati paradossali. Per esempio, procedendo all’ infinito indietro nel tempo costateremmo che gli anni sono più numerosi dei giorni:
Suppose we imagine the column of past years stretching away from our left eye infinitely far into the distance, and parallel to it, stretching away from our right eye, the column of past days, also receding infinitely far. The two columns should be aligned at the near end, starting at the present, and the members of the two columns should be matched against each other one to one. I can now explain the sense in which the column of past days is not larger than the column of past years: it will not stick out beyond the far end of the other column, since neither column has a far end
Si dice che la pena di morte garantisca deterrenza, ma l’ evidenza è debole.
Si dice anche che assicuri un risparmio di costi. Vero, ma non nella misura che si crede considerando la serie infinita di appelli a cui accede il condannato.
Quanto alle questioi morali (“se lo merita”), ognuno ha i suoi principi.
Senza contare che non uccidere il condannato consente di riparare ai propri errori.
Per molti di noi “essere buoni” implica in qualche modo anche il “saper fare di conto”: poiché una buona azione deve produrre buone conseguenze, è necessario saperle prevedere e soppesare, almeno per quanto nelle nostre forze.
Oggi ancora più che un tempo le conseguenze sembrano al centro di ogni ragionamento etico. Pragmatici e utilitaristi danno grande enfasi all’ effetto ultimo di cio’ che si compie.
Possiamo chiamare “conseguenzialista” chi simpatizza con questo approccio.
Si è parlato tanto di “etica della responsabilità” (attenta alle conseguenze) contrapponendola all’ “etica delle intenzioni” (attenta all’ interiorità). Se non ti schieri per la prima vivi nel passato.
Ma c’ è un “ma” e con un esempio cerco di indicare dove si trovi la pietra d’ inciampo di ogni visione “conseguenzialista”.
… L’ albergo dove alloggia Clara prende fuoco e le fiamme divampano in pochi secondi. Lei fa appena in tempo a mettere in salvo suo figlio che giocava nell’ atrio. Ricostruendo a posteriori l’ accaduto ci si accorge che la donna avrebbe potuto salvare i due bimbi tragicamente periti che stazionavano più vicino a lei se non fosse corsa d’ istinto verso suo figlio che in quel momento giocava più distante. Giovanni, un pragmatista, chiamato a giudicare l’ operato di Clara da un punto di vista etico, applicando il suo approccio non puo’ esimersi da una condanna. Non è possibile fare altrimenti visto che, sebbene dirlo non sia facile, due vite pesano più di una. Anche Clara, a sorpresa, si dice una seguace del pragmatismo e capisce che ha agito in modo eticamente scorretto, eppure non si sente colpevole, non riesce a pronunciare una sincera condanna su di sé e sul suo operato in quelmaledetto giorno. In fondo l’ amore che ha coltivato per tutta la vita verso suo figlio aveva anche una funzione “pragmatica” e non poteva certo “liberarsene” in un attimo nel corso di quei terribili secondi…
Tutti comprendiamo lo stato di Clara e riflettendo sul suo dramma scorgiamo qual è il limite delle teorie etiche conseguenzialiste: spesso individuano comportamenti scorretti che poi non riescono a “condannare”. Una grave dissociazione. Clara si è comportata in modo sbagliato ma non è colpevole.
Per riepilogare da un’ angolazione leggermente diversa, secondo il pragmatista “rubare è sbagliato finché procura del male”, ma, affinché la gente si educhi a non rubare, potrebbe essere più efficace farle credere che rubare sia un “male in sé”, senza far intervenire nel ragionamento tanti faticosi distinguo. Un auto-inganno di questo tipo sembra proprio la soluzione più efficace. Ma credere che “rubare sia sbagliato in sé” vuol dire cessare di aderire al pragmatismo.
Insomma, capita spesso che il pragmatismo ci spinga verso teorie etiche diverse dal pragmatismo. Se il pragmatismo viene “professato” cessa di funzionare al meglio. Una teoria etica del genere si suole etichettare come “auto rimuovente”.
Oltre ad essere auto-rimuovente il conseguenzialismo è probabilmente “esoterico”, ovvero: funziona al meglio solo se creduto vero e praticate da pochi. Questa élite è tenuta a sussurrare la sua fede in circoli ristretti stando ben attenta al fatto che anche i muri possono ascoltare.
A voce alta, quando sentono popolo e muri, meglio sarebbe emettere un edificante fiotto d’ ipocrisie ben confezionate.
