mercoledì 20 luglio 2011

Un artista emotivo nella stanza dei bottoni

Eric-Emmanuel Schmitt – Il posto dell’ altro

“Adolf Hitler: respinto”

Il verdetto piombò su di lui come un righello d’ acciaio sulla mano di un bambino.

“Adolf Hitler: respinto”.

Hitler si guardò intorno, decine di adolescenti con le orecchie congestionate, la mandibola contratta, il corpo allungato sulla punta dei piedi, le ascelle sudate per la tensione, ascoltavano il bidello che salmodiava i loro destini. Nessuno faceva attenzione a lui. Era in corso una tragedia immane e nessuno se ne sarebbe accorto… un annuncio esplosivo che squarciava l’ universo: Adolf Hitler, respinto.

La loro indifferenza era tale che quasi quasi Hitler dubitava di aver sentito bene. Sto male, una lama gelida mi lacera il torace fino alle budella, sto perdendo sangue e nessuno se ne rende conto. Nessuno vede il dramma che mi è rovinato addosso. Sono dunque solo sulla terra a vivere con questa intensità? E’ davvero lo stesso il mondo in cui viviamo noi tutti? Nel frattempo, il bidello - giusto quel tipo di idiota che si terrorizza per un topolino - convinto di aver annunciato la verità si ritirò.

Hitler avrebbe potuto essere diverso da come fu, e, in ogni caso, non fu nemmeno il mostro che molti ritengono.

Per ficcarlo bene in testa ai suoi lettori Eric-Emmanuel Schmitt intercala due storie: quella reale e quella che esordisce con una lieta notizia (l’ ammissione all’ Accademia delle Belle Arti di Berlino) per chiudersi poi con un happy end nientemeno che in California.

Non sfugge a nessuno che il protagonista è il medesimo in entrambe le vicende: stessi pregi e stessi difetti.

Un tale che, sebbene non passi inosservato, non puo’ nemmeno essere definito come un individuo eccezionale, fuori dalla norma, o ancor peggio un bruto senza pari.

E’ invece persona tutto sommato normale. Normale come il male.

Dopo la lettura sapremo che un male normale contenuto in un cuore umano normale puo’ riempire un intero continente.

Di questo cuore possiamo farne la caricatura per sgravarci la coscienza, ma è una tattica perdente in partenza. Ce ne rendiamo conto saggiando la naturalezza con cui si snodano le vicende, entrambe plausibili.

Si tratta dunque di un uomo. E se è un uomo, è il nostro prossimo; il romanzo mira a spingercelo addosso, a farci sentire questa imbarazzante prossimità.

Figlio di un impiegatuccio violento e polemico, il ragazzo magro dal colorito cereo guardava adorante alla mamma  e si riteneva un puro, un idealista. il suo orrore per i contatti fisici è noto. Così come è nota la sua delicata psicologia: una mente ipersensibile in grado di dare tanto se sotto l’ influsso dell’ esaltazione ma sempre così pronta a ripiegarsi se spinta a dubitare.

Ad alimentare l’ imbarazzo il suo amore per le arti, per la cultura, per gli animali.

Non fu nemmeno antisemita finché non gli convenne esserlo: la sua gioventù pullula di frequentazioni pacifiche con amici ebrei.

Le turbe abbondano, questo è vero: l’ uomo è sempre intento a sopravvalutarsi e a scavare tra sé e gli altri un fossato che renda difficile ogni confronto e, al tempo stesso, credibile l’ enorme auto considerazione.

Odiava l’ imprevedibilità della competizione ma soprattutto i suoi esiti e le sue graduatorie, per difendersene divenne un esperto razionalizzatore: lui non aveva fallito negli studi, li aveva sabotati perché chiamato ad incarichi più elevati; non aveva passato anni a vagabondare nei ricoveri dei poveri, aveva condotto una vita sua bohème. Questo metodo gli consentiva di ricostruire la sua storia insignificante come se fosse un’ opera wagneriana.

Non saremo certo noi a scandalizzarci per il ricorso a trucchetti del genere, noi che sul blog passiamo tanto tempo a stimare la pervasività della dissonanza cognitiva.

Suvvia, chi non ha creduto di essere un campioncino per il solo fatto che spadroneggiava nel proprio cortile? e chi non ha opposto resistenza a chi ci spingeva fuori da quel cortile?

Sessualmente era un po’ pervertito, d’ accordo. Nulla di grave, viviamo in epoche che hanno ampiamente riabilitato ogni forma di perversione. L’ uso della parola stessa è un azzardo.

Siete pronti ad abbinare mostruosità e delicatezza d’ animo? Siete portati a scovare il serial killer in colui che trepida fino allo svenimento di fronte al corpo nudo dell’ amata? E’ un collegamento che non approntiamo tutti i giorni, ma nel libro è un leitmotiv.

Nella corte del fuhrer in erba per gli spiritosi la vita era dura, le rappresaglie sempre in agguato. Ma in ogni setta, si sa, le cose funzionano così.

Né il narcisismo, né la seriosità, né la perversione saranno mai capaci di rendercelo un marziano.

Anzi, un’ ondata empatica ci sorprende allorché ci imbattiamo, per esempio, nei suoi stentati esordi da oratore. Parlare in pubblico era per lui un dramma, balbettava, ciancicava e s’ incaponiva in patetici tentativi nonostante persistesse in lui una sorta di afonia emotiva: non gli usciva mai niente se non sudore e una sorta di imbarazzo mischiato con la sensazione di essere un intruso.

Finché un giorno non capì che per la sua indole era essenziale rivolgersi ai sentimenti negativi delle persone. Gli fu chiaro nel corso dell’ apprendistato in qualità di “agitatore da birreria”, il suo carisma funzionava se c’ era un rancore da grattare, una crosta da togliere, una cicatrice da riaprire. Nulla di buono poteva produrre in occasione di un brindisi matrimoniale o di una commemorazione funebre.

Ma poi, l’ affascinante contrasto tra l’ oratore vigoroso e l’ uomo timido, goffo, con l’ educazione impostata piena di salamelecchi viennesi, cominciò a sedurre ammiratori di differente estrazione.

E anche qui, che c’ è di strano?

Ogni mago della retorica ha le sue tonalità predilette. Chiedete a Cioran di modulare un auspicio. Il suo sapiente francese cadrebbe miseramente in frantumi.

Dopo la “rivelazione” non furono in pochi a considerarlo solo una chiassosa grancassa. Ebbene, anziché perdere tempo nei risentimenti ebbe la scaltrezza di cogliere tutti i vantaggi che comporta l’ essere sottovalutati.

Gridò talmente forte che lo sentirono e lo votarono da tutta la Germania. Lo avevano trovato convincente. In democrazia un gioco aggressivo e limpido è quasi sempre vincente.

