Partiamo con tre domandine da nulla:
A. Cos’ è l’ arte?
B. Cosa distingue un oggetto artistico da un oggetto non artistico?
C. Cosa distingue l’ opera di valore?
Nel 1746 Charles Batteux rispondeva diligentemente:
… l’ arte è una presenza piacevole che imita la natura…
Di acqua ne è passata sotto i ponti e simili affermazioni suonano superate, cosicché le questioni tornano impellenti.
A questo genere di interrogativi, il profano reagisce sempre allo stesso modo: lo so, ma se ci penso non lo so più.
Brutto segnale: le difficoltà più aspre si presentano sempre in questa forma! Al punto che non manca mai chi rinuncia a dipanare la matassa, e magari accompagna il suo disimpegno citando il protettore (suo malgrado) dei “pigroni intellettuali”, San Wittgenstein: cio’ di cui non si puo’ parlare, si deve tacere.
Per costoro le “domande di senso” dovrebbero essere accantonate. In effetti c’ è da chiedersi se siano importanti e se in merito non ci sia un modo soddisfacente per barcamenarsi tra “bolle parolaie” e “pigrizia intellettuale”.
Di sicuro tacere e girarsi dall’ altra parte non produce l’ inconveniente temuto da molti: il mondo non soffrirà certo di penuria d’ opere d’ arte per il semplice fatto che non sappiamo cosa sia l’ arte; così come lo scienziato si puo’ disinteressare al senso ultimo del suo lavoro (e spesso è auspicabile che lo faccia), lo stesso dicasi per l’ artista; Barnett Newman lo aveva capito:
… L’ estetica sta agli artisti come l’ornitologia sta agli uccelli…
Ma perché questo pessimismo quando c’ è un motivo potente per non gettare la spugna? Oltretutto un motivo semplice: il lavoro è già stato fatto, esiste sul punto un solido consenso tra gli esperti.
Vediamolo:
A. L’ arte non “esprime”, non “imita” ma “rappresenta”.
B. L’ oggetto d’ arte non ha peculiarità “formali” o “percettive” ma solo “contestuali”: è il contesto che conferisce statuto d’ arte a un prodotto.
C. Il valore di un’ opera si calcola soppesando le influenze effettive e potenziali sprigionate dall’ opera in relazione alle intenzioni dell’ artista e degli esperti che agiscono in quel contesto.
E vediamo anche il “precipitato” di queste risposte:
1. risolto brillantemente il problema: “ma questo lo sa fare anche mia figlia”;
2. risolto il problema dello “sgradevole” nell’ arte;
3. risolto il problema della comparazione tra generi;
4. risolto il problema di definire l’ arte evitando di mettere da parte interi secoli di storia dell’ arte;
5. cio’ che costituisce “opera d’ arte” puo’ essere formalmente e percettivamente indiscernibile da cio’ che non è tale;
6. giudicare opere nate con prospettive ideologiche e sfondi culturali differenti applicando il medesimo criterio di giudizio conduce a gravi travisamenti;
7. approntato solido baluardo per sbarrare la strada a formalismo, strutturalismo, decostruzionismo e ogni altra “deriva relativista” dell’ analisi estetica;
8. se il contesto è decisivo, concentrarsi su pochi artisti ottunde il giudizio poiché il giudizio è essenzialmente un confronto ampio tra opere e artisti in rete tra loro (predecessori, coevi, epigoni);
9. nella costruzione di una sapienza critica il “tempo dedicato” all’ opera vince sulla mera “analisi formale”: poiché l’ analisi formale dell’ opera non è in grado di produrre un giudizio estetico attendibile, diventa centrale l’ alternativa a questo approccio: frequentare intensamente e a lungo l’ opera immergersi in essa per entrare in contatto con le molte variabili ambientali che la influenzano e che lei influenza.
10. l’ arte di valore assume e ricrea un ethos nella popolazione e nelle élites ad essa contestuali.
11. un ruolo decisivo è giocato dall’ esperto, ovvero da colui che 1. dedica tempo e attenzione nel tentativo di collocare l’ oggetto artistico nel suo contesto e 2. costituisce a sua volta il contesto privilegiato in cui si colloca l’ opera;
12. un giudizio improntato al gusto (bello! brutto!) non è mai un giudizio estetico fondato;
13. perfino l’ ossessione biografica di diana è riabilitata; sul punto sono dunque chiamato a rivedere le mie posizioni, lo faccio con piacere;
…
Si potrebbe proseguire con l’ elenco, oppure si potrebbe passare alla pratica con qualche “provocazione” specifica: che peso dare al fatto che Bach sia stato dimenticato per secoli, o al fatto che Brahms abbia tanto insistito su una forma rivelatasi storicamente perdente come la sonata, o al fatto che… Ma non mettiamo troppa carne al fuoco.
Non facciamolo anche perché resta un’ altra imbarazzante questione a cui rispondere.
D. A cosa serve l’ arte?
Qui tendiamo a scantonare, abbiamo l’ impressione di “perdere” qualcosa di prezioso guardandola troppo da vicino. Il modo più goffo di scantonare consiste nel sostenere che l’ arte non è mai servita a nulla (l’ art pour l’ art).
La musica, per esempio, a cosa serviva?
Le funzioni originarie ipotizzate sono tante: sottofondo, evasione, autodisciplina, memoria, riflessione, creazione di legame sociale…
Il guaio è che qualsiasi funzione si ipotizzi ci si chiede se non esistesse un modo più “economico” per assolverla.
Esempio: la funzione che raccoglie più consensi tra gli studiosi è quella relativa al “social bonding”: ma non bastava un “giuramento” o qualcosa del genere per legarsi al gruppo? Dovevamo proprio imbarcarci in un simile dispendio di energie? Dovevamo proprio mettere in piedi “rituali” tanto complicati?
Possibile risposta: tutti sappiamo mentire con le parole, pochi lo sanno fare con le emozioni.
Insomma, la musica nascerebbe – non esistevano ancora le intercettazioni e altri metodi sofisticati d’ indagine - come assicurazione sociale contro simulatori, opportunisti e infiltrati. La musica come primitiva “macchina della verità”, la musica come regno della sincerità. Certo che se a contare è la sincerità, capiamo meglio perché un linguaggio del genere sia disposto a sacrificare la precisione.