E se si vive davvero nel paese in cui “anche i muri hanno orecchi”, allora possiamo arrivare a dire che il pragmatismo si auto-confuta.
Ma è funzionale che una teoria etica sia auto-rimuovente? E’ morale che una teoria etica sia “esoterica” e “ipocrita”?
Ci sono buone ragioni per rispondere di no ad entrambe le questioni. Specie se dobbiamo fornire una risposta che travalichi il circolo esoterico.
Spero di aver seminato qualche dubbio ai pragmatisti che magari saranno indotti a cercare sul mercato dell’ etica qualcosa di più promettente. La merce non manca.
1. Il segreto? Pratica, pratica, pratica... Sì, ma quando iniziare? Presto… ancora prima… (domanda: ma sono seduti perché non ancora in grado di camminare?)… la marghe è già out…
2. Poi, ad una certa età, ecco la regressione… spunta la voglia di tornare nella propria cameretta e strimpellare inascoltati il toy piano della Bontempi…
2. E dopo i piccoli che giocano a fare i grandi, dopo i grandi che giocano a fare i piccoli… gli uomini che giocano a fare le donne… When a man sings like a woman...
Ross Douthat has just published an excellent column on America at the end of the 2000s, and he cites an essay by our friend and National Review contributing editor Jim Manzi that appears in the latest issue of National Affairs.
Social democracy has its benefits, but global competitiveness isn’t one of them. As Jim Manzi points out, in an essay on “Keeping America’s Edge” in the latest issue of National Affairs, “from 1980 through today, America’s share of global output has been constant at about 21 percent. Europe’s share, meanwhile, has been collapsing in the face of global competition — going from a little less than 40 percent of global production in the 1970s to about 25 percent today.”
A friend objected to this passage, arguing that U.S. population growth over that period accounts for the difference. Population growth does account for some of the difference, but it doesn’t eliminate the growth gap. This is despite the fact that the U.S. economy should have performed less well on this front according to the Solow-Swan model of convergence. For the most advanced and productive economy, further productivity gains are necessarily more “expensive” because they reflect the cost of experimentation designed to push beyond existing best practices. Many of those experiments will fail. This is the essence of entrepreneurship. Other economies can “follow-the-leader” by learning from its mistakes and apply domestic savings to the practices and technologies that emerge from the Darwinian competition that defines a competitive, entrepreneurial economy.
That is, European productivity growth should have been much higher than U.S. levels, according to the logic of conditional convergence. It was not, however. The real mystery is why Europe has been underperforming. One assumes that labor market rigidities are part of the problem, but there’s room for disagreement. As for the higher productivity per worker hour in France, it is to some extent an artifact of lower rates of labor force participation — if we excluded more young workers, low-skill immigrants, and part-timers from the workforce, we’d presumably have much higher productivity per worker hour. The post-1981 increase in work effort in the U.S. has, as economist Edward Prescott has noted, came primarily from high earners in response to lower marginal tax rates at the top. Before then, Europeans tended to work longer hours than Americans. As Casey Mulligan always says, incentives matter. One thing that saddens me is that this kind of nuanced picture is hard to get across on, say, radio or television. I was just on an excellent public radio program, and one of my fellow guests said that “we tried tax cuts and deregulation and they didn’t work!” How exactly does one respond to this? From my perspective, some tax cuts are good — like tax cuts that aim to increase work effort — and others are bad — like tax cuts that aren’t paid for by spending cuts. And as for deregulation, again: some kinds of deregulation are good, like when it leads to increased competition and lower prices, and others are bad, like “deregulation” that centralizes power in the hands of politically-connected elites. Liberals often accuse conservatives of peddling “bumper sticker” solutions — simple nostrums like tax cuts as the cure for all that ails us, etc. My sense is that many (not all) liberals have a “bumper sticker” solution as well: “Trust Us.” My sense is that it’s not tax cuts and deregulation that failed in the 2000s. Rather, it was the doctrine of trusting Washington. But this is all very abstract.
Molte persone mettono la ragione al primo posto. Deve stare lì, al centro della loro vita. Mai acconsentirebbero di bere al calice colmo del cosiddetto “siero dell’ irrazionalità”. Chi vi si presta, infatti, sa che dovrà cedere a condotte irrazionali.
Bene, forse un atteggiamento del genere è proprio quello che dovremmo insegnare ai nostri figli. Perché no?
Solo che dovremmo insegnare loro anche a non identificare “ragione” e “logica”.