Al pericolo si dimostrarono tutti sordi: le responsabilità di governo lo avrebbe calmato, si pensava. Purtroppo mancava un tassello fondamentale alla consapevolezza degli elettori: avevano eletto un artista emotivo, mica un politico.

Credeva in buona fede ai suoi  ragionamenti grossolani. Grossolani ma efficaci. Era il primo ad entrare in estasi sentendosi parlare, a meravigliarsi della facilità con cui passava dal lirismo alla virulenza, a lasciarsi sorprendere dall’ energia che sprigionava.

Nella sua mente, poi, i discorsi non finivano mai costringendolo ad una vita interiore dall’ intensità inusitata. Assomigliava sempre più ad un posseduto costantemente attraversato da idee ingegnose e strane. Una fabbrica della realtà a getto continuo. L’ audacia delle sue pensate lo spossava.

La passione per i libri ed i concerti musicali assumeva livelli parossistici, processo tipico nell’ autodidatta. Se avesse potuto uscire dal bunker sarebbe andato a teatro.

A questo punto è giunto il momento di chiedersi se le sommarie informazioni appena esposte ci impressionano e ci fanno presentire la catastrofe.

Spero di no! Di fronte alle turbe che affliggono altri memorabili personaggi della letteratura quelle riferite sono acqua fresca. Giusto buone per rendere interessante una figura di cui si dovrà parlare per quattrocento pagine.

hitler-rug

Ma Eric-Emmanuel Schmitt ci chiede di più, ci chiede di entrare in intimità con Hitler. Io, nonostante l’ indubbia abilità dello scrittore, non ci sono riuscito. Mi sono sempre mantenuto al di qua di un’ invalicabile intercapedine.

E’ un problema che mi porto dietro quando leggo libri di storia romanzata, persino le auto-fiction mi lasciano freddo. In fondo è la medesima difficoltà che m’ impedisce di ascoltare la quinta di Beethoven: l’ eccessivo imballaggio reifica la musica.

Eppure, lo stesso romanzo con al centro una persona di pura invenzione avrebbe funzionato. Perché non è stato scritto?

Forse perché Eric, come ammette nel diario in appendice al romanzo, si è sentito dire troppe volte da amici e parenti di rinunciare al pericoloso progetto; a quel punto, si sa, l’ artista non puo’ più esimersi.

martedì 19 luglio 2011

Steven Landsburg: esiste una responsabilità verso le generazioni future?

Ottimo esempio che manda nel pallone la cosiddetta etica laica.

… the following question seems to me to be of both supreme importance and supreme difficulty: Do living people have any moral obligation to the trillions of potential people who will never have the opportunity to live unless we conceive them?

The answer is surely either "yes" or "no," but either answer leads to troubling conclusions. If the answer is "yes," then it seems to follow that we are morally obliged to have more children than we really want. The unconceived are like prisoners being held in a sort of limbo, unable to break through into the world of the living. If they have rights, then surely we are required to help some of them escape.  

But if the answer is "no"--if we have no obligations to those imprisoned souls--then it seems there can be no moral objection to our trashing Earth, to the point where there will be no future generations. (That's not to say that we'd necessarily want to trash Earth; we might have selfish reasons for preserving it. I mean to say only that if we ever did want to trash Earth, it would be morally permissible.) If we prevent future generations from being conceived in the first place, and if the unconceived don't count as moral entities, then our crimes have no victims, so they're not true crimes.

So if the unconceived have rights, we should massively subsidize population growth; and if they don't have rights, we should feel free to destroy Earth. Either conclusion is disturbing, but what's most disturbing of all is that if we reject one, it seems we are forced to accept the other. Perhaps there's a third way, and that's just to admit that we're incapable of being logically rigorous about issues involving the unconceived.

Come sbrogliare la matassa?

lunedì 18 luglio 2011

I 2 problemi dell’ innovazione

1. L’ innovatore non è incentivato a dovere.

Even in societies in which markets were relatively free and developed, there was rarely any proportionality between the contribution of an innovator and the rewards he or she reaped.  At least in that sense, the situation was not different from what it is today: Nordhaus (2004) has estimated that in modern America only 2.2 percent of the surplus of an invention is captured by the inventor him/herself.  Things surely looked no better in the eighteenth century. … If ever there was a divergence between social and private net benefits, the Industrial Revolution was it.  The impact of the technological elite on the rest of the economy was thus vastly larger than proportional to their size.

That is from Joel Mokyr’s The Enlightened Economy: An Economic History of Britain 1700-1850 (p.88)

2. L’ innovazione, anche se c’ è, non si diffonde.

Innovation is terribly important; it is why we are rich.  But how exactly does innovation happen?  An awful lot of innovation seems to happen via diffusion, i.e., spreading one at a time via a network of who knows who.  A recent AER paper considers three possible diffusion processes:

[Consider] situations where the [innovation diffusion] dynamics are driven from within; that is, there are internal feedback effects from prior to future adopters.  …
1. Contagion. People adopt when they come in contact with others who have already adopted; that is, innovations spread much like epidemics.
2. Social influence. People adopt when enough other people in the group have adopted; that is, innovations spread by a conformity motive.
3. Social learning. People adopt once they see enough empirical evidence to convince them that the innovation is worth adopting, where the evidence is generated by the outcomes among prior adopters. Individuals may adopt at different times due to differences in their prior beliefs, amount of information gathered, and idiosyncratic costs.

Social learning is consistent with the observed pattern of diffusion of hybrid corn, although we cannot say that it was the sole explanatory factor. We can also say with some confidence, however, that inertia and contagion were probably not the sole explanatory factors, and given Griliches’s findings neither was social influence.

I’ve been watching this innovation process up close for several years, as prediction markets slowly spread through the corporate world.  One might hope that we had central technology experts, and once they approved a new tech, everyone would adopt it.  No way.  People don’t believe something works until they’ve seen it work in something pretty close to their situation.  A media story about something far away just doesn’t say much.

Eunuchi operati male

Tyondai Braxton – Central Market -

In passato la “musica contemporanea” era meritatamente famosa per la sua musoneria; nessuno puo’ negare che si presentasse puntualmente in pubblico esibendo pose corrucciate. Già parlare di “presentarsi in pubblico” è un’ esagerazione visto che al pubblico dava le spalle quasi nemmeno fosse presente in sala. C’ era poi il mito del “work in progress”: tra la prova e la prima diventava difficile distinguere.  E poi che avarizia di suoni!: arrivava giusto qualcosa ogni tanto, e sempre appena dopo l’ abbiocco. A fine serata spesso si contavano più starnuti che note.

