mercoledì 9 novembre 2011

La sordità del pugno

David Fincher – Fight club

Lo yuppie protagonista della storia è una specie di Faust alla ricerca di un demonietto, lo troverà infine nel bel mezzo di se stesso, annidato in un anfratto periferico del suo cervello.

L’ esistenza del nostro uomo si trascina veloce e stantia al contempo: è inquieto, non sta bene, è rimbambito dai jet lag, non dorme e l’ insonnia gli fa apparire la realtà come una copia di una copia di una copia… di qualcosa di estraneo.

La vita gli scorre accanto senza regalargli né una vera risata né una vera lacrima. E in più sta finendo un minuto alla volta. Che pena per lui morire senza neanche una cicatrice sul corpo. Persino il male che lo consuma è invisibile e asettico come la morte interiore verso cui viaggia a spron battuto.

E’ proprio stufo delle porzioni singole acquistate al supermercato ma soprattutto è stufo di vivere in un mondo che misura la sua civiltà dal consumo di sapone.

E’ continuamente afflitto da vertigini che sono il sintomo di un malessere profondo, ha come l’ impressione di lucidare maniglie sul Titanic.

In questi casi che si fa?

Prima soluzione, ci si dà anima e corpo al consumismo compulsivo: arredamento, camicie, gadget elettronici, scarpe, viaggi. Ikea, Nike, Ferragamo, Brunello, Apple, una bella casa con questo e quello… Le soddisfazioni non mancano, ma non tutti riescono a farsele bastare.

In alternativa ci si dà al volontariato. Quando stai male senza ripercussioni sull’ analisi del sangue, quando stai male senza che nessuno te lo riconosca, di solito ti viene consigliato – con un sorrisino - di dare un’ occhiata a “chi sta male davvero”. E tu alla fin fine ci vai a vedere “chi sta male davvero”.

Ma il demonio ha in serbo per il nostro uomo una soluzione più drastica rispetto ai palliativi del consumismo e del volontariato: la sordità dei pugni.

La scossa delle botte, ecco la medicina: dare ma soprattutto prendere una manica di pugni. Pugni veri, dati a mani nude per far male al prossimo. Dati senza motivo se non quello di nuocere.

Il pugno è un anestetico eccellente, la sua sordità ti isola, ti fa toccare il fondo in questa dimensione per risvegliarti in un’ altra. Toccare il fondo non è un ritiro spirituale, non è un seminario a cui presentarsi col libro di testo; è un’ esperienza incandescente che ti chiede solo di lasciarti andare e vivere: quando un pugno ti investe è la vita stessa a investirti.

Dopo che hai incassato un pugno niente è risolto ma niente più importa. Chi l’ ha capito si fiuta e si mette in branco; si formano delle bande che è un’ unica grande banda: il Fight club.

Il cameratismo degli iniziati al mistero eleusino della violenza conduce dapprima la banda di cavernicoli a rituali seriosissimi con grida isteriche da chiesa pentecostale, poi a veri e propri sabba dove risse e orge sono indistinguibili; infine a un teppismo da samurai nichilisti, a un’ arancia meccanica con gli orologi perennemente sincronizzati che prima o poi la combinerà grossa, allo sprofondamento di ogni membro verso un rassicurante anonimato: tu sei solo i pugni che dai e che prendi.

Senza contare che se sai dare e incassare pugni, riesci a incassare anche altro, per esempio originali finanziamenti per il “progetto”, roba che il timido impiegato soggiogato dai capi quale eri nella vita precedente mai si sarebbe sognato:

La stoica combriccola del Fight club ama avvolgersi in un fascio coeso. Si pensa al tradimento della “razza scelta” con obbrobrio. Chi esce dal solco demoniaco è un infame da castigare. Mmmm… che rabbia, si sparerebbe una palla negli occhi di ogni panda che si rifiuta di fottere per diffondere la specie.

Finalmente anche il protagonista prova quell’ emozione vitalistica di sentirsi materia organica in decomposizione. Proprio cio’ di cui era in cerca. Ora anche lui ha un prezioso Golgota da salire, un fiotto di sangue da spruzzare, un sacrificio da compiere, qualcosa di bello da imbrattare.

Sono i suoi dieci minuti da dio.

Poi la retromarcia, ma forse è tardi.

Finirà tutto con una pistolettata chirurgica dalla bocca al lobo, ma parlo del lobo giusto sito nell’ emisfero corretto; una specie di semi-suicidio. Roba che se non te la spiega Oliver Sacks in persona non la capisci.

The Departure of the Witches boing

(sabba)

Tre le questioni sul tappeto messe dall’ intellettuale che guarda i film col cervello sempre sintonizzato su filosofia, sociologia e altri accademismi:

1. Identità. La stessa persona interpretata contemporaneamente da due attori diversi ha fatto storcere il naso. Personalmente trovo invece che la soluzione faccia scena, non per niente sono sempre di più i film che vi ricorrono. Inoltre è credibile: dentro siamo sempre almeno in due, inutile illudersi (e come si tratta per andare d’ accordo con se stessi!). Ci vuole poco per accorgersene, basta cercare di smetterla col caffé o la panna sulle fragole.

2. Consumismo. Il film voleva essere un atto d’ accusa; ne esce invece un’ apologia conforme, per esempio, alle tesi espresse anche qui, ovvero: visto quante forze malvage libera la rottura di quel prezioso vaso di Pandora che è il consumismo?

3. Violenza. A volte sembra adombrata una funzione catartica della violenza. Non scherziamo, la psicologia ormai nega simili ipotesi: violenza genera violenza, altro che sfogo salutare e catarsi.

martedì 8 novembre 2011

Il dilemma del ridistibuzionista etico

Chi ha, dia a chi non ha. A orecchio suona bene.

Ma… ma.

Una domanda che faccio in tutta sincerità soprattutto a chi considera la famiglia il fulcro della società:

- ritenete voi auspicabile un decreto che costringa il fratello benestante a versare parte della sua ricchezza in favore del fratello meno abbiente?

Stabilire le “soglie” è presto fatto,  non è quello il problema.

Ma al di là delle “soglie”, io prevedo che una legge del genere venga considerata “ripugnante” dalla maggioranza delle persone. Tanto è vero che non esiste e che nessuno si sogna di chiederla, neanche anche tra chi esalta la famiglia.

I motivi possono variare.

La domanda sorge spontanea: perché cio’ che non si ritiene debba valere tra fratelli poi si pretende debba valere tra sconosciuti?

Eppure noi tutti riteniamo che il vincolo familiare sia di gran lunga più impegnativo, tanto è vero che ogni giorno consideriamo accettabile lasciar morire molti sconosciuti che potremmo facilmente salvare, mentre saremmo orripilati se lo stesso atteggiamento ci fosse tra familiari.

Frogner Park

Il mistero s’ infittisce.

Ma questo non è l’ unico paradosso del “ridistribuzionismo etico”.

Il “ridistribuzionista etico” predica il suo vangelo urbi et orbi, sembra che tenga tremendamente alla cosa, salvo poi scoprire che non si ritiene particolarmente impegnato a “ridistribuire” la sua ricchezza personale quanto quella altrui. Tanto è vero che mediamente è meno generoso del non-ridistribuzionista (link1 link2).

Come mai?

La matassa è ingarbugliata, provo a sbrogliarla con un esperimentino.

Pensiamo a una popolazione composta da quattro anime; le nomino in ordine di ricchezza: 1. Giovanni 2. Mauro 3. Luigi 4. Sandro.

Dovendo pescare tra costoro un soggetto con propensioni “ridistribuzioniste”, su chi cadrà la scelta dello scommettitore razionale che conosce la letteratura sull’ argomento?

Risposta ingenua: Sandro.

Risposta corretta: Mauro.

E dovendo invece pescare un acerrimo non-ridistribuzionista?

Risposta ingenua: Giovanni.

Risposta corretta: Luigi.

Già, su quattro elementi il più voglioso di trasferire ricchezza è il secondo e il più riluttante è il penultimo.

Poiché la ridistribuzione è un flusso di ricchezza che va innanzitutto da chi sta più in alto a chi sta più in basso, l’ invidia, molto più che la generosità, spiega l’ esito dell’ esperimento: il “secondo” di solito è animato da intenti punitivi nei confronti del “primo” mentre il “penultimo” teme di essere avvicinato dall’ “ultimo”.

Misteri e stranezze cominciano a dissolversi e i conti ora quadrano un po’ di più.

lunedì 7 novembre 2011

Best statistic question ever

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In realtà ce n’ è una ancora più bella: quella con c=0

p.s. per ora non metto il link per non rovinare il divertimento.

“Mettere le mani in tasca agli italiani”

Quando un grezzo politico italico, di quelli che circolano in questa epoca storica, se ne esce con questa grezza espressione, c’ è sempre un grezzo intellettuale italico, di quelli che circolano da sempre, che si frega le mani fiutando l’ ottima occasione per “indignarsi” e reclamare la scena avocando a sé la telecamera per un bel primo piano stretto che consenta di diffondere al meglio l’ invito a un lavacro purificatorio.

Paul Cadden

Dopodiché, con parole altisonanti si dà la stura a un fervorino con il quale magari non si osa intonare il celeberrimo slogan “le tasse sono bellissime”, tuttavia si indulge volentieri alla retorica dell’ “evasore ladro”, altrove nota come “It is your money, stupid”.