Chi compie questa identificazione, infatti, è nei guai per il semplice fatto che “logica” e “vita” sono incompatibili.
Se la ragione si riducesse alla logica, una vita imperniata sulla ragione sarebbe contraddittoria.
E’ il “fattore tempo” che gioca di questi scherzetti: l’ uomo vive immerso nel tempo e il tempo è una spirale che si succhia la logica.
I conti non vi tornano? Illustro questa singolarità con due vividi esempi.
1. Giovanni è un tipo razionale (logico) e trasparente (non riesce a nascondere le sue reali intenzioni). Ora la sua macchina è in panne nel deserto, l’ acqua è finita da un pezzo e se non passa qualcuno al più presto rischia grosso; per fortuna un tale passa di là e Giovanni, fermandolo, gli promette mille euro per uno strappo fino alla città dove abita, lì potrà prelevare la somma del compenso promesso. Ma il tale tira dritto e per Giovanni si mette davvero male. D’ altronde non poteva andare altrimenti: Giovanni, essendo un tipo razionale, non avrebbe mai rispettato la promessa una volta arrivato in città e il tale l’ ha capito subito visto che Giovanni è anche un tipo “trasparente”. Meglio sarebbe stato per Giovanni, prima di contrattare con il suo potenziale “salvatore”, essersi abbeverato al “siero dell’ irrazionalità” (ce l’ ha nel cruscotto"): ma una simile “debolezza” è interdetta dalla regola di vita che si è dato. Ripensiamo ora a questa storia e tiriamo una morale: il comportamento autodistruttivo di Giovanni è imputabile al principio che lui segue: essere sempre razionale, ovvero non bere mai dal “siero”.
2. Giacomo – noto a tutti per la sua razionalità - è in casa con i suoi due figli e la moglie; fa irruzione un rapinatore e scatta l’ allarme: tra 50 minuti la polizia arriverà, il losco individuo lo sa, ha fretta e formula con chiarezza il suo ricatto: Giovanni deve rivelare la combinazione della cassaforte, in caso contrario verrà ucciso un famigliare ogni cinque minuti. Giovanni riflette: se parlo ci ucciderà tutti comunque perché ho visto la targa della sua auto e lui lo sa, se non parlo ci ucciderà uno alla volta per rendere credibile la minaccia. Sono in un vicolo cieco… aiuto!. In realtà una buona strategia ci sarebbe: bere dal “siero dell’ irrazionalità”; in questo modo sarebbe il rapinatore ad entrare in difficoltà: i ricatti sono efficaci solo se formulati a persone ragionevoli. Inoltre Giacomo potrebbe non rivelare mai la targa del delinquente: farlo sarebbe razionale per chi vuole recuperare la refurtiva – e il rapinatore lo sa. Ma se Giacomo “beve” non potrà più essere considerato razionale e questo rassicurerebbe il rapinatore che non è certo in cerca di aggravanti per il suo crimine; Giacomo avrebbe probabilmente salva la sua vita al prezzo dell’ oro. Purtroppo la strategia vincente, ovvero la strategia più razionale, cozza contro i principi di Giacomo che, essendo una persona razionale, ha giurato di non abbeverarsi mai al siero.
Queste considerazioni spingono verso un’ idea un po’ diversa di ragione. In particolare ci portano a dire che se l’ intuizione (senso comune) non facesse parte della ragione, la ragione sarebbe in qualche modo auto contraddittoria, il che, a sua volta, non sarebbe accettabile.
Derek Parfit – Reasons and Persons – Oxford press
p.s. ho iniziato a leggere questo libro perché in molti – in troppi per fare orecchie di mercante - dicono essere il più importante libro di filosofia morale scritto ai nostri tempi. Parfit confuta il razionalismo e l’ utilitarismo applicati all’ etica proponendo una specie di apriorismo.
Roberto Perotti sui costi dell' Università italiana:
... su una cosa studenti, rettori, politici e giornalisti sembrano d' accordo: l' università italiana soffre di una drammatica carenza di risorse... in effetti qualsiasi indicatore di spesa per studente sembra confermarlo, inclusi i dati OCSE... ma un' investigazione più approfondita rivela che per tutti i paesi eccetto l' Italia queste cifre si riferiscono alla spesa per studente "equivalente a tempo pieno"... cioè: tenendo conto degli studenti frequentanti... uno studente che in un anno fa solo metà degli esami riceve un peso di 0.5 e così via... uno studente che non frequenta e non dà esami non sottrae tempo ai docenti e non impone costi all' ateneo... se un ateneo spende 10 euro ed ha due studenti, di cui uno non frequenta, tutta la spesa è di fatto diretta verso un unico studente... per mancanza di informazioni, tuttavia, il dato italiano riguarda la "spesa per studente iscritto"... la differenza è rilevante perchè è ben noto che in Italia i fuori corso abbondano... facendo le dovute conversioni la spesa italiana per studente ci colloca tra i paesi più generosi... Un metodo alternativo ma molto simile consiste nel calcolare, anzichè la spesa annuale per studente, la spesa complessiva per gli studi universitari dello studente medio... anche in questo caso risulta che l' Italia spenda più della media OCSE e comunque più di molti paesi con con cui è plausibile un paragone...