Chi non ama l’ odore del cloroformio e soffre le atmosfere troppo disinfettate, puo’ rifarsi frequentando l’ estetica anni ottanta del giovane Tyondai Braxton; appena lo vedi capisci subito quanto il giovanotto sia poco incline all’ austerità, la sua musica festaiola è più sgargiante di un frutto tropicale. E se la fai a fette non sporca neanche, resta compatta e rimontabile, quasi fosse costruita con il lego.

Le sue storie preferite sono scintillanti, rozze e sfilacciate quanto quelle inventate dal bimbo in vacanza che gioca da solo sul marciapiede: hanno la rapsodia colorata del cartone animato e la precarietà della fiaba che dura fin che dura la veglia del piccolo.

Predominano due gusti: il primo volgare, per la plastica; e secondo puerile, per il minuscolo.

Sugar High 1 - blog

Ottimo musicista, per carità. Ma chi se la sentirebbe di avallarlo? Innanzitutto ha sempre il singhiozzo, sintomo preoccupante; secondo poi è zoppo, sul suo stendardo sventola il simbolo della papera; quel suo modo sbilenco di procedere lascia molti perplessi, viene voglia di infilare una zeppa da qualche parte; i suoi pezzi sono infarciti di allegre collisioni, i suoni pogano tra loro senza requie (le risse non sono rare), ma non a tutti piace l’ autoscontro, molti amano altri tipi di giostra; la sua musica, infine, è piena di bulloni (spesso avvitati male), nel vorticoso taglia e cuci va sempre perso qualcosa; come se non bastasse, l’ esito finale è tutt’ altro che innocuo: ad un certo punto i colori diventano un po’ troppo colorati, cio’ che prima frizzava ora corrode, l’ allegria vira nell’ orgiastico, il flicorno trasmuta in una trombetta-party e il flicornista in una marionetta con l’ occhio sbarrato e il sorriso stampato. La sensazione di essere caduti dalla padella (la musoneria) alla brace (allegria impasticcata) fa capolino.

Braxton è un fornitore di musica con un magazzino sterminato, c’ è roba buona per sospirare, per strizzarsi le meningi, per fischiettare; spesso c’ è roba buona per fare tutte e tre le cose contemporaneamente; puoi trovarci l’ elettronica di prima generazione come la collezione di suoni autunno inverno della stagione ventura. E’ comunque roba piena di proteine e grassi insaturi: abbondano anche i coloranti; i conservanti un po’ meno, a giudicare dal sottile lezzo di marciume che si nota in sottofondo.

Se ti compri da lui una sinfonia (viene via a poco), puoi succhiarla con la cannuccia, quel che resta lo butti (resta sempre un mucchio di roba); poi ti sbrani un quartetto, l’ imponente imballaggio lo farai sparire in qualche modo. La scorza del trio per oggi la scoperai sotto il tappeto. Quando ti sgranocchi la canzone, occhio alle bucce. La musica da camera è fresca come una spremuta, si sa, ma ogni spremuta ha la sua feccia, che farne? Per questa volta buttiamola in strada; l’ hard bop si fa aspirare voluttuosamente, ma il mozzicone che ci resta tra le dita? Gettalo sull’ asfalto e gira l’ angolo alla svelta.

Ascolta, consuma e crepa. Qualcuno pulirà.

Nel mondo di Braxton fioriscono i commerci, le note sono in vendita giorno e notte e la produzione è a ritmo continuo.

L’ abbondanza è tale che i prezzi collassano come fossero in caduta libera; la gente succhia, aspira, mastica, annusa a più non posso ma non riesce a star dietro al musicista. Orifizi e pori si otturano ad uno ad uno e si dispiega lo spettacolo della voglia pazza in presenza di sensi disattivati. Sembra che circolino solo eunuchi operati in modo maldestro.

Abbondanza! I prezzi calano, si passa ai saldi tutto l’ anno, dopo i saldi scattano gli omaggi, finché non resta che macerare le eccedenze e comprimere i capolavori rimasti in eco-balle da stoccare chissà dove.

Finché ormai, resi totalmente insensibili dal bozzolo che ci serra, un giorno scopriremo con terrore che questo genere di plastiche non è smaltibile neanche col fuoco.

Siamo chiusi dentro un minuscolo pianeta e i moduli musicali di Braxton continuano ad uscire a ritmo “gioiosamente” forsennato. Il livello del blob si alza. Siamo già tutti sui tetti in attesa di elicotteri che non verranno. Aiuto!

Qualcuno si avvicina a passi felpati alla stanza del prolifico compositore sfoderando un coltellaccio, apre la porta e…

- continua -  

http://www.goear.com/files/externalpl.swf?file=c4c80c7

Ascendenti: George Gershwin - Rimskij-Korsakov - Igor Stravinsky - Frank Zappa.

venerdì 15 luglio 2011

In un mondo senza elettricità

Alexander Sokurov – Oriental Elegy

Una foglia qualsiasi cade all’ improvviso in un autunno qualsiasi.

Ma non abbastanza da sorprendere Sokurov, che la filma.

Era lì, appostato da anni ad attendere l’ evento.

Forse questo aneddoto/haiku inventato sui due piedi rende in qualche modo la poetica del siberiano.

Nel mondo del grande schermo sono in molti a diffidare della lentezza. Non Sokurov, che anela all’ immobilità.

La sua immagine cinematografica sospira di nostalgia ricordando i bei tempi in cui era solo una fotografia. Ora puo’ permettersi solo certe sfumature seppia ma per il resto le tocca di malavoglia fluire nel tempo.

L’ immobilità pura infatti non esiste e Sukorov, armato di una pietas infinita e di un occhio scrutatore particolarmente indiscreto, si dedica anima e corpo alle impurità che screziano di continuo un silenzio che non sta mai zitto.

Puo’ essere il maestoso incedere delle nebbie come la strascicata deambulazione dell’ ottuagenario, qualsiasi fenomeno in grado di dilatare i ritmi guadagna presto l’ attenzione meritandosi una delle sue proverbiali cornici.

Entriamo in un mondo senza elettricità tagliato da luci caravaggesche che sembrano rasoiate (il miope in platea continua a mettere e togliere gli occhiali); anzi, direi meglio che sembra di calarsi in una tela di Rothko: non si cerca una storia da raccontare, piuttosto uno spazio da abitare.

rot

L’ unità di tempo è rispettata come un dogma di fede, anche quando si documenta la cottura del riso.

Chi sono i protagonisti?

Innanzitutto un ruolo fondamentale spetta allo scricchiolio del parquet, ma se la deve vedere con una ruga particolarmente espressiva collocata sulla fronte della vegliarda (la geografia mobile della cute invecchiata è valorizzata a dovere). Anche la nodosità delle artritiche nocche merita una menzione speciale. L’ idraulica della deglutizione è sottoposta a peritosa indagine grazie ad enormi microfoni pelosi collocati strategicamente. Il tipico taglio oculare della mandorla giapponese non ha più misteri dopo i lunghi piani-sequenza di cui è fatto oggetto.

