mercoledì 22 novembre 2017

Potere ai dadi

Potere ai dadi

Il nostro sistema soffre di un eccesso di produzione legislativa, l’Italia è sommersa da circa 200 mila leggi contro le poche migliaia di molti altri paesi.
Saranno giusti questi conti? Forse no, forse sono eccessivamente prudenti o esagerati, sta di fatto che l’allarme a me pare giustificato.
Troppe leggi creano guai: fanno perdere autorità alla leggeproducendo incertezza nel diritto.
Le nuove norme molto spesso non sono  che la reiterazionedi norme esistenti di fatto inapplicate. Si ha come l’impressione che vengano approvate solo come bandiera di una campagna propagandistica, oppure per sfilare alla magistratura la funzione interpretativa.
La produzione legislativa è tale che ha di fatto snaturato il parlamento: i tempi per l’esame, il dibattito e l’analisi dei provvedimenti si sono ridotti drasticamente quando non sono stati annullati. La differenza con la catena di montaggio del calzaturificio si fa impercettibile.
Il vecchio Bismarck diceva: “se ti piacciono le salsicce e le leggi, non chiederti come vengono fatte”.
Esempio canonico: viene approvato un provvedimento che contempla una riduzione delle indennità parlamentari, dopodiché si provvede prontamente alla modifica. L’aspetto grave non è costituito dalla celere modifica ma dal fatto che si approvino leggi senza conoscerne il contenuto.
Questo modo di procedere è la migliore giustificazioni per pianisti e assenteisti.
Ma è anche la premessa ideale della corruzione: ci mostra quanto sia facile  far passare una legge gradita alla propria lobby nel disinteresse generale. Quando chi vota non sa  cosa vota le minoranze organizzate la fanno da padrone.
Del resto, che i voti si comprino è un dato di fatto che rileviamo dai cospicui finanziamenti della campagna elettorale. I generosi finanziatori non fanno altro che un comunissimo investimento: acquistano in anticipo quei favori legislativi che evidentemente valgono di più di quanto spendono.
Una volta in parlamento ogni eletto si concentra sulla sua leggina senza curarsi troppo di quella altrui: del resto i finanziatori di Tizio lo hanno foraggiato per avere il loro piccolo privilegio (deduzione, detrazione, esenzione, licenza, esclusiva…) non per stoppare le leggine proposte da Caio.
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Come porre rimedio? Si potrebbe agire sul processo di selezione dei nostri rappresentanti politici.
Oggi per essere eletti bisogna essere popolari e per rendersi popolari bisogna spendere ed essere finanziati.
Su questa esigenza fanno leva le lobby quando mirano ad avere una “leggina” tutta per sé.
Notare il domino: elezioni, campagna elettorale, spesa pubblica e fiscalità sono strettamente collegate.
Una misura che eliminerebbe il potere dei partiti, il costo delle campagne elettorali, l’utilizzo della spesa pubblica e della fiscalità come strumenti di acquisizione del consenso, e che ridurrebbe drasticamente la corruzione è costituita dall’abolizione delle elezioni, affidando la scelta dei rappresentanti politici al sorteggio, come accade per le giurie popolari.
Anche il ruolo del partito sarebbe ridotto a quello di “circolo di discussione”.
Ci sarebbero molte più donne e molta più varietà. Oltretutto, nessuno avrebbe l’arroganza di dire che “rappresenta il paese“. Si tratta di parole decisamente disturbanti.
I sorteggiati probabilmente sarebbero privi di esperienza politica. Ma abbiamo fatto esperienza di politici di esperienza e non è stata una grande bella esperienza :-).
E poi, che razza di democrazia è quella in cui l’attività politica è possibile solo ad una élite di mandarini?
Gli “incompetenti” in parlamento potrebbero essere un modo per arrivare alla sospirata semplificazione. Con la loro grettezza procederebbero ad una sorta di disboscamento.
Ma l’aspetto fondamentale è che grazie al sorteggio nessuno avrebbe più incentivi a rendersi popolare e ad acquisire consenso. Si cercherebbe di far bene nell’interesse di tutti per essere ricordati con gratitudine.