Roberta De Monticelli – filosofa in quota rosa, e quindi “microfonata” dai media anche quando va in bagno – non si fa certo pregare allorché le si presenta su un vassoio d’ argento l’ occasione di passare in un lampo da Kant, Locke, Guicciardini (che noia!) ai più eccitanti Lele Mora e Silvio Berlusconi. Ciò le consente si “sentirsi viva” e di immergersi nell’ ombelico del mondo! In realtà, nel parlare del suo libro, non sembra aspettare che questo momento. E nemmeno si puo’ dire che la facciano attendere molto visto che la “svolta” dell’ intervista di solito prende corpo appena superata la soglia dei primi quindici secondi:

Sarà la verve concitata, sarà lo scatenamento dell’ affamato davanti a tavole imbandite, saranno le luci della ribalta, saranno – che ipotesi cafona! - le idee un po’ confuse; sta di fatto che non si capisce più niente su “chi prende dalle tasche di chi” in materia di tasse.

Alle “indignate” interiezioni dell’ Amazzone, forse la migliore replica viene da Jerry Gaus – filosofo fuori da ogni “quota”, e quindi nemmeno tradotto, figuriamoci se intervistato – che dal monumentale The Order of Public Reason ci fa sapere a proposito di tasse e di “chi prende nelle tasche di chi”:

If the state is in the business of determining the shape of property, it may seem that everything it does – including taxing as it sees fit – is part of this job of specifying property rights. If so, it might appear that nobody could be in a position to argue that the state is taking away his property since until the state specifies it, there really is no effective right to property. There is, in this way of thinking, no Archimedean point outside of the state’s determinations of your property rights (or any other rights?) from which to criticize the state’s legislation, in particular its revenue legislation, as taking away what is yours, for its decisions determine what is yours.

This conclusion does not follow from recognizing that effective property rights are conventional and depend on the state. All laws are to be justified. This justification occurs against a background of one’s already justified rights, what I have called the order of justification. Now property rights, if not the most basic rights in the liberal order of justification, are certainly prior to many state laws and policies such as, say, funding museums. Hobbes, Locke, Rousseau, and Kant all recognized that distinguishing “mine” and “thine” is one of the first requisites of an effective social order. In seeking to fund museums, representatives of the state cannot simply say that citizens have no entitlement to their incomes because they, the representatives, determine property rights, and so they may tax for these purposes without justification. “Without us, there would be no property, so you have no property claims against us!” Once property rights have been justified, they form the background for further justifications; they can be justifiably overridden in order to tax, but this must be justified.

Chi avrà ragione?

Per ora accontentiamoci di avere le idee un po’ più chiare.

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sabato 5 novembre 2011

Cedette colei che era già da molto vinta

Christopher Marlowe – Ero e Leandro

La poesia narrativa elisabettiana ferma sulla pagina una delle eroine più espressive di Ovidio per farla soffrire e godere ben oltre i pudici limiti consueti.

Dalla torre in cui vive in compagnia della laida nana che le fa da nutrice, la bella teme che, oltre la bufera, sia qualche sgualdrina a trattenere l’ amato supposto infedele.

Ma ostacolo invalicabile all’ unione è soprattutto il voto di castità che vincola la sacerdotessa di Venere. La passione sarà tale che le angustie e le prudenze sociali verranno ben presto smantellate.

Seguendo le intime transizioni dal desiderio al timore, impariamo che le dolci tenerezze d’ amore sono inseparabili dalla percezione umiliante della violenza.

La musa spossata di questa voce proto-decadente è prodiga di altri insegnamenti, esempio: il destino è più potente dell’ amore e ben presto ammorbidisce i rigori inflessibili dell’ allucinata gioventù.

Marlowe non esita un attimo ad aggirare la pedante conclusione tragica della leggenda per sprofondare il tutto nella vertigine di un gorgo singolare dove tragedia, desiderio, amore, gloria, bellezza si mescolano confondendosi in modo che i protagonisti superino i limiti umani per finire chissà dove.

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Psicologia e trascendenza amorosa traboccano da ogni pagina:

Come ci s’ innamora?

… fissandola smarrì la vista nel suo volto…

Potere dello sguardo:

… la sua vista disacerbava il bifolco più rozzo… il barbaro guerriero tracio, mai intenerito, s’ inteneriva…

Pendere dalle labbra dell’ amata:

… rapiti, le sentenze attendevano dai suoi occhi sdegnosi…

Come si cura il mal d’ amore?:

… c’ è chi sospira, chi s’ infuria… e chi compila satire mordaci… ma ahimè, troppo tardi… poiché mai in odio si muta amore…

Arredamento di alcova e vestiti:

… ovunque sula maiolica e la batista Dèi travolti in orge inebrianti e satiri estasiati da incesti e stupri…

Riconoscere il vero amore:

… quando la ragione domina, l’ amore è scarso… chi mai ha amato se non al primo sguardo?…

Dialogo tra innamorati:

… si parlano gli amanti esprimendosi col tocco delle mani: muto è il vero amore… i segni silenti impigliano i vinti cuori… a ogni parola ella il volto distoglie e sempre lo contrasta quando non desiste…

Contro la castità:

… come le auree corde stonate, inasprite vibrano le donne a lungo rimaste intatte… se usati i vasi d’ ottone brillano vivaci… e dove la differenza tra la ricca miniera e il vile terriccio?… le donne sole periscono come case abbandonate… l’ “uno” non fa numero… solo Pallade dai seni di selce fu fatta per la vita solitaria… se troppo difesa la beltà trascolora nel grigio… castità… insensati uomini la considerano virtù, ma quale virtù è nativa? Ancor meno le si puo’ attribuire onore: l’ onore lo si conquista con atti…

Appena prima del sì:

… rifiutò in modo da non toglierli ogni speranza offrendosi con sguardi dal diniego cedevole… il che d’ improvviso accese in lui il vigore dell’ eloquio e della supplica…

Appena dopo il sì:

… la di lui scimmiesca esultanza…

Amore corrisposto:

… soavi sono i baci, gli abbracci soavi, quando s’ incontrano impulsi e aneliti somiglianti… laddove la bilancia segna equivalenti inclinazioni…

Strategia del tira-e-molla:

… mentre parve abbandonarglisi, lo eluse, e quando egli pensò più imminente il successo, simile all’ albero di Tantalo, si ritrasse e pur sembrando prodiga, la verginità serbò… tribolò [Leandro] come Sisifo invano, finché a negoziati teneri non succedette tenero armistizio… sono guerre in cui le donne usano soltanto la metà delle forze… alfine sui frementi seni di lei qualcosa lui disse… e sospirò il resto… mai sovrano custodì un diadema con tanta determinazione quanta ne mise lei per preservare la sua gemma…

Ognuno a casa sua:

… la bellezza dell’ altro che da vicino ravviva, separata e lontana, là dove amava, trucida e rende simili a eredi in esilio…

Bando alla saggezza:

… l’ amore, se avversato, cresce in passione… nulla l’ amante più dei consigli aborre… è un ardente cavallo che sdegna superbo chi gli diriga la cervice… spezza le redini… sputa il morso e scalciando segna il terreno… quanto più lo si frena tanto più lo si sfrena…

Compensazioni:

… Ero si ritrasse e nel tepido suo posto si distese Leandro… per saggiar quel calore intenso che risveglia le anime in declino come se attingessero a nettare nell’ oro incoppato…

Pre-alba:

… mentre i piedi nudi sgusciano dalle coperte, lui l’ avvince all’ improvviso e come sirena scivola sull’ impiantito; una metà di lei appare, l’ altra rimane celata… la chioma come nube d’ oriente fugace… fece balenare nell’ orrida notte una falsa alba… monito di quella che a breve avrebbe rischiarato l’ onta…

venerdì 4 novembre 2011

Mr. 7 miliardi

L’ altro giorno è nato il settemiliardesimo abitante della terra.

E’ un bambino fortunato poiché è nato in un posto, il nostro pianeta, che non è mai stato ricco come lo è ora.

Mr. 6 miliardi nacque in una casa al confronto molto più povera. E ancora peggio andò per Mr 5 miliardi. Poverissimo, poi, il mondo che accolse Mr. 4 miliardi. Se volete vado avanti.

Speriamo che nasca al più presto Mr 8 miliardi: a quanto pare i bambini portano fortuna e più ne nascono meglio stiamo tutti.

Forse perché è la gente che risolve i problemi e più gente c’ è più problemi si risolvono.

L’ economista di Harvard Michael Kremer è arrivato alla conclusione che la crescita demografica stimola il progresso tecnologico, il progresso tecnologico stimola la crescita economica e – tanto per chiudere il circolo virtuoso- la crescita economica stimola quella demografica.

Fateci caso: se la popolazione mondiale raddoppiasse raddoppierebbero gli individui geniali.

E gli individui geniali non sono una manna solo per i vicini, sono dei tipi che risolvono d’ amblé problemi che toccano un po’ tutti.

I geni, poi, si ispirano reciprocamente e raddoppiarne la presenza quadruplica il loro rendimento. Forse il genio è perfino un po’ “contagioso”. Pensiamo solo alla concentrazione di genio artistico nell’ Italia rinascimentale (leggere Charles Murray, subito!).