Manca solo lo sporco nelle orecchie.

Ma tutto puo’ diventare protagonista da un momento all’ altro e non abbiamo la minima idea di dove ci condurrà l’ ennesima infinita dissolvenza del Maestro.

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giovedì 14 luglio 2011

Charles Murray: una buona scuola lascia indietro molti bambini

… nella valutazione di molti dei nostri talenti la scuola assume un sano atteggiamento realistico… al bambino con chiare lacune cinetico-motorie viene chiesto di frequentare l’ ora di ginnastica ma difficilmente s’ investirà su di lui per farne un atleta a livello agonistico… chi ostenta fin da subito scarse doti musicali è tenuto a conoscere alcuni rudimenti ma non a tentare il conservatorio per divenire musicista… chi è sotto la media quanto ad abilità spaziale seguirà le lezioni d’ arte ma non subirà pressioni per investire le sue energie migliori in quell’ ambito… chi ha scarso controllo nelle relazioni interpersonali riceverà uno sprone se vergognoso e un’ avvertenza se aggressivo, ma tutti sono d’ accordo che è fatica sprecata puntare su questi soggetti per farne degli addetti alle pubbliche relazioni… i bambini incapaci di concentrazione saranno aiutati ad acquisire sane abitudini di studio ma ci vuole poco a constatare che per loro taluni obiettivi sono interdetti… Solo per quanto riguarda le abilità linguistiche e logico-matematiche si pretende invece che tutti facciano bene. La realtà qui viene congedata, anche quando si presenta nelle forme più nitide… Eppure sappiamo che almeno metà dei bambini non è in grado di leggere o calcolare con quella facilità che la scuola pretende da loro… questi bambini vengono tormentati per anni con pretese irrealistiche… è normale che in queste condizioni identifichino la scuola come un luogo di tormento… Parecchi di loro, molto semplicemente, non sono abbastanza intelligenti per seguire con successo un convenzionale percorso accademico… cio’ non significa che dobbiamo ostentare durezza o indifferenza, basterebbe lasciare da parte l’ ampollosa e mal fondata retorica del “leave no child behind”… Ripensate per un attimo alla vostra esperienza scolastica, probabilmente avete un buon ricordo di quando, incoraggiati da un insegnante di razza a fare qualcosa che non riuscivate a fare, avete alla fine sfondato… ma vi farà ancora male pensare a come avete deluso persone che vi sostenevano sospingendovi alla conquista di obiettivi irrealistici… Ricordo ancora di essere stato il cocco del mio allenatore di baseball, e ricordo quel tragico pomeriggio quando mi schierò come ultimo battitore nella sfida decisiva contro i Bruins… di fronte allo scetticismo generale per questa scelta a dir poco stravagante si adoperava per spendere in mio favore parole di ammirazione e fiducia in modo da incoraggiarmi a puntino… ma la realtà fino ad allora aveva parlato chiaro: io ero da sempre il punto debole della squadra… e quando presi posto sulla base  la mia performance fu la solita: un mezzo disastro… la delusione che sentivo attorno mi spezzò il cuore e ancora oggi metto piede con terrore in un campo da baseball… eppure mi ero limitato a fare quello che sapevo fare e che tutti sapevano che sapevo fare, non meritavo certo di essere punito in modo tanto efferato… pretendere che uno studente raggiunga livelli che molto semplicemente non puo’ raggiungere è crudele prima ancora che sbagliato… nessuna strategia pedagogica, nessun carico di compiti a casa, nessun miglioramento nella preparazione degli insegnanti puo’ far sue certe mete utopiche… non resta che il trucco di abbassare implicitamente gli standard girandosi dall’ altra parte… A questo punto ci sono tre ordini di obiezioni a cui vanno soggette le osservazioni fin qui svolte: 1. l’ IQ non cattura le capacità di apprendimento, 2: l’ IQ puo’ essere innalzato e 3. la scuola di oggi è talmente in pessimo stato che persino a chi è sotto la media puo’ ricevere di più anche senza che migliori le sue capacità… La risposta alle prime due sembra semplice, la terza è più impegnativa… i prossimi capitoli saranno dedicati a districare questa trama…
Charles Murray – Real Education

John Leslie

Forse il filosofo più perspicace nel difendere l’ idea di un Progetto Intelligente:

The philosopher who has occupied himself most extensively with the Anthropic Principle is John Leslie, to whom Swinburne alludes. Though self-confessedly neither a Christian nor even a traditional theist, Leslie has argued repeatedly that the observed delicate balance of conditions requisite for the existence of intelligent life at this point in cosmic history does require an explanation and that the explanation of intelligent design is superior to any alternative. He argues against those who would short-circuit the demand for an explanation by objecting that since the universe is unique, the probability of its present complexity cannot be assessed, or that though the balance of conditions in the universe is improbable, still any improbable condition will obtain once and that "once" could be the first time.20 According to Leslie, without the Many-Worlds cosmology, the claim that no explanation of the universe's order is needed is "ludicrous"; it is like a person emerging unscathed after being machine-gunned from fifty yards for fifty minutes and who shrugs off the need for any explanation of his being alive by saying that all the bullets' missing, though improbable, could happen and that he wouldn't be there to ask about it unless that possibility were realized.21 According to Leslie, the standard objections to the design argument threaten to delay the development of science, for if these objections were correct, there would be no reason for developing Many-Worlds cosmologies, which are important to science. He notes that there is no independent evidence for the existence of many worlds except for the existence of intelligent life itself and that the attraction of the Many-Worlds scenario for many scientists shows that they recognize that the fine-tuning apparently present in the universe does cry out for explanation. But the evidence for a Many- Worlds model is equally evidence for an intelligent designer. Both hypotheses are rendered more probable by the observed features of the universe than they would be in the absence of such features. This conclusion alone, it seems to me, is highly significant, for it confronts us with a dilemma, both horns of which involve heavy metaphysical commitments. Are we going to posit God or a World Ensemble? According to Leslie, this is the choice that we must make if we do not choose simply to ignore the problem. He points out that most of the Many-Worlds theories are obscure and incomplete and that the God- hypothesis is neither unscientific nor more obscure than those theories. Moreover, individual models for generating the World Ensemble can be criticized… Despite such problems, people continue to believe in Many-Worlds scenarios, opines Leslie, because they feel that without them there is no explanation of how intelligent life did originate…

mercoledì 13 luglio 2011

Concerto

Il quartetto d’ archi dei Brooklyn Rider accompagna la cantautrice Christina Courtin. Vecchi compagni di banco 10 anni prima alla Juilliard School hanno deciso che le strade intraprese non erano poi così differenti.