E ancora sulla qualità della ricerca in Italia:
... c' è un' idea diffusa che nonostante la cronica mancanza di risorse l' Italia abbia una ricerca all' avanguardia... ma in genere si menzionano i buoni piazzamenti di una singola Università italiana senza tenere conto della sua enorme dimensione rispetto agli standard internazionali, oppure si trascura la qualità a vantaggio della quantità... aggiustando le classifiche anche solo per uno dei due fattori (dimensione/qualità) la posizione delle Università Italiane crolla...
Roberto Perotti – L’ università truccata
Recentemente Giuseppe De Nicolao ha criticato le posizioni di Perotti.
Dall' articolo le sue critiche erano incomprensibili, qui ho reperito una sintesi più compiuta del suo pensiero.
A me De Nicolao non convince: sui finanziamenti sembra contestare la mossa del Perotti dicendo che lo studioso, con la sua nozione di "spesa equivalente per studente", corregge i dati OCSE "solo per l' Italia".
Senonché, lo stesso Perotti spiegava che questa mossa si rendeva necessaria poiché l' Italia, e solo l' Italia, presentava all' istituto un dato disomogeneo.
Quando finalmente entrambi gli studiosi prendono in esame un dato comune (spesa complessiva per formazione terziaria dello studente medio), Perotti commenta asciutto che "la spesa resta più elevata della media OCSE", De Nicolao che "non sembra comunque un costo ai vertici mondiali". Mah, di sicuro ora è un po' più difficile parlare di "cronico sotto-finanziamento".
Passando alla delibazione qualitativa della ricerca italiana, De Nicolao non sembra convinto della misura (Fattore d' impatto standardizzato) utilizzata da Perotti e che consente, tenendo conto delle enormi dimensioni di taluni istituti, di collocare le università italiane in fondo alla classifica.
Detto questo, introduce delle condizioni restrittive sintetizzate in un "criterio di ammissibilità" con il quale, secondo me, si fa rientrare la quantità dalla finestra proprio quando lo scopo è quello di cacciarla dalla porta sterilizzandola. Tralasciare le bad performances di un ricercatore non sembra certo una grande idea, anche se fa comodo.
Un criterio restrittivo un po' troppo restrittivo per non pensarlo come "tortura" su dati restii a confessare quello che vorremmo sentirci dire.
Anche la riluttanza del De Nicolao a "pesare" la popolazione dei vari paesi confrontanti è quantomeno sospetta, chi negherebbe che la cosa conta? L' Argentina ha sempre avuto una nazionale di calcio più forte del Paraguay, e questo a parità di talenti; il motivo è semplice: pescare in un bacino più ampio di potenziali calciatori è un privilegio non da poco.
Diciamo poi una cosa: queste ricerche si compiono su un terreno sdrucciolevole visto che che le conducono dei professori/riceratori che, necessariamente, presentano forti conflitti d' interesse. E allora, un altro punto a favore del Perotti.
Che poi nella ricerca italiana manchino i capitali privati questo è un fatto. Solo che è un' aggravante qualora si consideri che una buona dose della colpa è anche dell' organizzazione che non riesce ad attrarli, nonché di una cultura diffidente che quando il "privato" si avvicina non sa far altro che lanciare l' allarme generale seguito dal lamento generale seguito dallo sciopero generale.
In effetti il programma politico dell’ obeso travestito promette bene: condonare tutti gli omicidi di primo grado, uccidere chi vi si oppone, perorare la causa del cannibalismo, decretare l’ incesto obbligatorio e mangiare merda.
Le premesse ci sono: il disgusto è la sua politica, il disgusto la sua vita.