L’obiezione principale è che così facendo ci priveremo di quello che è considerato il fondamento stesso dellalegittimità democratica: il diritto di scegliere i nostri rappresentanti con il voto.
Si può rispondere che il meccanismo antidemocratico proposto passa comunque il test costi-benefici. Inoltre, non consegna il potere ad un temibile dittatore ma al caso, ovvero ad un’entità tutto sommato più affidabile dei politici.
Una proposta del genere ha del paradossale e molti pensano che non meriti nemmeno di essere discussa. Ha comunque la virtù di mettere in luce le radici dell’abuso della politica che è la causa dei nostri problemi.
Ci sono poi forme più moderate – e verosimili – di questo approccio: si potrebbe sorteggiare un numero limitato di parlamentari, lasciando il resto a libere elezioni. In questo modo l’obiezione di “democraticità” verrebbe affievolita. Si potrebbe poi circoscrivere il sorteggio a categorie di cittadini che offrono certe garanzie, per esempio cittadini in possesso di titoli specifici. In questo modo si rintuzza l’obiezione dell’incompetenza e, anzi, si attuano forme di epistemocrazia. Coniugato con un basso numero di parlamentari e un cospicuo vitalizio (non si nega un vitalizio a chi in fondo non se l’è cercato) si potrebbero fronteggiare i rischi di corruzione a posteriori.
È chiaro poi che il ruolo dello “specialista” si trasferirebbe sul burocrate. Ma forse che oggi non è già così? La cosa sarebbe solo più esplicita e avrebbe l’ulteriore  virtù di rendere  visibili i reali poteri forti in un regime democratico.
Detto questo ammetto di non nutrire particolare fiducia in questa soluzione: il voto è una forma di espressione di cui la gente ha bisogno per tranquillizzarsi. Potrebbe anche prendere coscienza che non serve a nulla, potrebbe anche realizzare che i costi sono inferiori ai benefici, potrebbe anche essere razionale per un momento, ma poi vorrebbe indietro il suo giocattolo, il suo “ciuccio”, l’unica cosa che la calma e la rende pacifica: il voto.
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Senza fisco non c’è civiltà

Senza fisco non c’è civiltà

Si può scrivere la storia del fisco in una paginetta?
No, però si può fallire onorevolmente, quindi ci provo.
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Però, in quel quarto d’ora, l’hanno fatta da protagoniste. Senza tasse non c’è stato e senza stato non c’è cio’ che noi chiamiamo civiltà.
In quel quarto d’ora viene sostanzialmente sistematizzata la pratica (già conosciuta in passato) della schiavitù, di cui l’imposizione fiscale e parte integrante.
In cambio di lavoro lo schiavo riceve vitto e alloggio. In cambio di denaro il tassato riceve “beni pubblici”.
Dietro le prestazioni di schiavo e tassato c’è una cosiddetta “proposta di Corleone”: o lo fai, o lo fai. Non si puo’ trattare.
Più tardi si cercherà di differenziare le due pratiche introducendo una rotazione tra i governanti cosicché il tassato puo’ nutrire la remota speranza di diventare un giorno tassatore.
Non si puo’ dire che le cose siano migliorate: del resto il proprietario cura la casa meglio dell’affittuario. In altri termini: i re perlomeno avevano cura della loro gallina dalle uova d’oro, il governante occasionale è un barbaro che passa di lì e tende a razziare.
Sta di fatto che senza schiavitù e fiscalità non sarebbe mai nata la civiltà. Ma oggi la schiavitù è stata abolita. Sarà mai possibile abolire anche le tasse?
Dopo averla creata, la relazione tra tasse e civiltà merita si è evoluta e merita un approfondimento.
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Qualcuno ha mai visto nella storia una civiltà indebolirsi perché le tasse diminuivano? No.
Al contrario, molte sono collassate per la tassazione esosa.
Le tasse sono il motore della storia umana più recente, più del clima, più della guerra, più delle invasioni. Sono sempre presenti nel bene e nel male.
Il modo in cui tassiamo determina se siamo liberi o schiavi, ricchi o poveri, buoni o cattivi.
Le rivolte fiscali sono le più frequenti e le più letali: come preludio hanno sempre un’ alta evasione.