 

Ogni giorno…

Tra altalene e fette di prosciutto… everyday is an holly-day…

altalena che passione

AAVV - Rave On Buddy Holly

Le metafore contano… ma non troppo.

Katja Grace minimizza Lakoff.

George Lakoff has argued that metaphors underlie much of our thought and reasoning:

The science is clear. Metaphorical thought is normal. That should be widely recognized. Every time you think of paying moral debts, or getting bogged down on a project, or losing time, or being at a crossroads in a relationship, you are unconsciously activating a conceptual metaphor circuit in your brain, reasoning using it, and quite possibly making decisions and living your life on the basis of your metaphors. And that’s just normal. There’s no way around it! Metaphorical reason serves us well in everyday life. But it can do harm if you are unaware of it.

A different bike path by Moominmolly

Images also seem to play a big part in most people’s thought. For instance when I think ‘I should go home soon before it gets dark’ there are associated images of my hallway and a curve of the bike path in evening light. I wonder how much the choice of such images influences our behaviour. If the image was of my sofa instead of my hallway, would I be more motivated? If the word ‘dog’ brings to mind an image of a towering beast I saw once, am I less likely to consider purchasing a dog of any kind than if it brings to mind something rabbit sized? If ‘minimum wage’ brings to mind a black triangle of dead weight loss, am I less likely to support a minimum wage than if it brings to mind an image of better paid workers (assuming my understanding of economics and society are the same)? This seems like something people must have studied, but I can’t easily find it.

It seems likely to me that such images would make some difference. If it is so, perhaps I should not let the important ones be chosen so arbitrarily (as far as my conscious mind is concerned).

martedì 12 luglio 2011

Auction vs. Beuty Contest

La gara sostituisce il beuty contest nell’ assegnazione delle licenze TV, lo ha deciso il governo Monti.

Mossa saggia degli esperti? No, solito trucchetto per incassare il “pizzo di Stato”.

Si dirà: ma come! Lo Stato da padrone dell’ etere fa legittimamente pagare il suo uso.

E perché mai lo Stato dovrebbe essere padrone dell’ etere?

Non esistono valide ragioni visto che l’ etere non è certo un bene pubblico.

Caso mai lo è la regolamentazione che ne disciplina l’ uso, ma quella s’ incarna proprio nel “beuty contest”.

Trucchetti del genere per raggranellare quattro soldi sono comprensibili, tutto fa brodo. Ma che vengano ostentati da chi sulla fronte porta stampato: “finalmente giustizia è fatta” indigna anche chi ha smesso di indignarsi da un bel po’ di tempo.

Dentifrici e Università

Quando tra vari prodotti in concorrenza esistono solo minime differenze qualitative, la pubblicità diventa decisiva.

Siano dentifrici, detersivi o profumi, la pubblicità fa la differenza: non potendo puntare sulla sostanza si ripiega su altro. In particolare, si abbinano al prodotto degli status che siano appetibili al consumatore.

Sembra proprio che una dinamica simile spieghi la sorte di certi servizi educativi: anche qui le ridotte differenze in termini di qualità richiedono massicci investimenti pubblicitari.

Preciso subito: in questo caso il termine “pubblicità” va virgolettato. Si lavora più che altro sulla “fama”, sul “credito”, sulla “reputazione”.

Potete rendervi conto immediatamente di quanto dico mediante una piccola introspezione personale.

college

Domandatevi: in che condizioni vorrei trovarmi (o vorrei che si trovasse mio figlio)?

Due ipotesi: 1. preparazione università di Macerata e titolo Bocconi o 2. preparazione Bocconi e titolo università di Macerata?

Io non ho dubbi, scelgo il caso 1 perché ritengo che apra le prospettive più promettenti, e questo a conferma di quanto sopra: in ambito educativo l’ abito conta spesso più del monaco.

Ma la guerra non è solo fra università, anche l’ istruzione superiore in sé  investe molto in termini pubblicitari: oggi chi non ha almeno una laurea è malvisto e le stesse aziende esibiscono orgogliose il loro staff di prestigiosi plurilaureati.

Vorrei solo precisare che non depreco quel che in passato è stato chiamato “bisogno indotto”. Punto altrove il mio dito.

Tra il “dentifricio” e l’ “università”, infatti, c’ è una differenza fondamentale: nel primo caso la costruzione dell’ immagine è a carico del produttore. Ma nel secondo caso? Mi sa proprio che è a carico di tutti.

Mi sbaglio?



http://www.overcomingbias.com/2011/07/investing-in-school-signals.html

Domande alla psicologa

1. Che importanza rivestono le “regole” nell’ educazione di un bambino? Incideranno in qualche modo sull’ adulto che sarà o si limiteranno a facilitare l’ organizzazione familiare (e il benessere dei genitori)?

2. Partendo dal presupposto che le regole siano necessarie, e dovendo indicarne tre, quali sceglierebbe in ordine di importanza?

3. Come capire la differenza tra un “bisogno” e un “capriccio”?

4. Partendo dal presupposto che esistano comportamenti dei genitori dannosi per i figli, e dovendo indicarne tre, quali indicherebbe in ordine di importanza?

5. Secondo lei, il bambino medio che oggi nasce in un ambiente non patologico, rischia maggiormente di essere trascurato o sovra accudito? In altri termini, in che senso dobbiamo rettificare l’ immaginario che riceviamo dall’ambiente?

6. Qual è lo stile educativo che ci propone? Puo’ indicare, per chiarezza, un’ alternativa sostenuta autorevolmente e in buona fede che ritiene rispettabile pur se opposta alla sua visione?

Sara & Riccardo

 

Libertarianism A-Z: ambiente specie protette

Tra le politiche ambientali più popolari rientra quella volta a proteggere specie in via di estinzioni. Di solito lo si fa limitando la proprietà privata attraverso proibizioni.

Niente di più sbagliato: occorre più proprietà, non meno. Se le specie hanno un qualche valore l’ affare è certo. Qualora il mercato non riesca a protegere le specie in questione avremmo una preziosa informazione: per la società quella specie non merita di essere protetta.

L’ Africa fornisce buone conferme sul funzionamento di questa strategia.

Una politica alternativa richiede di risarcire i danneggiati. In questo caso, per lo meno, i costi sono espliciti e la voce dei tartassati potrebbe farsi sentire.

lunedì 11 luglio 2011

Profitto

Pensate ad un ospedale che lavora per produrre profitti. La cosa a molti ripugna, e lo stesso dicasi per le scuole.

Ma perché?

A rifletterci bene non esistono motivazioni convincenti per supportare in modo ragionevole questa intuizione.

Le cose stanno un po’ come per il volontariato: perché mai impegnare se stessi in forme di volontariato quando le stesse funzioni potrebbero essere svolte in modo più adeguato – nonché più economico – da un professionista?