Ma ora il primato della divina vacilla, i coniugi Marble vogliono soffiarle la palma cercando di realizzare un progetto semplice quanto ripugnante: rapire delle autostoppiste hippies, farle stuprare dal loro servo sifilitico, confinarle in cantina e vendere i bambini a coppie lesbiche. E la cosa sembra funzionare, già diversi adorabili paffutelli sono finiti in mani poco raccomandabili venduti a caro prezzo: il crimine si autofinanzia. [… successivamente sarà la nostra eroina a liberare le autostoppiste che furiose come baccanti evireranno il servo…]
Il guanto di sfida è lanciato sotto forma di “stronzo umano”: è infatti il regalino che la coppia recapita via posta alla drag queen in occasione del suo compleanno.
Offesa mortale.
La competizione (gli americani ce la mettono ovunque) puo’ partire. La stampa scandalistica è mobilitata per questo incontro al vertice.
Seguendo Divine partiamo anche noi per un viaggio alla scoperta della “demenza”.
La demenza è come una coltellata: il fendente doveva colpire di taglio e invece colpisce di piatto. Doveva uccidere e invece si limita ad ammaccarci facendoci ritrarre inorriditi.
Ci si offre lo spettacolo di un progetto criminale fallito. Il fallimento deve essere ridicolo almeno quanto il progetto turpe. Una forma del ridicolo che non possiamo scrollarci di dosso con una risata, qualcosa che ci resta addosso come una zecca infastidendoci per il resto della giornata.
L’ aurea del “fallimento” avvolge le gesta degli eroi dementi; si accontentano di qualcosa che a noi sfugge, o che per lo meno ci sembra poco: con loro sulla scena tutto si fa sciatto, fuori fuoco… la trama sfilacciata, la bella musica sprecata per commentare immagini statiche (titoli di testa), la sceneggiatura scadente, la recitazione dilettantesca (si strabuzzano gli occhi manco fosse un film muto, vedi la scena del “culo parlante”). L’ imperizia e la trascuratezza (Massey si presenta senza parrucca) sono i dioscuri che vegliano sull’ opera mal concepita e realizzata frettolosamente.
E’ una violenza superficiale, mira al vomito, non alle turbe.
Ad intristire chi viene a contatto con il demenziale non è il livello delle bassezze raggiunte, bensì lo spettacolo di tanta energia dissipata.
Lo spreco del fuori-misura, del mal calibrato ci fa stringere il cuore.
Quel turbamento profondo che gli aggressori non sono riusciti a darci, ci raggiunge osservando questa entropia. L’ esagerazione diventa l’ unico metro, nell’ esagerazione il genio prima si diluisce e poi scompare. Tutto è occultato dall’ orrido corpaccione della protagonista.
Il film è zeppo di battute che non fanno avanzare la storia, uno strano miscuglio tra Beckett e pornografia. Sketch improvvisati lì per lì minano la compattezza e rendono la vicenda sempre più sincopata e contorta. Non sappiamo decidere se Divine assomiglia più a Sbirulino o a Manson.
E non cascateci se qualcuno al Manifesto vi vende tutto cio’ facendolo passare per un attacco al mondo borghese. Quasi che Divine fosse un “divin marchese” De Sade che con le sue orge iper programmate preannuncia l’ avvento di una nuova ragione.
Il “mondo borghese” in realtà gongola se in scena si esibisce l’ assoluta cecità delle alternative.
A scandalizzarsi, più che il borghese, è l’ animalista che vede sopprimere un pollo in scena nel corso di un animato rapporto sessuale in cui è coinvolto con due umani (Waters si giustificherà: lo abbiamo mangiato la sera stessa con la troupe). E’ il militante anti-omofobia che vede l’ adozione lesbica trattata, in termini di disgusto, al pari dello stupro.
***
Divine è una farfallina colorata (l’ ombretto fuori misura a far da ala): come le farfalle ama posarsi vanitosamente sul letame per far spiccare i suoi colori, come le farfalle conduce una vita che puo’ essere condotta solo per un giorno.
Solo chi desidera vivere un giorno è pregato di seguirla.
L’ allegra “trasvalutazione di tutti i valori” di cui si fa artefice non risparmia nulla puntando diretta al grado zero dell’ anarchia. E’ pantagruelica, coprolalica, non ha niente di metodico, niente di destinato a stare in piedi.
Eppure sentiamo che si difende e combatte contro il cattivo delle fiabe. In questo panorama appiattente, come fanno ad esserci ancora dei cattivi cattivissimi come i Marble?
Di primo acchito direi che la loro disgustosa azione è dettata dall’ invidia e dalla voglia di prevalere, non dalla gioia del repellente in sé per sé.