La voglia di risolvere certi problemi, aggiungo giusto per Erode/Sartori, viene solo se siamo in tanti: le importanti innovazioni della rivoluzione industriale non sono state implementate finché il bacino di utenza potenziale non è cresciuto a sufficienza. Non me lo invento io, due studiosi della Federal Reserve di Richmond hanno pubblicato il loro studio su una rivista non patinata (leggere l’ AER, subito!).

L’ unica notizia triste è che se tutto quanto ho detto è vero, allora i bambini sono il contrario dell’ inquinamento; cio’ significherebbe che mancano gli incentivi giusti per farne nascere a sufficienza: chi inquina riversa i costi sugli altri, e quindi ci dà dentro più che puo’; ma chi fa bambini riversa benefici sugli altri, e quindi non ci darà mai dentro abbastanza.

Canovaccio

Poiché discussioni sullo specifico delle arti si ripetono sempre, forse puo’ essere prezioso stenderne un canovaccio, magari per evitarlo la prossima volta:

1. Tu proponi una teoria dell’ arte (es. quella del 50 genio 50 tecnica).

2. Io cerco di confutarla facendo presente che la presenza di artisti come X e Y è incompatibile con quella teoria.

3. Tu ribatti che X e Y non sono artisti, o comunque non sono artisti degni di considerazione.

4. Io faccio presente che la critica li ha consacrati come tali.

5. Tu dici che gli “esperti” da cui emergono i “verdetti della storia” non sono competenti poiché solo gli artisti stessi hanno diritto di parola quando si entra nel merito.

6. A questo punto io ritengo confermata la mia tesi visto che l’attacco al buon senso di cui al punto 5 gioca a mio favore. Con questo nessuno esclude che tu possa aver ragione.

Mi sembra tutto chiaro, forse vale la pena chiudere con l’ ennesimo esempio. Prendiamo Ernst Gombrich, è ritenuto il più grande critico d’ arte che il Novecento ci ha regalato, ma poiché non sa tenere in mano un pennello e non sa schizzare un’ anatomia credibile, secondo te non ha diritto di parola e le opinioni che coagula cono prive di fondamenta quanto il consenso che fa emergere grazie alla sua analisi.

Cosa aggiungere? Nulla, mi ritengo soddisfatto e penso di aver così dimostrato la mia tesi nel modo più trasparente. Cio’ non toglie, ripeto, che tu possa sempre essere dalla parte della ragione quando dici che Gombrich o chi per lui  non capisce niente d’ arte.

In conclusione mi sembra necessario avvertire di un doppio rischio.


Il primo consiste nel confondere i propri gusti personali con i fatti. A uno puo’ anche non piacere l’ arte contemporanea (Dubuffet, Queneu o Braxton che sia) ma non puo’ dire che non esiste o sia di serie B solo per eludere i problemi che incontrano le sue formule quanto tenta una definizione dell’ arte stessa.

In secondo luogo non bisogna confondere l’ arte con la sua produzione. Certe “ricette” riguardano la produzione più che l’ estetica. Occorre separare i due domini per operare con ordine. La comprensione di un suono o di un segno è cosa ben diversa dalla sua produzione materiale.

giovedì 3 novembre 2011

Invidiosi e riduzione del danno

Robert Frank condivide l’ idea che la competizione per lo status si è spostata sui consumi.

Una volta ci facevamo belli ostentando i muscoli, oggi ci facciamo belli ostentando i nostri consumi. Per questo abbiamo bisogno di renderli particolari.

Da ciò consegue il fatto che l’ overconsuption implichi uno spreco di risorse recuperabili via tassazione. Ha scritto anche un libro sull’ argomento.

Stornare la competizione dai consumi alla produzione puo’ anche essere una buona idea, ma attenzione a non esagerare:

Competition for status is inevitable.

If people can not compete with wristwatches and cars, they will compete in other ways. Think about schools or prisons. Both of these places contain a lot of status competition, and there is a lot of anxiety as the strong ridicule and bully the weak, often using physical violence. Yet, these are also materially egalitarian societies, where differences in wealth are slight relative to 'real life'.


Reducing consumption inequality would not diminish status competition but rather channel it to less benign spheres. When a wealthy jerk buys a new Porsche or adds on to his summer cottage, this is much less annoying to me than the annoying jerks I knew in school (or conceive of in prison). Socialist countries where workers were not so material different had as much stress and anxiety than any Western country, which probably is why there is so much alcoholism in Cuba and Russia.

Bohemians and scribes like to think that if there was no material wealth there would be no stress, but really they are thinking: if we competed purely on intellectual grounds, I would be on top!… leggi tutto

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mercoledì 2 novembre 2011

La conversione

Anno domini 2011.

Solo in economia la Destra puo’ rivendicare oggi un primato culturale. Solo lì la sua sfida è vincente, solo lì si annidano i suoi intellettuali di prestigio, quelli in grado di strappare “conversioni” a chi li ascolta in buona fede dal campo avverso.

E’ poco?

No, perché ormai quasi tutto è economia.

Faccio solo un esempio: il discorso sulle libertà è “economia” poiché tutte le libertà, alla fin fine, sono riconducibili alle libertà economiche (a proposito, domani esce con il corriere il celeberrimo confronto tra Croce e Einaudi).

Cosa resta della cultura di Sinistra italiana, solo macerie?

Anche se l’ ottusità giovanilistica abbonda, io risponderei di no.

No, a patto che ci si riconverta a una cultura di destra rinominandola qua e là per non dare troppo scandalo. Si lavori pure sulle parole come si crede (so bene che per molta "sinistra" relativista le parole sono tutto).

Ci sono possibilità che questo avvenga? Ci credo poco, ma forse frequento le persone e i blog sbagliati.

Poche, troppo poche le personalità con il coraggio di convertirsi. Troppo, veramente troppo l’ odio che scatenano nei "conservatori" affezionati alle belle rime degli slogan di un tempo.

Aggiungo che non sono il massimo della simpatia!

Urla ben temperate

Difficile periodare adeguatamente quando si dispone di alfabeti con poche lettere quali sono quelli a disposizione di chi urla.

Eppure, a volte, il miracolo si compie.

Lui, Mats Gustafsson, è forse il miglior “urlatore” sulla piazza (suona il sax - scrostato) e qui si esibisce con un power trio veramente “power”.

Strazio, ruggito, ottusità, autismo… l’ urlo di Mats riesce a calibrarsi con inattesa perizia reggendo bene anche le lunghe durate.

Potrebbe deliziare il jezzofilo più esigente così come il Behring Breivik di turno quando si reca in missione.

Genealogia: Albert Ayler, Gato Barbieri, Peter Brotzman, Peter Hollinger

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Fire – You like me five minutes ago

Matt in un video della strana tournée con Ex… in qualche cinemino strapieno senza uscite di sicurezza nel profondo dell’ Africa nera a suonare un punk indigesto ibridato con lo sciamanesimi. L’ ingenuo pubblico sembra gradire stemperando la rabbia dei suoni con larghi sorrisi e scapperamenti.

martedì 1 novembre 2011

Floris, Report, Napoleoni: hasta la propaganda siempre

Pare che questa canzoncina del “default controllato” e dell’Islanda “che ne è uscita meglio di altri” stia contagiando la nostra intellighenzia di sinistra. In ordine cronologico, dopo Report di domenica, dopoGiovanni Floris ieri sera dalla Gruber, ecco l’iperventilante Loretta Napoleoni, che ribadisce i soliti sinistri luoghi comuni. Ripetete con noi: non esiste alcun “default controllato“, e l’Islanda non ne è uscita meglio di altri, ma con pesantissimi costi ed il ricorso all’ortodossia del Fondo Monetario Internazionale. Hasta la propaganda, siempre.

Libertarianism A-Z: vietato ai minori

Alcolici, fumo, film… vietato ai minori!

E certo, chi vorrebbe vedere un dodicenne ubriaco?

Ma la misura è facile da eludere l' unico messaggio che passa veramente ai nostri ragazzi è contenuto nell' idea che la legge sia qualcosa da infrangere.

Intanto i negozianti disonesti prosperano a danno degli onesti.

I genitori si rilassano abbandonandosi a un lassismo deprecabile: pensa a tutto mamma Stato.

L’ effetto positivo di queste leggi è modesto, per non dire di come viene presto alla luce il tipico fascino del frutto proibito.

Non solo, finita l’ astinenza forzata, quella della minore età, spesso ci si dedica alle grandi abbuffate maneggiando roba di cui si è sommamente inesperti.

lunedì 31 ottobre 2011

Basilea

Da uno dei più informati libri sulla crisi:

"deregulated" capitalist finance did not cause the crisis, but rather that regulatory ignorance and ideology, apparently transmitted to the regulators by modern democracy's most trusted academic experts, may have caused it...a potentially fatal flaw: the mistakes that flow from the cognitive limitations of modern democracy's all-too-human decision makers.


The cognitive limitations of capitalist decision makers are, of course, just as likely to lead to mistakes. But capitalists simultaneously put into practice heterogeneous, competing interpretations of the world...At least some of these interpretations, if not all of them, are very likely to be mistaken, but some may be less mistaken than others.