A volte la sottomissione del popolo alle tasse sembra inspiegabile, ma ad un certo punto la pentola esplode, e spesso l’accelerazione che porta dalla relativa tranquillità ai disordini è impressionante.
La stessa etimologia fiscale è imbarazzante e segnala l’origine dello stato come cosca vincente.
Dietro un termine come “esazione”, per esempio, sta il termine “estorsione”: torcere, estrarre fuori con la forza.
Detto questo, non esiste una civiltà senza tasse. Tuttavia, nel dire questo, consideriamo come una forma di civiltà anche la mafia. Il crimine organizzato è pur sempre organizzato.
Già nell’antico Egitto gli scribi erano onnipresenti costituendo una burocrazia più invasiva di quella sovietica.
I condoni erano atti filantropici concessi graziosamente dal sovrano: la stele di Rosetta ne celebra uno.
L’evasione era combattuta con il metodo più efficiente: quello delle taglie e dello spionaggio (whistleblowing).
La schiavitù di Israele nei confronti degli Egizi fu soprattutto fiscale, non dimentichiamolo.
Il conflitto tra chiesa e potere laico è stato esacerbato dalle esenzioni fiscali. Gli esattori hanno da sempre dovuto girare al largo dai templi per non fomentare la rivolta dei fedeli.
Burocrazia ipertrofica e tasse esose sono all’origine della decadenza egizia.
La parabola delle tasse sembra ripetersi in molte civiltà: si parte con tasse moderate e ben investite; si continua con processi ambiziosi finanziati da tasse crescenti, dove convivono buone intenzioni e incapacità di controllo; e si finisce con tasse insostenibili e alta evasione/corruzione. L’impero spagnolo e quello olandese meriterebbero analisi accurate perché specificano in modo opportuno  la parabola appena descritta.
Una buona medicina per stoppare la parabola è stata la concorrenza istituzionale: l’anarco-federalismo di Israele ha mantenuto le tasse a livelli accettabili facendo prosperare un popolo (colpito da altri guai). Per 400 anni gli israeliti non ebbero né un Re, né un sistema accentrato. Questo li mise al riparo da un sistema fiscale troppo vorace.
Del resto Israele è sempre stato un popolo in lotta contro tributi oltraggiosi: da Nabucodonosor a Hitler.
Babilonia riservò loro un vero e proprio terrorismo fiscale. Hannuka nasce come “festa della liberazione fiscale”.
[… è una grazia per una nazione nascere da una rivolta fiscale: gli USA sono l’unica superpotenza contemporanea anche grazie alla loro origine…]
Poi ci furono i romani, il “dare a Cesare” era la loro domanda trabocchetto: rispondere con un no significava morte.
La storia ebraica si ripete molte volte nell’ultimo quarto d’ora della storia umana: un popolo intraprendente disperso per il mondo fa emergere ovunque va una classe facoltosa senza agganci politici che viene tartassata, a volte fino all’esproprio. Seguono schiavitù e sterminio.
Gli ebrei sono probabilmente i maggiori ribelli fiscali della storia, la leggenda di Davide e Golia instillava in loro la mentalità del “resistente” al fisco. Tuttavia, la loro era anche una storia di sconfitte, cosicché, alla fine, abbracciarono il consiglio dei profeti: abbassare la testa e pagare il tributo.
Il tramonto di Roma secondo Edward Gibbon: si introdusse la schiavizzazione dell’evasore e cominciò la decadenza.
Il paradiso fiscale dei romani, del resto, era il mondo barbaro: in molti passarono con loro per questo motivo.
In Cina Confucio moderava l’esattore: mai spingersi oltre il 10%. La decima biblica era in linea con questa pratica.
La civiltà delle tasse subisce un duro colpo con l’introduzione dell’imposta sul reddito: inizia lo spionaggio fiscale, la cultura di molti popoli viene violentata da una guerra tutti contro tutti. Nasce un esercito di funzionari dotati di ampi poteri intrusivi.
Del resto l’imposta sul reddito puo’ rivendicare anche successi notevoli che la sdoganarono: innanzitutto sconfisse Napoleone.
Le ambizioni guerrafondaie del corso erano limitate dalle scarse risorse, nel frattempo l’Inghilterra introduceva l’imposta sul reddito che consentiva di incamerare una notevole ricchezza da tradurre prontamente in armamenti.