Ma anche Divine è invidiosa. E allora?
Solo una fede acritica ci leva dalle ambasce, e Divine punta senza mezzi termini su quello parlando chiaramente in conferenza stampa: “io sono Dio e il suo profeta contemporaneamente”. All’ orda è sufficiente, chi contrasta il dio si trasforma nel male, per definizione.
La sfida con i Marble – naturalmente - sarà vinta dall’ eroina: dopo un processo farsa sparerà a bruciapelo in testa alla coppia eseguendo la condanna fra crasse risate e sotto un’ eccitante pioggia di sangue. Seguirà conferenza stampa; poi festa con tutti i fricchettoni dei dintorni. Il chiasso farà intervenire una volante affinché si abbassino i toni, ma l’ equipaggio sarà colpito, ucciso e mangiato crudo. Al capo tribù Divine l’ onore di succhiare le pupille del sergente. Poi, dopo aver ammortizzato i capricci del figlio con una fellatio, Divine suggella la giornata con l’ impresa passata alla storia del cinema: trattenendo i conati ingurgiterà gli escrementi appena prodotti da un barboncino (tutto vero!).
Bene, adesso direi che ne sapete abbastanza per decidere se lanciare il video.
Mi sono occupato di una paziente di 23 anni che aveva sofferto per lunghi mesi di dolori alla schiena prima che un neurologo le prescrivesse una risonanza magnetica, aspettandosi un' ernia al disco. Ho trovato invece un cancro alle ovaie espanso fino alla spina dorsale... La paziente, sottoposta ad un impegnativo intervento chirurgico e ad una massiccia chemioterapia, è stata curata dalla provvidenza...
Dr. Mark Siegel
Per capire cosa sia la Sanità oggi bisogna innanzitutto ficcarsi in testa questo concetto: praticamente tutti gli esami medici esistenti potrebbero essere in qualche modo decisivi per curarvi, anche se quasi sicuramente saranno inutili. Lo stesso dicasi per la consultazione degli specialisti.
Aggiungo solo che sia gli esami che i servizi resi dallo specialista hanno costi elevati… di più!
Tutto cio' è un portato dell' abbondanza: ieri non esistevano queste possibilità e non esistevano quindi nemmeno tutti i problemi connessi all' abbondanza.
Una volta il mondo era più semplice: per le infezioni c' erano gli antibiotici, per le malattie più gravi le vaccinazioni. Il resto non era granché e si poteva anche crepare in pace.
Visto come stanno le cose, la cura si trasforma puntualmente in un inferno per il budget di chi si affida al principio di precauzione, e in campo sanitario il bias della precauzione è diffusissimo. Se poi, come dice Hanson, la spesa sanitaria è diventata essenzialmente "segnale del prendersi cura”, il baratro finanziario è dietro l’ angolo!
Fare o non fare un esame?
La razionalità imporrebbe calcoli astrusi e innaturali (alberi di probabilità, indicizzazioni, formule di bayes…). Meglio allora lasciarla perdere ed affidarsi al principio di precauzione. Così ragionano un po’ tutti in questo ambito.
Se nel 2011 dite ad un medico: "questo è il tuo paziente, sta male, esegui la diagnosi e la terapia che ritieni più opportune", lui sarà facilmente in grado di giustificare la spesa di un’ autentica fortuna, e lo farà senza indugio, specie se lo minacciate con possibili denunce qualora fallisca nell' intento.
L' abbondanza ci ha messo in crisi, siamo all' angolo.
Tutto sommato l' Europa riesce ancora a porre un freno a questa deriva poiché l' accesso alle cure e agli esami non è libero ma razionato tramite l' intermediazione del medico. Un noto primario ebbe a dire in un' eloquente intervista: "il governo ci dica qual è il budget e noi medici ci adegueremo". Parole sante che spiegano bene come funziona da noi. Il medico è un sacerdote intermediario riconosciuto dal Potere che somministra la “credenza” e controlla il popolo dei malati.
Anche i "segnalatori" più indefessi si tranquillizzano se il loro "medico di fiducia" non ordina certi esami.
Ma gli USA, essendo un paese libero, hanno un accesso libero alle cure: paga l' assicurazione.
E si capisce allora come la spesa sanitaria sia esplosa: quando tizio si ammala si presenta dal medico e chiede di essere curato, poiché il conto verrà saldato dall' assicurazione, il medico si sbizzarrisce, le uniche statistiche che avrà in testa sono quelle relative alle denunce di malpractice.