Per me, in questi casi, la cosa più naturale è pensare ad una particolare forma di vanità.

In alternativa potrei pensare che per molti la voglia di sacrificare se stessi ha la precedenza sull’ aiuto reale da dare al prossimo.

Altre idee?

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venerdì 8 luglio 2011

Bolle e razionalità del mercato

Il classico paralogismo del dilettnte suona così: la borsa crolla, il mercato è inefficiente.

Un commento.

Do Crashes Support or Disprove 'Rational' Markets?

Noneconomists tend to think 'rational markets' is patently absurd, pointing to various asset bubbles such as the internet bubble, the recent housing bubble, or the 1987 stock market crash. That is, most people think extreme events are evidence against rational markets.
Malkiel and Shliefer once took opposite sides of the market efficiency debate in the Wall Street Journal. Dutch and Royal Shell trade on two separate exchanges. These different listings by law apportion a 60:40 split of cash flows and thus should trade as such, but indeed they vary by as much as 30% from this fundamental equivalence. Shleifer calls this a ‘fantastic embarrassment’ to the efficient markets hypothesis, yet Malkiel also notes it as being within his bands of reasonableness. To me, this highlights that much of this debate gets into semantics, and such debates are rarely fruitful (Wall Street Journal, 12/28/00).
To assert markets are irrational or inefficient, however, one needs to propose a measure of 'true value', and then show that actual market prices diverge from this. As classically worded by economists, any test of market efficiency is a joint test of a market model and the concept of efficiency. Thus, your test may merely be rejecting your market model, not efficiency. You may think this is unfair, but it's simple logic, and you have to deal with it. It is essential to have a specific alternative, because how do you know they are wrong unless you know the right answer? With hindsight, prices that were once really high, now not, were 'wrong', but one has to be able to go back in time and show the then-consensus was obviously wrong. Thus, if you propose, say, some metric of P/E, or dividend payout ratios, that is fine, but then presumably there will be some range of P/Es that, when breached, generate inevitable mean-reversion thus demonstrating the correctness of the P/E ratio. Actual arbitrage, in the form of strategies that generate attractive Sharpe ratios, are necessary, and this is very hard to do.
One big issue in tests of whether prices are 'right' or not is the Peso Problem. The term 'peso problem' has a long history, and I have seen the term attributed to several people, in any case it was first applied to the fact that the higher interest rate one received in the Mexican Peso for decades, was erased in a single day in 1977 when the Peso was devalued by about 45%. In 1982 Mexico did it again. Thus, decades of seemingly higher returns could have merely been the expected probability and size of these devaluations. As these probabilities are small, they are often not seen 'in sample', and the standard errors on these probabilities are sufficiently high that it is very difficult to see if they are sufficient to explain, or even over-explain, a certain return premium. That is, when you have a 1% or 5% chance, annually, of a 75% depreciation, the appropriate offset is 0.75% or 3.75%, a big difference.
Tom Rietz used the 'peso problem' 1988 to explain the anomalously high equity premium puzzle, then estimated around 6%. Big events aren't anomalies, but rather explanations in the rational markets paradigm. Recently, Robert Barro noted that historically, there has been about a 2% chance of a 15% to 45% GDP decline, which would probably cause equity markets to fall 90%. The implication is that many return premiums are really a mirage. Further, volatility is totally rational, not too high, because reasonable, rational people will disagree as to the specific probability, and as they move from a consensus of a 2% to a 5% probability of disaster, the price fluctuates wildly.
Such events are not proof against efficient or rational markets, but rather, supports it, because estimating the probabilities of these important events is clearly very difficult. A rational market should move a lot as people change their estimation that, say, the next Microsoft is extant in a set of internet stocks (with potential future market cap of $200B), or that a worldwide Depression is likely. The Peso Problem literature goes back to the 1980's at least, and fits within the rational market approach as one of the main reasons things that appear anomalous actually are rational. If you think extreme events invalidate rational markets, this implies one has a lot of certainty for the magnitude and probability of highly improbable events, which is not very compelling (eg, what is the probability of a second leg in the current financial crisis? 1%? 10%? 50%?).
Andre Shleifer and Larry Summers once wrote that “[i]f the efficient markets hypothesis was a publicly traded security, its price would be enormously volatile" —-too volatile, supposedly. Presumably Shleifer and Summers think economists are rational and understand that the rational consensus around a proposition can and does vary wildly around the truth. So why can’t market participants also be considered rational and yet have their collective opinions vary wildly over time and space? Truth is a very slippery concept, and whatever it may be for various propositions, it is something reasonable people can often agree to disagree, in aggregate and at different times.
In 2001 the New York Times had two articles by different authors on behavioral economics. The story was a cliche: a stolid conventional wisdom experiences a Kuhnian shift, lead by a small band of outsiders willing to flout traditional ways. The behavioralists reject "the narrow, mechanical homo economicus" and instead argue that " that most people actually behave like . . . people!" One articled noted "Some Economists [the behavioralists] Call Behavior a Key", implying that previously economists never were concerned with 'behavior'. This straw-man smack down has continued in the financial press to this day, and meanwhile, there are no canonical models of asset pricing based on behavioralist insights, merely explanations for well-known anomalies like momentum, size, and value, that were documented outside this literature.
Danny Kahneman, co-author of the Behavioralist Bible Judgement Under Uncertainty: Heuristics and Biases (a book published in 1982 about work mainly from the 1970s) went on to win the Nobel Prize in 2002. Herbert Simon, won the Nobel Prize in 1978 for his insight that humans have limited computing power, and so often satisfice in their optimization. In my dissertation back in 1994, I had to put 'behavioral economics' is scare quotes, but it has been part of conventional wisdom for at least a decade now. It's all grown up now, and shouldn't be judged on its potential anymore. One should apply behavioral biases to market 'data' (not anecdotes, or highly parochial experiments).
Crashes are interesting, but people's obsession with them highlights the hindsight bias more than a real-time, generalizable bias. Prices fluctuate more than we would like. But is it too much? The future is very uncertain, and in the US where so many prominent financial researchers work, we tend to forget we had a very fortunate 20th century (2-0 in World Wars!). Looking at history, where many countries have seen their equity indices get zeroed out (Hungary, Russia, China, Chechoslovakia, Poland), and some centuries are peaceful(13th in Europe) others horrific (14th in Europe), who's to say whether the stock market should be twice, or half, its current level with that sort of state space

L’ invidia spiega il paradosso di Allais

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Anatomia dell’ aiuto ingeneroso

Un uomo che ha molto con sé guarda chi non ha nulla, si commuove e dà.

C’ è forse un gesto più semplice?

… passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede al locandiere, dicendo: «Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò…

Due uomini, uno che chiede e uno che soccorre.