Society might therefore be well advised to diversify its asset portfolio by allowing capitalist competition to proceed unhindered, rather than by predicting that a single interpretation is best in advance and then imposing it on all capitalists' behavior at once.

Smontata con dovizia l' ipotesi dell' avidità delle banche.

Il colpevole? Basilea:

A differenza di quel che comunemente si creda, le maggiori banche internazionali avevano in pancia moltissimi titoli a tripla A o poco meno, da quelli dei Fannie e Freddie ipergarantiti dallo Stato ai mezzanini-salsiccia garantiti dalle big five USA dell’arrangement intermedio tra emittenti e prenditori. E li avevano proprio per assecondare gli ortodossi criteri di Basilea, per i quali andava previsto meno capitale per un trading book a basso yield perché considerato meno rischioso, e al contrario più capitale per l’inverso. All’errore capitale sul risk assessment dei titoli di debito a doppia e tripla A si aggiunse a quel punto la necessità delle banche, sempre imposta da Basilea, di rientrare sul capitale obbligatorio tagliando col machete gli impieghi a famiglie e imprese.

Marxisti ratzingeriani

Sono: Giuseppe Vacca, Mario Tronti, Pietro Barcellona e Paolo Sorbi.

I quattro hanno invitato al dialogo “credenti e non credenti” su quella che a loro giudizio è la ragione profonda della crisi delle democrazie: “l’emergenza antropologica” prodotta dalla manipolazione della vita. Un dialogo fondato sulla critica del relativismo etico e sui “principi non negoziabili”, a partire dalla difesa della vita umana “fin dal concepimento”.

Un’ apertura inaspettata.

Talmente inaspettata che la chiusura viene a sorpresa da titubanti cattolici. L’ avreste mai detto?

Come c’ era da aspettarsi, i quattro non sono stati invitati al “Cortile dei Gentili”, il dialogo tra credenti e non credenti in salsa martiniana.

Tra assistenzialisti e pauperisti, molto meno imbarazzante limitarsi alle solite quattro banalità su poveri e emarginati.

Ciarpame

Perché avere idee quando ci si puo’ limitare a emettere “profumi”?

Perché esprimersi con chiarezza quando ci si puo’ limitare a essere “bravi comunicatori”?

Perché avere un “pensiero” quando si puo’ avere una “narrativa”?

Perché fare i filosofi quando si puo’ fare i “filosofi francesi”?:

Roger Scruton sulla nota combriccola (da: Del buon uso del pessimismo - Lindau):

Sulla scia di Althusser un fiume di linguaggio pomposo fluì dal ventre della storia, che all’epoca si trovava nella rivista di sinistra ‘Tel Quel’. Questa rivista pubblicava saggi di Derrida, Kristeva, Sollers, Deleuze, Guattari e un altro migliaio di autori, tutti creatori di ciarpame intellettuale, del quale si capiva chiaramente solo un aspetto, vale a dire la sua qualità di ’sovversione’ rivoluzionaria. Il loro stile vaticinante, in cui le parole vengono scagliate come incantesimi piuttosto che utilizzate come argomentazioni, ispirarono innumerevoli imitatori nelle facoltà umanistiche di tutto il mondo occidentale. [...] Scrittori come Derrida, Kristeva e i loro successori più recenti come Luce Irigaray e Hélène Cixous dovrebbe essere letti semplicemente come militanti di sinistra. E le loro sciocchezze, riportate nelle note e nelle bibliografie di migliaia di riviste accademiche – fra le quali la più importante è la ‘Modern Language Review’ – sono state depositate in quantità degne di Augia su ogni possibile spazio disponibile dei programmi di studi. Il risultato di questo sforzo concertato di rendere inespugnabile la posizione di sinistra è stato un disastro intellettuale, paragonabile all’incendio della biblioteca di Alessandria, o alla chiusura delle scuole della Grecia”.

sabato 29 ottobre 2011

La bolla educativa

Alison Wolf – Does education matter? Myth about education and economic growth.
Un giorno il povero Tremonti, nel negare i finanziamenti di rito a San Sandro Bondi, ebbe a dire che “con la cultura non si mangia”. Prima ancora di aver terminato la frase, chi di solito si nutre di cultura (e di finanziamenti a fondo perduto), cambiò improvvisamente dieta per mangiarsi vivo il ministro stesso.
Anche Allison Wolf ebbe una feconda “gaffe sociale” in tema. Con la differenza che lei non è un commercialista di Sondrio ma una “dura” molto ferrata in tema solita parlare dell’ argomento con cognizione di causa; cosicché, le reazioni alla gaffe, anziché intimorirla, la spronarono a sistematizzare il suo pensiero in questo libro.
A una cena con amici facoltosi si parlava di come guidare i paesi più poveri sulla strada dello sviluppo. In tema regnava un tranquillizzante accordo: common law, free market and… education, education, education. Ma proprio l’ “esperta del settore” opinò a sorpresa, e mal gliene incolse. Mettere in questione il valore (e il budget) dell’ istruzione significa oggidì passare per qualcosa che sta tra il torturatore di animali e l’ imbecille. Tutto cio’ ha fatto pensare l’ autrice che ha poi deciso di immolarsi per l’ impopolare causa: dissociare una volta per tutte istruzione e crescita economica.
Street artist Banksy A NEW ORLEANS ART
Il libro intrattiene su molti argomenti.
Sul perché sia tanto arduo combattere il fenomeno dell’ “overeducation”. Si scopre che si tratta di produrre un bene pubblico opponendosi ai naturali egoismi dei soggetti coinvolti:
… L’ istruzione conta?… la lezione dell’ ultimo secolo è chiara: per il singolo conta come mai in passato… Ma conta anche nel senso inteso dai governi democratici un po’ di tutto il mondo?…ovvero, nell’ era della conoscenza il nesso tra istruzione superiore e sviluppo si rinforza come sostengono molti?… a questa domanda bisogna rispondere con un chiaro “no”… credenze naif in merito hanno comportato non poche distorsioni nelle politiche di settore… si è creduto che esistesse un legame semplice e diretto tra la quantità di istruzione fornita e il successo competitivo del paese… si è creduto altresì che i governi potessero isolare facilmente il tipo di formazione necessaria all’ avanzamento economico della comunità… entrambe le credenze si sono rivelate inventate completamente infondate…
Sull’ esito fatale di chi parte da certi presupposti, ovvero la “bolla educativa”:
… il problema si espande quando, come negli ultimi decenni, cominciamo a estrapolare i rendimenti dell’ istruzione come se fossero le cedole di titoli trattati in borsa… il risultato è che l’ espansione immotivata negli acquisti ha creato una “bolla educativa” senza precedenti… una simile dilatazione è costosa e dannosa per molti versi… innanzitutto svaluta il ruolo dell’ istruzione (oggi vediamo girare ragazzi chiaramente overeducated e molto arrabbiati)… in secondo ruolo impedisce la reale relazione che potrebbe esistere tra istruzione e successo economico… in terzo luogo impedisce all’ istruzione di essere un ascensore sociale…
Su un sintomo tutto particolare della malattia: la pulsione a “quantificare” lo scibile umano:
… un risultato è stato il moltiplicarsi degli obiettivi quantitativi al fine di facilitare un controllo centrale delle Università… l’ approccio assomiglia terribilmente al modo in cui i pianificatori sovietici gestivano la loro economia… e registra anche i medesimi inconvenienti… l’ obbiettivo quantitativo funziona quando l’ oggetto delle osservazioni è facilmente misurabile (trattori, voti…)… molto meno quando sono in gioco grandezze oggetto di dibattito e di valutazione soggettiva… in un’ organizzazione gerarchica e centralizzata gli unici incentivi di chi opera sul campo consistono nel soddisfare chi distribuisce le risorse e i compensi… se a costoro si chiedono certi numeri, probabilmente li otterremo, ma non otterremo cio’ che i numeri non possono esprimere… per esempio la qualità e la cura…
Sui miti da sfatare:
… poiché la gente più istruita è anche meglio pagata e poiché i paesi più ricchi sono anche quelli con livelli di istruzione più elevati, si generano molti malintesi… si ritiene per esempio che esista una relazione diretta tra livelli d’ istruzione e abilità… si ritiene che l’ istruzione sia il miglior ascensore sociale a nostra disposizione… si ritiene poi che tutto questo sia particolarmente vero oggi… senonché, per quanto si torturino i numeri… non si riesce ad andare oltre l’ accattivante retorica…
Su quanta istruzione ci serve:
… per supportare ricerca e innovazione a un paese occorre un drappello cospicuo ma non vasto di personale ben preparato e ben equipaggiato… e non un plotone di ricercatori lacunosi e imperfetti su più fronti… anche solo per limitarsi alle strutture universitarie, nessun governo è in grado di attrezzarle tutte al meglio e nelle democrazie moderne una simile diseguaglianza non è tollerata, cosicché si preferisce uniformarsi verso il basso…
Poi si affronta un argomento scottante: il mondo del business puo’ dare una mano?
… i governi aspirano a rimodulare il settore educativo sulla base delle esigenze manifestate nel mondo del lavoro… cosicché cosa c’ è di meglio che chiedere consigli a quel mondo e farlo entrare in Università?… Gli anni ‘80 e i 90 costituiscono un buon test per questa strategia visto che è stata implementata un po’ ovunque… inutile nascondere l’ esito deludente, per lo meno quando a essere coinvolte sono stati i “rappresentanti ufficiali” del business… il singolo imprenditore sa bene cosa chiedere al neo assunto ma, a quanto pare, le confindustrie non sanno cosa chiedere agli studenti…
In tutto questo bailamme la formazione professionale che fine fa?
… bisogna ammettere che sul tema della formazione professionale una preoccupazione ha attraversato la politica la quale si è proposta di aumentare sia i fruitori che il loro status… missione fallita… le scuole professionali vanno benissimo… ma per i figli degli altri… i miei vanno all’ università…
Sulla guerra dei ministri:
… da anni i ministri dell’ istruzione di tutte le democrazie si fanno la guerra a colpi di laureati e università: chi ha sfornato più laureati? Chi è stato il campione nel riempire il paese di Università?… purtroppo le indagini sul campo ci dicono che in questo campo quasi sempre il “più” è nemico del “meglio”… la “guerra” dei ministri è infondata e il fatto che la si combatta è sintomo di come siamo lontani dalla comprensione dei problemi…
E infine sul ruolo dell’ istruzione: perché persistere a disegnar fiorellini se poi arriva il mondo cattivo che ce li cancella?:
… sarebbe utile rassegnarsi a ripristinare il tradizionale ruolo dell’ istruzione e dire chiaro e tondo che apprendere è bello e desiderabile di per sé… che l’ istruzione serve a conoscere e a diffondere la conoscenza… non esistono elementi che consentano di rintracciare altre relazioni dirette… questa diffusione non ha conseguenze lineari bensì espande in modo discontinuo e irregolare taluni benefici che riguardano innanzitutto lo spirito…