Cresce la spesa, cresce il costo dell' assicurazione, crescono i non assicurati.
D' altra parte, che gli americani godano di maggiori cure mediche non è poi così evidente. Al margine il miglioramento in termini di salute (e minor sofferenza) è minimo. Gran parte della spesa serve a “segnalare il prendersi cura”. Il colpo di grazia, poi, lo dà uno stile di vita insalubre. L’ osservatore dei dati resta confuso e pensa ad una cattiva organizzazione del sistema, non parliamo poi dell’ osservatore “ideologizzato”.
Eppure, la maggiore quantità e qualità dell' offerta sanitaria d' oltreoceano sembra un dato ormai acclarato.
Per carità, una domanda così forte di "salute" ha anche aspetti positivi: gran parte dell' innovazione nel settore si finanzia ormai quasi esclusivamente su quel libero mercato, l' unico nel mondo che tiri veramente. Noi europei in questo siamo free rider che campano da decenni importando i frutti del dinamismo yankee in campo sanitario.
Al mercato non si puo' rinunciare, pena l' immobilismo.
Come rimediare?
Fare in modo che il malato paghi anche di tasca sua: alzare la franchigia assicurativa lasciando che le compagnie si occupino solo di eventi catastrofici (sopra i 30.000 euro?). Insomma, trasformare la "copertura dei costi sanitari" - ora incentivata in vari modi - in una vera "assicurazione sanitaria".
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Ottima lettura il libro scritto sul tema da Arnold Kling: crisi d' abbondanza. Fa il punto con chiarezza su cos’ è e come funziona la sanità oggi nel mondo. Per chi invece vuole trepidare ed indignarsi anziché capire, non resta che stare al palo dell’ aneddotica scandalista in stile Gabanelli/Lucarelli. Con tutti i fari puntati sulla scena del delitto.
Molti antepongono il valore della democrazia a quello del capitalismo pensando che la vera origine della nostra ricchezza sia lì: sbagliato, la relazione andrebbe capovolta.
E per capirlo basterebbe porre mente alle molte politiche sbagliate implementate dalle democrazie. Per politiche sbagliate intendo le politiche che impoveriscono la comunità colpendo proprietà privata e rule of law: protezionismo, industria di stato, politicizzazione dei sindacati, iper-regolamentazione…
L’ accumulazione di ricchezza privata e un solido ceto medio è il miglior baluardo contro forme oppressive di governo. Conosciamo troppi paesi che nessuno considererebbe liberi dove si vota regolarmente.
I normali problemi che presenta a tutti la vita dell’ uomo medio sembra fossero insormontabili per Henry Treadwell, cosicché decise di cercarne di più difficili conducendo una vita estrema, da super eroe.
E’ un tipico modo per mascherare la propria inettitudine: si alza l’ asticella per fallire gloriosamente quando si presente un fallimento con ignominia.
Le sue vacanze erano al contempo noiose ed eccitanti: noiose perché sempre nello stesso posto, eccitanti perché questo posto erano le penisole dell’ Alaska, paradiso del feroce orso Grizzly.
Il regolamento parla chiaro: distanza di minimo 100 metri dalle terrificanti creature. Henry Treadwell, telecamerina in spalla, invece sgrullava loro il capoccione. Ci si sedeva sopra quasi fossero poltrone. Faceva così il fuorilegge e ne andava fiero.
Le fidanzate lo mollavano puntualmente, se per eccesso di eccitazione o per eccesso di noia non lo so.
Treadwell si sentiva chiamato a salvare questi bestioni dalle minacce incombenti. Il suo era un trasporto mistico, si sentiva “chiamato” a farlo, una voce aveva detto: “tocca a te!”, si sentiva in missione per conto di Dio e pronto a sacrificare tutto.
Senonché non incombeva proprio nessuna minaccia: gli orsi proliferavano iper protetti in una riserva naturalistica.
Cio’ non diminuiva la sua dedizione, anzi, questi intoppi di logica elementare rinfocolavano la fantasia favorendo i voli pindarici. Ora si vedeva come un samurai intento a resistere, e dovendo inventarsi un nemico esagerò: l’ Uomo. Sì, l’ uomo, l’ emancipazione dall’ umanità intera divenne la sua meta. La “civiltà” andava combattuta a partire da quei figli di puttana dei guardia-parco.