L’imposta sul reddito è essenzialmente un’imposta di guerra: si afferma con le guerre per non lasciarci mai più. 
Ma limitò anche la minaccia marxista: grazie all’impiego dei proventi in senso redistributivo rese meno appetibile la rivoluzione operaista.
L’imposta sul reddito ha una chiara natura pragmatica: la sua base imponibile è arbitraria (prova a definire cosa sia “reddito”!) e consente un di spremere il arrestandosi sulla soglia della rivolta.
E’ anche una tassa occulta: innanzitutto – grazie al meccanismo della ritenuta – la si paga con scarsa consapevolezza, ma è soprattutto il meccanismo dell’incidenza che non fa capire bene  chi paga nella sostanza. Il vessato spesso è un bastonato spesso felice perché ignaro.
Il pragmatismo truffaldino dell’imposta sul reddito la rendeva invisa agli idealisti. Anche a idealisti perversi quali i giacobini! Furono loro, infatti, a preservare la Francia fino alle guerre mondiali. Ma di fronte alla guerra la diga dell’idealismo crollò e l’imposta sul reddito fece la sua irruzione tra lo sdegno un po’ di tutti.
La Francia che rifiutava l’imposta sul reddito era la stessa che donava agli Stati Uniti la statua della libertà. Non un caso.
Il passo dall’imposta sul reddito al imposta progressiva sul reddito fu breve. La progressività consentiva di isolare una minoranza e “schiavizzarla”, ovvero, vessarla senza il suo consenso. Già Adam Smith l’aveva bollata come imposta estorsiva.
Noi siamo al riparo dagli abusi solo quando le leggi promulgate dal legislatore si applicano anche a lui. Per questo una democrazia ordinata richiede leggi astratte (ovvero applicabili a tutti). “La legge è uguale per tutti” diciamo con orgoglio. Ebbene, l’imposta progressiva rompe con questa regola aurea aprendo a leggi speciali destinate unicamente a minoranze.
L’introduzione dell’imposta progressiva inaugura un dibattito epocale in cui gli argomenti dei difensori echeggiavano in modo imbarazzante quelli dei segregazionisti.
Il parallelo è facile da cogliere: mentre i segregazionisti volevano isolare gli appartenenti ad una razza per riservare loro un trattamento particolare, i sostenitori dell’ imposta progressiva intendevano isolare una classe sociale per riservare ad essa un trattamento particolare. Dal punto di vista del diritto a entrambi occorreva superare il principio per cui la legge è uguale per tutti.
Ma di là delle questioni ideologiche, spesso solo un pretesto, il concetto di imposta progressiva passò per l’umore tipico dell’epoca (siamo all’inizio del ventesimo secolo). La denuncia dei monopolisti (robber baron) trovava terreno fertile nei populismi e si  mischiava  al romantico sogno del “sol dell’avvenire”.
Con l’imposta progressiva sì arrivò ad aliquote vicine al 90%. Ditemi voi ora se si potrebbe mai passare dal 2 al 90% con una tassa sulla proprietà! Per questo parlavo prima di pragmatismo.
Solo l’imposta sul reddito poteva venire opportunamente occultata e concentrata sulle classi invise alla popolazione affinché potesse raggiungere certi livelli abnormi.
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Oggi praticamente tutti gli obiettori fiscali sono stati condannati dal giudice, le basi costituzionali che hanno scelto per difendersi erano fragili. Ma lo stesso poteva dirsi anche di chi si ribellava all’ancien regime. La storia si ripete, e questo ci dà una flebile speranza.
I sistemi fiscali premoderni – anche per mancanza di tecnologia adeguata – erano basati sull’ onore, viene da chiedersi se oggi un simile fondamento  sarebbe possibile. La domanda retorica  mette in evidenza una verità imbarazzante: oggi l’evasione è proporzionale alla possibilità di evadere. Il che sottolinea la sostanziale estraneità tra sistema fiscale e società, un fenomeno che la storia ci hanno insegnato a temere. L’alta evasione ha sempre preannunciato un declino, come nel caso degli imperi di Spagna e Olanda.