venerdì 28 ottobre 2011

Canne al vento

A quanto pare la crisi ha ridotto le distanze tra paesi ricchi e paesi poveri.
Ma all’ interno di ciascun paese le dinamiche dell’ eguaglianza come sono mutate?:
The incomes at the top of the income distribution have fallen substantially over the past few years.
According to the most recent IRS data, between 2007 and 2009, the 99th percentile income (AGI, not inflation-adjusted) fell from $410,096 to $343,927.  The 99.9th percentile income fell from $2,155,365  to $1,432,890.  During the same period, median income fell from $32,879 to $32,396.
These recent numbers illustrate the broader phenomenon, discussed in this paper, that high-income households have riskier-than-average incomes.
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Dopo l’ overdose

Ve la ricordate la Heroin dei Velvet?

Autentico inno generazionale: parte piano, come il sommesso soliloquio di chi si cerca la vena; poi arriva il primo fremito della sostanza entrata in circolo che fa partire una cavalcata dai sempre meno frequenti intervalli che sfocia infine in cacofonici soli al calor bianco, parlo di roba ormai inserita a buon diritto nella capsula dal tempo da spedire su Marte.

Ecco la compressa versione “della banana”:

 

David Lang, negli “American Classic”, ripropone il pezzo in versione inerte. Liberato da ogni faticosa dinamica, il protagonista sembra parlarci fin da subito assiso al seggio su cui è volato senza scalo dal cesso dell’ overdose. Al suo cospetto il violoncello, presumibilmente deceduto anche lui in seguito alle sevizie di Cale, intona ora simil-partite bachiane su un registro anaffettivo.

Anton Semenov

Del resto Lang sembra vocato per l’ immota contemplazione: in “How to pray” sembra limitarsi a estrapolare un fotogramma dai già lenti video che documentano l’ evoluzione secondo Part. In “Wed” siamo poi invitati a rimirare la costellazione di un universo inebetito che non prevede né giorno né notte.

Qui ci sono i tre pezzi:

Solo un americano puo’ reperire ancora il coraggio per “tentare” un qualche misticismo.

Genealogia: Arvo Part, Steve Reich, Cecil Taylor

David Lang – American Classics

 

 

giovedì 27 ottobre 2011

Indignados mano nella mano a passeggio con i Tea party

Come mai di fronte alla crisi finanziaria movimenti tanto diversi raccomandano la stessa soluzione, ovvero il default delle banche?

In altri termini, come mai due morali tanto diverse convergono su un tema tanto cruciale?

Cerca di rispondere Jonathan Haidt:

We really hate cheaters, slackers, and exploiters. By far the most common message I saw at OWS was that the rich (“the 1 percent”) got rich by taking without giving. They cheated and exploited their way to the top…  It’s high time that they started giving back, paying what they owe.


As a point of comparison, a similar look at signs found at the Tea Party rallies suggests that protesters there are also chiefly concerned with fairness. The key to understanding Tea Partiers' morality, though, is that they want to restore the law of karma. They want laziness and cheating to be punished, and they see liberalism and liberal government as an assault on that project. The liberal fairness of OWS diverges from conservative and libertarian fairness in that liberals often think that equality of outcomes is evidence of fairness.

Ottimo punto che ci aiuta a far salire un po’ la nebbia.

Per i tea party non ci sono problemi, chi fallisce merita di per sè di fallire… quindi…

L’ indignados invece vorrebbe fare un’ eccezione per i “buoni”, ma niente paura, operare il discrimine è semplicissimo: per essere cattivi basta essere “ricchi” o “ex- ricchi”. Essere ricchi o esserlo stato, per la morale dell’ indignados, è una colpa di per sé. Essere una banca equivale a essere ricchi e quindi a essere cattivi: lasciamo fallire le banche. Facile.

Conosco religioni gnostiche che semplificano ulteriormente: basta nascere per essere cattivi, al di là dei ticket che staccherete in seguito.

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Se dovessi scegliere tra le due morali io non avrei dubbi. E voi?

 

 

 

mercoledì 26 ottobre 2011

Scusi, lei è un fallito?

Ottimo articolo di Michele Boldrin sulla crisi dell’ Euro.

Ci rinfresca sulla regola aurea: lasciar fallire i falliti.

Non c’ è miglior medicina contro l’ azzardo morale.

Senonché, in un economia finanziaria si rischia di lasciar fallire anche chi non è un “fallito”.

Pensiamo solo ai “fallimenti per deflazione”: assumiamo che sia alle viste una deflazione. Potrebbe essere conveniente ritirare i fondi investiti per assicurarsi le rendite da deflazione che incamera chi si limita a “stare liquido”. Cio’ procurerebbe seri danni, e magari anche il fallimento, a soggetti perfettamente sani.

Pensiamo ai “fallimenti da malinteso”: io so che tu sai che io so che tu sai; ma non so che tu sai che io so che tu sai che io so. Questo potrebbe spingermi a non investire su un’ impresa sana che non meriterebbe di fallire.

Deflazione e malintesi si generano in seguito allo scoppio delle bolle finanziarie che seguono spesso l’ attività innovativa tipica di un’ economia capitalistica.

E’ per porre rimedio a questi inconvenienti che esistono le banche centrali, e non per salvare i falliti. I falliti devono fallire ma cio’ non toglie che individuare i “falliti reali” sia compito arduo in un’ economia a alta finanziarizzazione.

Chi fa per sè…

… forse non fa proprio per tre, ma…

Il lavoro di gruppo spesso è controproducente: consultarsi frequentemente con altri porta fuori strada:

A neat experiment at Nottingham University shows how consultation can be counter-productive.
They got subjects to say whether a couple of paintings were by Paul Klee or Wassily Kandinsky. The subjects were split into two groups. One group comprised individuals making their own decisions. The other comprised individuals who were assigned to teams of six and allowed to consult team members.
And members of the teams did worse. Whereas only 29% of individuals got both paintings wrong, a whopping 51% of team members did so - twice as many as you‘d expect by chance.
There was, however, no significant difference in the proportions getting both questions right: 38% of individuals versus 36% of team members.
Consultation, then, increases the chances of a bad decision, without improving the chances of a good one. What’s more, people don’t realize this; most said that they found the consultation process helpful.

Lisa Evanss

Il “lavoro di squadra” tende a essere sovrastimato, su questo punto la retorica ci ha lavorato ai fianchi per benino. Eppure ci sono parecchie patologie legate al pensiero di gruppodistorsioni ben note agli psicologi ma che nel fervore di molti proclami torna utile sottostimare.

Non voglio con questo attentare alle vacca sacra della cooperazione. Per carità.

Ce n’ è comunque abbastanza per farsi bastare la “cooperazione volontaria” respingendo strane idee comunitarie dal sapore utopico.

martedì 25 ottobre 2011

Le Università sono fatte per imparare? No. Prova n. 13

Tempo fa ci chiedevamo: ma perché l’ on line e l’ information technology non rivoluzionano il mondo delle università?

Sembra incredibile ma mia nipote frequenta l’ ateneo esattamente come facevo io: avanti e indietro sui treni, magari con un’ ora di lezione fissata al mattino e una al pomeriggio (le quattro in mezzo girovagando in cerca di un angolino per studiare che sia il meno scomodo e freddo possibile).

Eppure, standosene a casa, potrebbe assistere comoda (molto di più che in presenza) alle lezioni dei professori più prestigiosi del mondo. Riascoltarsele e studiare al calduccio nella sua cameretta cominciando da subito senza perdere tempo. Magari interagendo con una compagnia scelta. Magari ordinando, ripetendo e personalizzando gli ascolti come si crede.