Generosità e semplicità si scortano continuamente.

salvataggi miracolosi grazie piccolina

Ma lo stesso gesto puo’ prodursi anche in assenza di generosità. In questi casi però irrompe una nuova protagonista che reclama tutta la scena per sé: la burocrazia.

Per comprendere al meglio questo “aiuto senza generosità” dimentichiamoci allora le parabole evangeliche per affidarci ad altri racconti, per esempio il Welfare di Frederick Wiseman.

La burocrazia dell’ aiuto, come tutte le burocrazie, è fatta di soffitti bassi, luci al neon a distesa, code sfiancanti e un ottundente brusio che, come un acido corrosivo implacabile, si mangia l’ anima delle persone.

Difficile uscire come si è entrati.

Quando tanti drammi s’ incrociano cessa ogni effetto drammatico.

Quando il postulante diventa un semiprofessionista, ribrezzo e compassione si mescolano in un impudico abbraccio.

La parolina detta al momento giusto, la potenziale rognosità del soggetto, l’ aggressività ben collocata fanno scoccare l’ assegno dell’ assistenza.

Il posto dell’ aiuto è comunque un posto da cui ciascuno vuol scappare il prima possibile per darsi al più presto una ripulita. Specialmente gli “aiutati”, che hanno, tra gli altri, un bisogno impellente: dimenticare l’ umiliazione.

Per venire loro incontro ci si è inventati persino un pallido e insufficiente sostituto della generosità: la proliferazione dei diritti.

Tutti scappano appena possono dal non-luogo dell’ aiuto, tranne chi non è venuto per i buoni pasto, o per i buoni affitto, o per i buoni sanità ma per un po’ di compagnia e per tornare uomo grazie ad un vivificante slancio razzista che per un attimo ridona parola, ascolto e sicurezze. Ecco, questi qui per farli sloggiare devi proprio spintonarli fuori.  

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=coqFE3dx9S0]

giovedì 7 luglio 2011

In che modo il “multiverso” ci parla di Dio

Non avete pagato il pizzo e i sicari della mafia intendono darvi una lezione; una volta scoperti tentate la fuga infilandovi in un vicolo cieco ma vi hanno visto e vi inseguono, siete ormai con le spalle al muro, sono in cinque e da pochi passi scaricano le loro mitragliette su di voi.

Dopo la raffica infinita vi accorgete di essere illesi, tutte le pallottole vi hanno solo sfiorato.

A questo punto potete 1) o tentare di spiegarvi in qualche maniera quanto accaduto o 2) liquidare la faccenda come una casualità: vi hanno semplicemente mancato.

Quale vi sembra l’ atteggiamento più sensato?

Quella appena descritta è una buona analogia dell’ Uomo nell’ Universo, lo sostiene il filosofo John Leslie: l’ estrema improbabilità di questo universo e della nostra esistenza puo’ essere spiegata o accettata come casuale.

Dall’ analogia traspare in modo evidente quale sia l’ atteggiamento più ragionevole. Come potremmo infatti mai pensare ad una casualità?

D’ altronde il concetto di “multiverso” testimonia che anche gli scienziati duri e puri tentano di darsi una spiegazione. Gli universi paralleli, infatti, non sono osservabili per definizione, la scienza dovrebbe disinteressarsene, eppure la loro esistenza è postulata al fine di togliere casualità alla origine dell’ universo in cui viviamo.

A questo punto Leslie si chiede: ma la spiegazione teista non è forse più semplice di quella cervellotica degli infiniti universi paralleli?

Test di Turing per l’ ideologia

Conoscete Mr Turing? Ebbene, propose un metodo semplice semplice per verificare se un computer è degno di essere considerato intelligente come un uomo.

Su quella falsariga possiamo elaborare un piccolo test per verificare se un “fazioso” è degno di essere ascoltato in un dibattito.

L’ inversione dei ruoli diventa centrale.

Reversed Pictures of Parents With Their Kids 

mercoledì 6 luglio 2011

La vita è sacra?

Il quinto comandamento sembra proprio il più semplice:
non uccidere
In altri termini: la vita è sacra.
Ma lo è davvero sempre?
Quando mi pongo questa domanda non penso all’ aborto, alla legittima difesa o alla pena di morte, ma a qualcosa di ancor più radicale, qualcosa che sembra mettere davvero in questione la sacralità della vita.
***
Parliamo di trapianto dei cervelli. Per entrare in atmosfera propongo un primo caso semplice semplice.
Giovanni e Giuseppe sono due gemellini nati con parecchi problemi. Giuseppe ha il cervello gravemente lesionato ed è praticamente un bambino morto. Giovanni ha un cervello funzionante ma un corpo martoriato. I medici, con l’ assenso dei genitori, decidono di trapiantare il cervello di Giovanni sul corpo di Giuseppe (ormai morente) migliorando decisamente le sue condizioni di vita.
Il caso presentato non sembra comportare problemi: i genitori potranno consolarsi con il bambino sopravvissuto, ovvero Giovanni. Che si tratti di lui non ci piove, il cervello porta con sé tutto il vissuto della persona (psicologia, esperienze, talenti…).In altri termini, il cervello è quasi sempre seguito dall' identità.
Giuseppe ci ha lasciato, pace all’ anima sua. Nessuno ha ucciso nessuno. La vita è sacra. Il quinto è rispettato.
Ma veniamo ad un caso un po’ più delicato.
Nascono tre gemellini con gravi problemi: Giovanni, Giuseppe e Giacomo. Giuseppe e Giacomo hanno un emisfero cerebrale lesionato, mentre il corpo di Giovanni è gravemente compromesso. Si decide così di disconnettere i due emisferi del cervello di Giovanni e trapiantare il primo nel corpo di Giuseppe in sostituzione di quello danneggiato. Il secondo andrà a Giacomo. Siamo stati fortunati, i trapianti sono compatibili.
Al termine di questa operazione avremo due bambini sani, ma chi sono? Il loro cervello è un misto proveniente da soggetti diversi.
Sarei portato a dire che i due sopravvissuti sono Giuseppe e Giacomo. Dopo tutto mezzo cervello è ancora loro e nel trapianto sono i riceventi.
Ma se i due bimbi sono Giuseppe e Giacomo, Giovanni non c’ è più. L’ abbiamo ucciso nell’ operazione violando il quinto. Eppure non ci sentiamo in colpa, forse le cose non stanno proprio così.
Terzo caso.
Stessa situazione del secondo, senonché Giuseppe e Giacomo stanno morendo, il loro cervello è compromesso. Si decide di espiantarlo e di trapiantare un emisfero cerebrale di Giovanni sul corpo di Giuseppe, e l’ altro sul corpo di Giacomo. Forse già sapete che si puo’ vivere abbastanza bene anche con un solo emisfero opportunamente supportato.
Ma chi sono i due sopravvissuti? Boh. Io direi che sono due soggetti nuovi: Gerardo e Gianluca.
Anche in questo caso Giovanni è fatto fuori senza tanti sensi di colpa. Oppure no? Oppure dovremmo averne?
Giovanni a quanto pare è morto, dobbiamo considerarlo tale anche se Gerardo e Gianluca vivono con il suo cervello.
[Se vivere con mezzo cervello di Giovanni ti conferisce l’ identità di Giovanni, allora esisterebbero due Giovanni e la persona non sarebbe individuata. Mmmmm... ma come potremmo pensare anche solo al Giudizio Universale se davvero esistessero persone "non individuate". No, al credente ripugna l’ ipotesi dei “due Giovanni”, meglio metterla da parte]
L’ abbiamo dunque ucciso. Ma questa morte conta? quella vita era sacra? Il nostro destino è l’ inferno per aver violato il quinto?
twin
p.s. Il trapianto del cervello ancora non è fattibile ma non si puo’ escludere che in futuro lo sia. Inoltre il cervello è effettivamente diviso in due emisferi che hanno funzionamento autonomo e in teoria si possono disconnettere. Nella realtà i due emisferi poggiano su una base comune, possiamo ipotizzare che questa base sia in futuro riproducibile artificialmente o anch’ essa separabile. Cio’ detto, aggiungo che le molte difficoltà tecniche ancora esistenti sono irrilevanti per chi affronta l’ enigma etico proposto.