Fece una fine tragica: il pilota dell’ aereo che doveva recuperarlo al termine della tredicesima estate non sentì i consueti schiamazzi dell’ istrione. Trovò invece un Grizzly che rovistava in una gabbia toracica umana. La testa, con un sorrisino sulle labbra, era in cima alla collina, il braccio con l’ orologio funzionante sul sentiero, i vestiti e il resto delle membra nello stomaco dell’ esemplare che venne successivamente abbattuto e squartato.
Il martirio da sempre cercato si era compiuto: mangiato dagli orsi. Finalmente con loro, per sempre. Già in passato lo si era sentito affermare che “solo con la morte avrebbe potuto cambiare le cose”.
Come ogni mistico, Henry non si limitava ad “amare” gli orsi, voleva entrare in comunione con loro, voleva essere uno di loro. Era una sua fissa e lo ripeteva sempre.
Come ogni mistico, Treadwell aveva un’ inclinazione caotica, le fidanzate al suo fianco servivano ad “ordinare” le sue euforie.
Amy fu l’ ultima, morì con lui, la possiamo sentire nell’ audio della tragedia (la telecamera ha il tappo): Henry, già mezzo mangiato, le dice di andarsene e mettersi in salvo, lei invece si attarda fatalmente con inutili padellate sulla testa del mostro.
I suoi amici – invasati quanto lui – dicono che l’ orso che gli fece la pelle era un infame che a lui neanche piaceva.
Ma le parole più convincenti le ho sentite pronunciare dagli abitanti del villaggio alaskano più prossimo ai recessi frequentati da Treatwell. Parlo del “baffo” e del reggente il museo, entrambi esprimono lo stesso concetto con sfumature un po’ diverse.
Il primo, con la schiettezza del cowboy artico, ci dice che il biondino trattava gli orsi come fossero gente con un costume da orso. Ha resistito tanto a lungo perché gli orsi lo credevano un ritardato mentale e per un po’ hanno gradito il chiassoso spettacolino. Poi qualcuno si era stufato e l’ aveva sventrato con l’ artiglio del mignolo.
Il secondo è un eschimese scienziato ed esprime l’ opinione della comunità indigena: l’ invadenza di Treadwell non era “rispetto” verso l’ animale, tutt’ altro; lui era animato da buone intenzioni ma ha recato solo danno alla fauna selvaggia che tanto amava; da 7.000 anni noi osserviamo un confine invisibile che ci separa dagli orsi. Treadwell non l’ ha fatto e queste cose hanno un prezzo.
Non c’ è solo clownerie in questa storia. Anche molta poesia, le immagini con la volpe Spirit, per esempio. Ma c’ è soprattutto la vicenda personale di HT: gli orsi lo salvarono dall’ alcolismo motivandolo e HT, sentendo che doveva loro la vita, voleva dirlo al mondo riconsegnandola platealmente ai legittimi proprietari. Ci mise 13 anni ma alla fine ci riuscì.
Ora, io mi domando e chiedo: poteva mai una simile tempra di santo, mistico, buffone non attrarre l’ interesse di Werner Herzog?
No, infatti questo è il tributo che gli reca riutilizzando le 100 ore di filmati che HT aveva girato in una delle più profonde solitudini mai viste.
Un Governo laico non deve schierarsi “contro” l religioni, deve essere “neutrale” evitando di concedere privilegi.
Ma deve essere anche ben conscio che non esiste il mito della neutralità se non in forma di ulteriore religione.
Non ha senso, per esempio, richiedere una divisa al cittadino conforme alla neutralità: significherebbe propagandare una religione (laicismo) offrendo ad essa dei privilegi ingiusti.
L’ unica forma di neutralismo accettabile è il non-intervento.
Non trovate tutto cio’ molto semplice?
Di sicuro più semplice rispetto all’ ambigua formula “libera Chiesa in libero Stato”.
Il riciclaggio della spazzatura passa per essere la panacea di tutti i mali. Le cose non stanno esattamente così, basta ricordare alcuni punti.
1. La tecnologia per rendere sicura una discarica è disponibile da anni.
2. Il posto per le discariche è disponibile con abbondanza e il sistema delle aste rende eque le procedure di allocazione.
3. Il riciclaggio per l’ uso che fa di sostanze chimiche non è certo a impatto zero. Non parliamo della flotta di camion che invadono le città nottetempo.
4. Il riciclaggio ha altissimi costi occulti: quelli dei privati cittadini (medici, ingegneri, professori) assunti loro malgrado come spazzini.
5. Per controllare il consumo delle risorse esistono i prezzi che funzionano molto meglio che non il “paternalismo riciclone”.