A costi bassissimi, la crema intellettuale potrebbe far lezione a moltissimi studenti sparsi in tutto il mondo. Eppure una rivoluzione del genere non sembra essere affatto all’ orizzonte.

Nelle nostre Università, tutto scorre placido, esattamente come se niente fosse successo.

Si potrebbe fare a meno di gran parte della classe docente e di gran parte dell’ “hardware” universitario (immensi e prestigiosi palazzoni stipati di libri e dalla manutenzione costosissima).

Wary Meyers

Questa affermazione potrebbe far drizzare le orecchie, ma io non penso che il blocco innovativo sia da imputare esclusivamente a resistenze di “casta”.

La risposta all’ enigma, per quanto sgradevole, mi sembra invece piuttosto facile: evidentemente le Università hanno poco a che fare con l’ istruzione di chi le frequenta. Il loro obiettivo è un altro.

Ma d’ altronde, basta fare un minimo di introspezione per accorgersene.

Gran parte delle abilità richieste vengono acquisite sul posto di lavoro. Dài, guardiamoci negli occhi, per chi non è così? Il sapere acquisito all’ università, se mai c’ è stato, è da subito remoto e perduto per sempre.

Non voglio con questo insinuare che le Università siano inutili: operano pur sempre una costosissima cernita molto apprezzata dalle aziende.

Per esempio, il sistema universitario indica quali sono i ragazzi più docili, coscienziosi e conformisti. Almeno le università più dure.

Chi non lo sottoscriverebbe?: bisogna avere un’ indole del genere per sopportare anni e anni di duro studio.

Questa informazione, lungi dall’ essere secondaria, è molto valorizzata da chi assume (provate a portarvi in casa un semi-teppista lunatico, magari anche intelligentissimo).

Certo, il costo per ottenere la cernita di cui sopra è decisamente sproporzionato, ma è anche “nazionalizzato” e quindi questo genere di sprechi non interessa il datori di lavoro.

Le aziende, dunque, sono molto sensibili alle informazioni che ricevono dalle università, conviene sempre assumere (e pagare di più) un laureato piuttosto che un diplomato. Cio’ fa sì che la laurea divenga “obbligatoria”, specie quando non si pagano i servizi ricevuti. E per lo più questo genere di servizi non si paga o si paga in misura ridotta!

Chi non vede in tutto cio’ un colossale spreco? L’ unica soluzione sarebbe quella di impedire a gran parte degli utenti di fruire del servizio (test severi all’ ingresso o innalzamento dei contributi), in modo che avere certi titoli o assumere gente con certi titoli non sia più sentito come “obbligatorio” visto che certi titoli sono riservati a un’ élite.

Quando il pc sostituirà la scuola e la domanda da cui siamo partiti non avrà più senso, forse, sarà un bel giorno.

p.s. che all’ Università non si vada né per imparare, né per insegnare è una delle tesi su cui lavora indefesso il “department of isn’t”.

lunedì 24 ottobre 2011

Il fardello dell’ Uomo Bianco

… il colonialismo ha portato al razzismo, il razzismo alla discriminazione, alla xenofobia e all’ intolleranza… gli africani, i popoli di discendenza africana e asiatica e i popoli indigeni sono stati vittime del colonialismo e sono tuttora vittime delle sue conseguenze…
Dichiarazione di Durban della Conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione e l’ intolleranza (2001)
C’ è da fidarsi di una “conferenza mondiale contro il razzismo” popolata da burocrati carrieristi in preda a mille bias che puntano in ogni direzione tranne che verso i fatti? Non siamo di fronte al solito caravanserraglio su cui incombe la presenza falsificante dell’ ONU e della storia messa ai voti?
Via dalle “puzze della politica” e verso il “profumo della storia”, mi volgo a uno dei maggiori storici contemporanei
… l’ Impero Britannico ha modellato il mondo moderno in modo così profondo che noi a volte tendiamo a darlo per scontato… senza la diffusione del dominio inglese è difficile pensare che le strutture del capitalismo liberale sarebbero entrate a far parte con tale successo in tante diverse realtà economiche… gli imperi che adottarono modelli alternativi – il russo e il cinese – imposero ai popoli assoggettati sofferenze incalcolabili… senza l’ influenza del dominio coloniale britannico, è difficile credere che le istituzioni della democrazia parlamentare sarebbero fiorite nella maggioranza degli stati del mondo… nel diciannovesimo secolo l’ Impero è stato un pioniere del libero commercio, della libera circolazione dei capitali e, con l’ abolizione della schiavitù, del lavoro libero… l’ Impero ha investito somme immense nello sviluppo di una rete globale di comunicazioni… ha diffuso e imposto a forza la legge in vaste zone dove regnava il caos… pur combattendo molti conflitti isolati, ha garantito un periodo di pace globale ineguagliato prima e dopo… è incredibile pensare come l’ Inghilterra potesse regnare sul mondo con una spesa per la difesa relativamente contenuta (3% del PIL)… l’ impero favorì l’ emigrazione da e verso la madre patria, l’ emigrazione, a sua volta, concorse a migliorare le condizioni di chi stava peggio… anche nel ventesimo secolo, le alternative al modello inglese rappresentate dalle potenze tedesca e giapponese erano chiaramente peggiori… senza impero non ci sarebbe certamente stato tanto libero commercio tra gli anni quaranta del XIX secolo e gli anni trenta del XX… privarsi dell’ impero nell’ Ottocento avrebbe voluto dire tariffe doganali molto più alte ovunque… e basterebbe vedere il resto del mondo per capacitarsene… nonché le conseguenze catastrofiche del protezionismo allorché l’ impero svanì… il vantaggio economico fu dunque elevato sia per la madre patria che per il resto del mondo… lo testimonia anche la grande convergenza dei redditi prima del 1914… consideriamo anche il ruolo dell’ impero britannico nell’ esportazione di capitale verso i paesi più poveri… l’ imposizione della common law fu senz’ altro più proficua e flessibile rispetto alla legge del codice civile francese… ma la Gran Bretagna fu avvantaggiata anche dal fatto di arrivare buona ultima e occupare paesi con una debole cultura… laddove la cultura e lo sviluppo erano forti, le tentazioni del saccheggio presero il sopravvento… in breve, l’ Impero Britannico ha dimostrato che quella imperiale è una forma di governo internazionale in grado di funzionare bene con reciproci vantaggi…
Niall Ferguson – Impero
Insomma, i serenissimi monarchi forgiati nel mito erano fiaba per i poveri di spirito, cio' non toglie che quelli reali fossero così disprezzabili come l' inerzia passiva di una pigra abitudine ci induce a credere…
Super Realistic Disney Princesses
Un libro provocatorio che lascia il libertario pacifista appiedato e senza bussola: da un lato aborre ogni interferenza nella vita (politica) altrui, dall’ altra non puo’ negare che se i valori a lui più cari hanno trovato una qualche diffusione nel mondo, questo lo si deve anche all’ azione di un Impero relativamente illuminato come quello britannico.
Come riconciliare allora il suo innato desiderio di “vivi e lascia vivere” con i buoni risultati ottenuti grazie all’ “esportazione con le armi della civiltà vittoriana”?
Esiste o non esiste il" “fardello” (= dovere di civilizzare chi è rimasto indietro) di cui parla - in modo oggi inaccettabile nella forma ma ancora attuale nella sostanza - il bardo imperiale Rudyard Kipling?:
Caricatevi del fardello dell’ Uomo Bianco
Inviate i vostri uomini migliori
Costringete i vostri figli all’ esilio
Al servizio dei vostri prigionieri
Al servizio, sotto il peso del giogo
Di gente irresoluta e selvaggia
Dei vostri torvi sudditi appena catturati
In parte diavoli, in parte bambini
Caricatevi il fardello dell’ Uomo Bianco
E con esso della ricompensa antica:
Il biasimo di quanti rendete migliori
L’ odio di quanti proteggete…
Sembra quasi che alla domanda di cui sopra si debba rispondere un risoluto “no” per poi agire come se avessimo risposto “si”.
Sempre la solita (e inaccettabile) storia.
Niall Ferguson - Impero

sabato 22 ottobre 2011

Contro-non-informazione

Al Corriere della Sera c’ è solo una persona che lavora in modo più approssimativo di Luigi Offeddu: il titolista degli articoli di Luigi Offeddu.
Recentemente, l’ ineffabile coppia di “creativi” ci ha reso edotti che in Ungheria la schiavitù degli zingari è diventata ormai legge di stato:

I ROM AI LAVORI FORZATI INIZIATIVA CHOC IN UNGHERIA

Probabilmente il giornalista non avrebbe voluto farlo, ma purtroppo, dopo un titolo tanto bello e accattivante, è stato costretto anche a scrivere l’ articolo e in esso qualche notizia in più ha dovuto pur fornirla. Si viene così a sapere che l’ espressione “lavori forzati” ha un significato innovativo; vuol dire, tradotto, che il disoccupato perde il sussidio statale se rifiuta le offerte di lavoro ricevute. E in genere non gli offrono di dirigere una banca. Procedura alquanto comune anche nei paesi più evoluti (non da noi, ma per il semplice fatto che spesso un sussidio del genere nemmeno è previsto).
Un significato simile, più che “innovativo” è… “inventato”, ne convengo.
Ma che dire dell’ odioso taglio razzista di una legge del genere?
Sbollite pure il vostro odio. Sempre nel corpo dell’ articolo, ben occultata in una dipendente relativa di terzo grado, c’ è l’ affermazione che potrebbe tranquillizzarvi: la norma riguarda i disoccupati sussidiati nel loro complesso, e gli zingari c’ entrano solo perché costituiscono una fetta importante della categoria.
Intanto, mentre noi poveri scemi cerchiamo faticosamente di mettere insieme le tessere della “vicenda choc”, quelle volpi di Offeddu e del suo titolista ci hanno indotto ancora una volta a leggere l’ ennesimo articolo-trappola. Accidenti a loro e a me che non imparo mai la lezione.
Stamane, poi, ho avuto quasi paura che l’ ineffabile Offeddu avesse trovato un concorrente intestino nella Mangiarotti, altra cronista del Corrierone. Quest’ ultima ha raccontato con phatos una storia simile alla precedente, accaduta però nei confini patri: a Settimo Torinese. Il Comune offre lavoro ai disoccupati, ma chi rifiuta… zac… perde il sussidio.
In lontananza, si sente anche nella Mangiarotti la voglia del buon giornalista di evocare scene in cui, messi ai ferri, alcuni omoni in pigiama a strisce picconano le rocce trascinandosi dietro palle di ferro da una tonnellata. Fortunatamente, la giornalista si riprende fino al punto di accennare alla fonte d’ ispirazione: il “modello tedesco di welfare”. No, un errore del genere Offeddu non l’ avrebbe mai commesso, dovendo proprio citare il rigore teutonico, come minimo una strizzatina d’ occhio e un piccolo riferimento ad Auschwitz l’ avrebbe buttato lì in qualche modo.
***
In ospedale e nel corso della mia convalescenza ho letto spesso il giornale uscendone spossato, frustrato e impoverito da lunghissime e infruttuose rassegne. In qualche modo è stato comunque istruttivo, perché l’ avvilente esperienza mi ha elargito una consapevolezza per me nuova: se nelle dispersive società di inizio millennio esiste una vera e propria perdita di tempo, questa riguarda la lettura dei giornali. Non avevo mai notato quanto poco siano in grado di darti i giornali, forse ancora meno della televisione. E parlo dei più blasonati (Corriere, Stampa, Repubblica…), mica dei rotocalchi spazzatura. Se solo ne stampassero una copia a settimana di pari mole (ma forse anche, oso dire, una all’ anno) il nostro “aggiornamento” non ne risentirebbe granché, anzi, forse migliorerebbe. Ricordo una ricerca da cui risultava che i broker di borsa più informati e efficienti erano quelli che contingentavano rigorosamente la lettura dei giornali di settore.
Una società civile e laboriosa dovrebbe limitarne la circolazione. Invece li finanzia!
La cosa vi suona strana? Anche a me. Ma vi assicuro che non sono l’ unico a pensarla così.
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p.s. con queste considerazioni, si badi bene, non voglio negare la funzione di cagnolini di compagnia che rivestono i giornali; a tutt’ oggi, mentre trangugio cappuccino & brioche, non riuscirei a privarmi del giornale e del modo seducente in cui fa ronzare i titoli nel mio cervello semicosciente (specie quando intacco la crema).

venerdì 21 ottobre 2011

La Vergine delle pernici ci benedice con gli occhi

Andrej Sokurov – Arca russa

Come visitare un museo in epoche come la nostra in cui tutto scarseggia (tempo, calma, concentrazione…) tranne la materia prima?: nessuno puo’ accusarci di aver trascurato la questione, ma ora urge appendice.

L’ Hermitage, autentico cratere che erutta bellezza e ribolle genio, puo’ essere visitato, per esempio, imbarcandosi sul caparbio piano sequenza del regista russo Andrej Sokurov. Sarà una crociera indimenticabile.

Primo consiglio: convertirsi prima di obliterare l biglietto.

Com’ è mai possibile camminare con profitto in un museo europeo senza farsi cattolici almeno per il tempo della visita?

Secondo consiglio: assumere un tono elitario.

Dovete fare dello sfarzo un bisogno primario e del lusso un elemento di sostentamento. Inorridite all’ eguaglianza e tenete sempre il naso arricciato e all’ insù ostentando trascuratezza per la formicolante e maleodorante plebe che si agita epilettica ai vostri piedi. A ogni europeo la cosa dovrebbe risultare facile, non si tratta in fondo di democratici che di notte rimpiangono la monarchia? Non si tratta di umanità che sogna un mondo rallentato da riposanti rituali tonificatori dell’ animo, un mondo dove ci si sapeva prendere il tempo per salutare, pranzare, chiedere scusa (nel video sotto le scuse dello scià di Persia allo Zar), lodare, morire…

Senonché, percorrendo i saloni del museo di Pietroburgo, il passato ci frana addosso da ogni lato rischiando di polverizzare le chimere, anche se ci siamo immunizzati iniettando fede e sangue blu nelle vene. Soccorre a questo punto l’ amico Sokurov. Sotto la preziosa egida del Maestro, l’ inevitabile elemento dispersivo di queste rassegne eteroclite (fonte di tanto malessere per un visitatore che - ancora contaminato dallo scrupolo pedante di secoli lunghi e lenti – pensa più a cio’ che perde che a cio’ che degusta) si trasforma in levità che rigenera lo spirito.

Con lui abbiamo l’ impressione di non perderci più niente, nemmeno i famosi gatti dell’ Hermitage. Siamo api laboriose che svolazzano da un fiore all’ altro cariche di nettare.

Non male il cambio di registro per un autore segnalatosi in precedenza come esperto nell’ imbalsamazione.

Evidentemente la sua tavolozza è estesa e consente di attingere colori molto differenti tra loro.

L’ indolenza slava, poi, è un toccasana per surfare sulla bellezza (quando è troppa), per schivare la pesantezza dei capolavori che incombono da ogni parte. Dovete pensare che un odore d’ olio e di cornici - fonte di nobili emicranie - ammorba chilometrici corridoi privi di piazzole e valvole di sfogo: mai una banalità, una pausa pubblicitaria, un mikebongiorno… sempre in vetta, sempre in vetta con il respiratore artificiale.

Fortunatamente, il nostro duce è maestro nel “compensare”: alla bellezza stagnante del museo si contrappone il petulante brio dei dialoghi ondivaghi che si intersecano su più piani, una vera polifonia del pettegolezzo punteggiata da splendide allucinazioni sonore quanto mai pertinenti: pianoforti, orchestre, cembali… sempre con la madre Russia sullo sfondo.

E’ un trionfo del flusso e del deflusso (vedi scena finale: l’ uscita dal ballo), un apoteosi dell’ amalgama, siamo tutti coinvolti in un avvolgente abbraccio rubensiano, e a una grassa pennellata rubensiana assomiglia anche il piano sequenza su cui stiamo in arcione dall’ inizio alla fine (battuti tutti i record!).

Come se da dietro le quinte una Vergine delle pernici mettesse in comunione tutto cio’ che addocchia.

madonna

Spente le luci della ribalta, rientriamo poi mesti nei nostri alloggi seriali, Un dubbio ci assale: siamo stati esposti alla bellezza o alla rappresentazione della bellezza? Lasciamo al filosofo perdigiorno, protagonista del film, il compito di dipanare la matassa; ora meglio appisolarsi alla svelta, il telefonino vibrerà alle 6.38 e - in questo mondo di scarsità da cui la Vergine troppo spesso distoglie lo sguardo - ho i minuti contati per raggiungere il diretto delle 7.22 al terzo binario. Ci sarà il solito sciopero del Venerdì?

giovedì 20 ottobre 2011

Rock tributario

I ciapp-ter 11 in “amore indeducibile”:

Department of Isn’t

David Stove – Darwinian fairytales
Ricordate David Stove?… Qualcuno ha detto che leggerlo è come veder danzare Fred Astaire. Ebbene, ho voluto concedermi un giro di walzer in sua compagnia.
In questo libro lo sfavillante filosofo non nasconde la sentita disistima che nutre per certo darwinismo e in genere per quelle teorie che hanno sempre una risposta a tutto; il che, ci viene detto, è un pessimo segnale per chi ambisce allo status di “scienza”.
Sono le cosiddette puppet-theory: voi siete pupi manovrati da un invisibile puparo. Che poi il puparo sia l’ “inconscio”, la “classe” o i “geni”, poco importa.
Non di rado, si osserva, quando il paradigma darwiniano incontra difficoltà nel rendicontare i crudi fatti, l’ adepto finisce per prendersela con i fatti stessi e passa repentinamente quanto tacitamente dal registro relativo all’ “essere” a quello relativo al “dover essere”.
Purtroppo di fatti che “creano problemi” ce n’ è una caterva. In questo voluminoso tomo ci si limita a prendere in considerazione quelli che iniziano con la “a” (aborto, alcolismo, altruismo, ascetismo, adozione…).
Precisiamo solo una cosa per non ingenerare equivoci: il libro non parla di biologia, non s’ indaga sull’ origine della specie. Ci si limita a far notare come i caposaldi della teoria di Darwin non spieghino affatto la storia conosciuta dell’ uomo (e dici poco!), limitandosi ad alternare verità ovvie a scioccanti falsità, roba a cui nessuna persona istruita potrebbe mai prestare fede in modo serio. A meno che non faccia finta, il che capita spesso, specie tra i più preparati.
L’ interesse è dunque sull’ “uomo” e sulle “società umane”. Ovvero, in termini darwiniani, su sociobiologia e psicologia evolutiva.
Risiede in questi saperi un dilemma genuinamente darwiniano, provate a pensarci: da un lato l’ evoluzionismo è maledettamente plausibile, dall’ altro la vita dell’ uomo come la constatiamo non è affatto quella sfrenata competizione per sopravvivere che dovrebbe essere.
Ryan McIlhinney neo luce dei fumetti
Come riconciliare tessere che non vogliono sapere in alcun modo di incastrarsi?
C’ è chi si limita a convivere con il dilemma: si tratta di coloro che hanno frequentato un buon college e non se la sentono di rinnegare la prima affermazione (gliel’ hanno instillata con dovizia di particolari persone tanto distinte e a modino, e ora ne vanno molto fieri). Cio’ non toglie che, per quanto miopi, abbiano ancora occhi sulla testa per vedere confermata anche la seconda.
Sto parlando dei “soft man”.
L’ “hard man”, invece, ingaggia la sua battaglia personale con i fatti: l’ uomo “dovrebbe” competere di più per la sua sopravvivenza, altro che balle! Al diavolo ospedali, preti, soldati, filantropia!… se mandiamo “al diavolo tutto”, i conti quadreranno.
Nello stesso Darwin covava probabilmente un “Hard man”. La nipotina Gwen Ravatar, nel suo libro di memorie, ritraeva un nonno completamente privo della capacità di relazionarsi con persone dall’ umile condizione, dalla salute precaria o dallo spirito religioso. Come escludere che fosse all’ opera una sorta di rimozione tesa a “far quadrare i conti”?
Infine c’ è il “cave man”: secondo lui una volta l’ uomo “lottava” egoisticamente per la propria sopravvivenza. “Una volta”, oggi il giro del fumo è ben diverso: ci siamo civilizzati e certi e cose non si fanno più.
Quando parla il “cave man”, l’ “hard man”, per quanto suo correligionario, si sente mancare e mette una mano sul volto in modo da mascherare lo scoramento, poi scalpita e diventa viola dal livore. Come dargli torto: tirare una riga e dire che “la teoria vale fino a qua” getta tutto nel ridicolo e sortisce un effetto controproducente.
Tutto, in fondo, puo’ essere ricondotto al problema dell’ altruismo. Purtroppo circolano tra noi uomini che hanno tutta l’ aria di essere altruisti… e questo non è ammissibile!
Il fatto che esista qualcosa del genere è piuttosto imbarazzante e come dice solennemente Wilson (suscitando i frizzi di Stove): “la cosa richiede ulteriori approfondimenti”.
Il dott. Dawkins non riesce per esempio a rassegnarsi al fatto che mamma gibbone s’ intristisca allorché un’ altra femmina del branco gli rapisce la prole per adottarla. Ma come? La pratica è diffusa da sempre, il “rapito” sopravviverà altrove concedendole la libertà di accoppiarsi nuovamente riproducendosi prima del previsto. Meglio di così?! Eppure la mamma “liberata” si aggira melanconica e non trova pace. E non trova pace neanche il dott. Dawkins che si rigira a sua volta nel letto sudato in cerca di riannodare fili che ormai vanno per conto loro. Pensa al suo giocattolino tanto bello che quella stupida scimmia ha disfato inopinatamente. Per parafrasare Wilson: “la cosa richiede ulteriori approfondimenti”.
Ammettiamo di stare uno di fronte all’ altro carichi del nostro egoismo darwiniano e ammettiamo che la mia azione dipenda dalla tua e viceversa… e viceversa, e viceversa, e viceversa… In questo gioco di specchi la conoscenza è limitata e in una condizione del genere, non si sa affatto come sia meglio agire, cosicché qualsiasi strategia egoistica conserva una sua plausibilità, anche la strategia di “comportarsi come un altruista”. Puo’ essere strategica persino la capacità di resettare la propria coscienza per depurarla dalle volizioni egoistiche dimenticando così chi si è realmente in origine.
Seguendo una traccia del genere è facile spiegare in termini egoistici l’ altruismo, anche quello più sentito e sincero! In altri termini: noi siamo sinceri ed esprimiamo desideri autentici solo quando siamo egoisti, il resto (quello che non rientra nello schemino) è pura illusione creata ad arte. Roba che noi crediamo di fare e di vedere ma che non esiste (in quanto non contemplata).
Detto questo, non abbiamo risolto però un bel niente.
Abbiamo solo dimostrato che, in termini darwiniani,… possiamo spiegare tutto!
Se siamo a corto di spiegazioni e - forse perché siamo un po’ cinici amiamo l’ allure darwiniana - possiamo pescare questa “spiegazione” tra le molte disponibili sul mercato. Se abbiamo invece altri gusti, ci serviremo presso un’ altra bottega. Ma cio’ non ci evita di tornare alla considerazione inziale: avere una teoria che spiega tutto a priori non è certo un buon segno per chi ambisce fare della scienza.
Anche il Santo in fondo sa benissimo che rischia sempre l’ esibizionismo (banale verità). Tutti lo sanno, ma pochi honest truth seeking negherebbero che esista anche solo in piccola parte qualcosa come la santità! Negarlo equivarrebbe ad affermare una scioccante falsità. E basta una parte davvero piccola per mettere in crisi i bulldog di Darwin.
Ricordo che Tyler Cowen prendeva amabilmente in giro il suo collega evoluzionista Hanson dicendo che lo avrebbe nominato a capo del Department of Isn’t”.
Infatti, quando l’ evoluzionista integrale non riesce a darsi ragione di una certa azione umana che si prefigge X, dice che in realtà si prefigge Y: si fa una certa cosa ma in realtà si vuole camuffare l' intenzione di farne un’ altra. Ed è proprio cio’ a cui si dedica giorno e notte il vecchio buon Robin:
Food isn’t about NutritionClothes aren’t about ComfortBedrooms aren’t about SleepMarriage isn’t about RomanceTalk isn’t about InfoLaughter isn’t about JokesCharity isn’t about HelpingChurch isn’t about GodArt isn’t about InsightMedicine isn’t about HealthConsulting isn’t about AdviceSchool isn’t about LearningResearch isn’t about ProgressPolitics isn’t about Policy… no sex?  Can that somehow be signaling to get more sex?…
Il che in parte è senz’ altro vero, non bisogna essere ingenui. Ma solo in parte!
La parte che manca, ci dice Stove, è un bello sbrego proprio nel bel mezzo di una teoria per il resto tanto carina come quella darwiniana.

mercoledì 19 ottobre 2011

La si spara sempre molto meno grossa di quanto si vorrebbe

C’ è chi odia le generalizzazioni e te ne fa una colpa quando le introduci nella discussione; spesso si tratta di interlocutori che, forse perché molto concentrati su se stessi, cadono facilmente vittime della cosiddetta “subjective validation”.
In altri termini, devono personalizzare tutto, anche quando il discorso ha senso solo se fatto “in generale”.
Non c’ è pensiero rigoroso che non ricorra a generalizzazioni e approssimazioni, e con questo non voglio dire che saper “leggere” una generalizzazione sia facile.
Sì, perché chi rifiuta d’ istinto le “generalizzazioni”, spesso, non sapendo bene cosa siano e come debbano essere trattate, si sente indebitamente offeso quando se le trova di fronte in tutta la loro apparente sgradevolezza.
Sui blog un po’ frettolosi come questo (ovvero compilati a tempo perso nella pausa caffé), capita spesso di fare affermazioni generali dal carattere molto forte.
Le DONNE sono meglio degli UOMINI nel fare X.
I BIANCHI sono meglio dei NERI nel fare Y.
I RICCHI svolgono meglio dei POVERI il compito Z.
E via dicendo.
Ma attenzione nel valutare come scioccanti queste uscite, si tratta pur sempre di classificazioni dalla valenza “statistica”, bisogna intendersi e saperle leggere.
Se dico che i “viola” adempiono al compito X meglio dei “verdi”, ho in mente quasi sempre una relazione del genere:
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[sull’ ascisse misuro la prestazione e sulle ordinate le frequenze]
Ammettiamo adesso che “viola” corrisponda a “uomini” e “verde” a “donne”.
Ammettiamo poi che si misuri l’ attitudine a evitare errori da subjective validation.
Ebbene, in questo caso dire che “gli uomini (statisticamente) eludono meglio delle donne l’ errore da subjective validation” è perfettamente compatibile con l’ affermare che“esistono molte donne che eludono molto meglio di molti uomini l’ errore da subjective validation”.
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P.S. Spero che i chiarimenti forniti siano utili anche ad apprezzare in rilassatezza la fulminante quanto famosa barzelletta: Lui: “voi donne personalizzate sempre tutto!”. Lei: “io no”.

DISCLAIMER RDP: Ragiona in termini di Distribuzione Probabilistica