Un tempo l’evasione contraddistingueva il cittadino poveroma oggi contraddistingue solo il cittadino che può evadere. L’inclinazione ad evadere infatti è sostanzialmente la medesima per ricchi e poveri.
L’alta evasione potrebbe avere anche effetti positivi, per esempio potrebbe avere un effetto benefico sull’iperbolica spesa pubblica: con poche risorse in mano spenderò meno.
Inoltre, potrebbe avere un effetto calmierante sui politici tassatori: annunciare nuove tasse ha un costo politico, se poi non riesco, causa evasione, a raccogliere e spendere le risorse che mi prefiggo, allora il gioco non vale la candela. E’ lo stesso meccanismo per cui i paradisi fiscali tengono bassa la tassazione ovunque. In questo senso l’evasore – con la sua azione rischiosa – tutela anche il tartassato.
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Il fisco contemporaneo ci appare sempre di più una sacca di tirannia all’interno di un sistema sostanzialmente libero.
Vale la pena di ricordare che secondo il giudice Blackstone, ma anche secondo Montesquieu, l’evasione non può essere considerata alla stregua di un reato penale poiché non è un “crimine naturale” ma solo la mancata osservanza di una convenzione umana. Parliamo di un’epoca in cui bestemmiare era punito con la morte, non di un’epoca lassista. Oggi – in epoca di imposta progressiva – si può andare oltre e sottolineare che la convenzione umana violata  non è stata sottoscritta dai “violatori”, nemmeno con la formula anodina del voto a maggioranza.
Il fisco oggi è sostanzialmente un’ arma di controllo politico, specie in Italia. Per esercitare al meglio il proprio potere la legislazione deve rendere ricattabile ogni cittadino in modo da tenerlo sempre sotto schiaffo. Ebbene, il fisco con le sue complicazioni e i suoi arbitri si presta meravigliosamente a questo obiettivo.
Non è un caso se oggi la burocrazia fiscale è il vero potere forte nei nostri sistemi.
La cosa più odiosa dell’imposta sul reddito è che legalizza tutta una serie di evasioni chiamandole deduzioni/detrazioni. In questo senso, si istituiscono una sequela infinita di privilegi che, oltre a fissare trattamenti diversi, aprono la strada alle lobby e alla concessione di favori. Ogni anno in periodo di “finanziaria” si apre il cosiddetto “assalto alla diligenza”. Ma oltre a questo, complicano maledettamente il calcolo e il pagamento dell’imposta, al punto che dobbiamo avvalerci di un esercito di professionisti per portare a termine l’obbligo fiscale.  Siamo arrivati al punto che il cittadino oggi auspica una “semplificazione” prima ancora che una “riduzione”.
Alcuni paesi hanno particolarmente sofferto l’alta fiscalità, penso al Giappone. Le riforme fiscali degli anni 80 introdussero imposte esose in presenza di un popolo con una moralità fiscale da Samurai. La difficoltà ad evadere, dovuta soprattutto all’etica integerrima, contribuì al declino di un paese fino ad allora raffigurato come una rampante tigre asiatica. Fortunatamente, l’Italia non ha avuto di questi problemi, anzi, il nostro povero Meridione ha in modo perspicace ha trovato un certo sollievo proprio grazie alla capacità di ridursi le imposte da sé senza aspettare la politica.
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Come limitare il fisco rapace? È ormai evidente che la clausola del “bene comune” non funziona: è troppo vaga! Tutto può essere considerato bene comune, basta usare la giusta retorica.
Nemmeno funziona la clausola del bilancio in pareggio. Si fanno lievitare le spese cosicché la scusa per tassare è bella e  pronta. Non resta che introdurre in costituzione dei limiti espliciti di spesa o di tassazione.
Bisognerebbe poi separare il potere di tassare da quello di spendere, in questo senso però è difficile poi impedire una collusione tra i due poteri.
Bisognerebbe poi tornare al glorioso slogan “no taxation without representation” che si sostanzierebbe in un’ abolizione della progressività, ovvero di tasse in grado di colpire minoranze che non le hanno votate.
Un’altra riforma auspicabile è quella che favorisce le imposte di scopo. In questo modo è più facile assimilare le imposte ad un prezzo di mercato e quindi mirarle su chi utilizza quei servizi specifici.
Tutte le forme di depenalizzazione del diritto tributariosono le benvenute per i motivi nobilmente esposti da Blackstone e Montesquieu.
Introdurre poi il reato di estorsione fiscale con risarcimento danni, nonché un’azione civile per persecuzione fiscale: consentirebbe un più equo confronto con lo strapotere dell’ Agenzia delle Entrate in sede di contenzioso.
Doveroso è anche limitare l’invasività del fisco puntando sullatassazione delle cose anziché delle persone. Imposte di questo genere sono anche più difficili da occultare ricorrendo al sistema delle ritenute.
Orientare l’imposizione sul consumo anziché su reddito consentirebbe di agevolare i soggetti più meritori, ovvero i produttori.
Riassumendo: un buon sistema fiscale contraddistinto da 1) aliquote basse, 2) uguaglianza di trattamento tra i contribuenti, 3) semplicità del sistema e 4) salvaguardia della privacy. 
Possiamo ben dire che oggi, specie in Europa continentale, tutti e quattro questi fattori sono disattesi e siamo quindi molto lontani dal l’ideale.
A questo punto ci tocca sperare solo che la storia non si ripeta?
Forse no. Rispetto al passato, c’è una differenza non da poco: oggi siamo immensamente più ricchi, e la ricchezza potrebbe avere un utilità decrescente.
Penso che la nostra straripante ricchezza abbia scongiurato parecchie rivolte fiscali e preannunci tasse e spesa pubblica ancora più elevatesia in senso assoluto che percentuale.
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martedì 21 novembre 2017

Il Papa e il consenso scientifico sul riscaldamento globale antropogenico SAGGIO


Il Papa e il consenso scientifico sul riscaldamento globale antropogenico


Papa Francesco recentemente ha affermato che tra gli scienziati esisterebbe un consenso circa l’esistenza dell’ AGV (anthropogenic global warming).
Come al solito Papa Francesco parla con la disinvoltura del neofita capitato lì per caso, tuttavia vale la pena di riscontrare le sue pur vaghe affermazioni.
Fortunatamente esistono dei tentativi sistematici di sondare l’opinione degli scienziati sul tema del riscaldamento globale. Lo studio principale a disposizione, per esempio, passa in rassegna 11944 abstract (sono i sunti che precedono uno studio scientifico pubblicato su riviste soggette a peer review) classificandoli in sette differenti posizioni rispetto all’affermazione per cui l’ AGV () esiste.
1. Esplicitamente concorda e ritiene che l’uomo sia la causa principale del riscaldamento globale: 64
2. Esplicitamente concorda ma non quantifica il contributo dell’uomo al riscaldamento globale: 944
3. Implicitamente concorda e non minimizza il contributo dell’uomo al riscaldamento globale: 2910
4. Non prende posizione: 7970
5. Implicitamente rigetta o comunque minimizza il contributo dell’uomo al riscaldamento globale: 54
6. Esplicitamente minimizza anche se non quantifica il contributo dell’uomo al riscaldamento globale: 15
7. Esplicitamente minimizza e ritiene trascurabile il contributo dell’uomo al riscaldamento globale: 9.
In un certo senso, sebbene all’interno di una tendenza chiara, la ricerca conferma una certa divisione (la comunità scientifica è come tutte le altre comunità e produce un cospicuo effetto trascinamento).
Sì noti poi che a ritenere in modo esplicito che l’uomo sia la causa PRINCIPALE del riscaldamento globale è solo il 1,6% degli studi.
Ci sono addirittura scienziati i quali hanno affermato a chiare lettere che una certa forzatura nelle espressioni usate per giudicare il fenomeno è eticamente ammissibile se ha di mira la sensibilizzazione del pubblico!
E comunque il problema di Papa Francesco (e di molti ambientalisti) con il riscaldamento globale non riguarda tanto la sua esistenza quanto la reazione ad esso. Le leve più efficaci a nostra disposizione fanno fulcro sul mercato e sulla tecnologia, in questo senso non cambiano affatto i nostri stili di vita (che a volte sembra la vera preoccupazione di certo “ecologismo”), anzi, rischiano di aumentare le diseguaglianze sociali.
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