Ricerca: soldi all’ università

Lo sapevi che, in percentuale sul PIL, l’ Italia è il paese che per la ricerca dà di più alle Università?

http://progetti.airi.it/statistiche-ricerca-sviluppo/

Martelli di velluto

I veri maestri della nota ribattuta sono loro. Fine del discorso.

Ostinato senza essere ossessivo, caparbio senza essere ansiogeno, il loro suono si deposita nell’ orecchio dell’ ascoltatore leggero come la raffica dei fiocchi di neve sul lastrico.

martello

Ma anche il lavoro sulla saturazione timbrica sbalordisce; pochi dominano altrettanto bene quell’ alchimia sensoriale.

E chi andava a pensare, poi, che nel riverbero di una distorsione chitarristica potesse albergare una vita tanto rigogliosa?

Dopo questo disco lo sappiamo per il semplice fatto che possiamo dire d’ averla vista con le nostre orecchie.

Nessuna aveva osato porsi la domanda se Mozart potesse migliorare ascoltando la lezione di Ali Farka Turé?

Ma rispondere è inutile, di sicuro ora disponiamo di una musica in più da ascoltare. E anche il Mozart originale ci guadagna.

Now Ensemble – Awake

p.s. déja vu

martedì 5 luglio 2011

Il paradiso degli atei

Cryonics! Gentilmente offerto dalla Alcor spa:

To understand how this might work, one first must realize that our bodies are not operated by an “on and off” switch, meaning that when you die, you don’t necessarily die instantaneously. This shouldn’t be so hard to accept since we’ve all heard examples of people declared legally dead before miraculous (read: defibrillator-enabled) revival. So the “switch” is more like a dimmer. It takes four to six minutes (perhaps as long as ten minutes or up to almost an hour, depending on what source you believe) for the brain to suffocate from lack of oxygen and stop functioning. Now imagine that a human could be captured in that time after the heart stops and before the brain starts to degrade and that he or she could be suspended in this state indefinitely, like hitting pause on the dying process. Let’s say that, hypothetically, the body (or at least the brain) could be revived from that state (“unpaused”) at a time of more advanced technology, a time when the person could be treated for whatever caused the body to start shutting down in the first place—cancer, for example. And if such technology existed, then (in the case where the head is the only thing preserved), the technology for regrowing the body for the brain (or at the very least, creating a bionic one) should reasonably exist as well.

link

barns

Insomma: oggi, tra morte cardiaca e morte cerebrale, vi ghiacciano il cervello e, domani, quando esisteranno tecniche idonee, ve lo sgeleranno impiantandolo su un computer.

Due considerazioni:

1. come paradiso non è un granché.

2. perché riservarlo agli atei?

Per quanto riguarda il punto due sono dell’ avviso che anche noi cattolici potremmo fruire di questo paradiso in terra in grado di prolungare indefinitamente la nostra vita.

Forse che un cattolico non riconosce se stesso qualora il suo corpo assuma le forme di un computer?

Eppure nessuno più del cattolico è disposto ad accettare l’ esistenza di strani corpi.

Pensate solo al corpo reale di Adamo ed Eva! Come sarà stato?

lunedì 4 luglio 2011

I problemi della tobin tax

E’ che anziché incassare ci si perde (parola della commissione europea):

there’s just one small problem, only a tiny one, not much to worry about really, about a financial transactions or Robin Hood tax. It won’t actually raise any money.

In a modern economy, makes little difference whether we’re talking about the US or Europe, some 40-50% of any marginal change in GDP is tax revenue. If GDP goes up by 1% we expect 0.4, 0.5% of GDP to be tax revenues. If GDP falls then we expect a similar fall in tax revenues. We see this argument being made all the time right now anyway, as all too many people run around saying that it isn’t that spending is too high, it’s that tax revenues have collapsed in the recession. Yes, quite, this is exactly the same point.

So, look at those numbers again. We have a tax which will bring in 0.1% of GDP. That same tax will also cause a 1.76
% fall in GDP and we expect 40-50% of a change in GDP to be taxes. So we have a fall of 0.7 to 0.9% of GDP in tax revenues.

That is, we gain 0.1% and lose 0.7%.

La solitudine come bene sociale

Alcune istruzioni per il lavoro intellettuale.

La prima: isolarsi.

Dispiacerà a chi considera l’ uomo un essere essenzialmente sociale, e ancor di più a chi addirittura lo vede come plasmato dalla società in cui vive.

Fa niente, in assenza di una coltivata solitudine viene a mancare ogni riflessione attendibile.

… dall’ intellettuale metafisico possiamo venire a sapere che dio è morto… dall’ intellettuale tecnico sappiamo tutti i giorni che per motivi tecnici c’ è qualcosa che non si farà e qualche altra cosa che siamo assolutamente costretti a fare… ma l’ intellettuale critico, diversamente dai precedenti, ammette l’ esistenza dei singoli individui… per lui non si tratta di apparenze, o contingenze, o imprevisti malaugurati, errori da evitare, distorsioni soggettive da superare in un’ ottica più vasta e in una prospettiva più elevata… per l’ intellettuale critico la singola vita individuale è un campo e uno strumento di conoscenza ineliminabile… lo scoprirono filosofi come Montaigne e Kierkegaard che non scrissero trattati ma confessioni, diari e autoanalisi… si possono accusare Leopardi o Baudelaire di narcisismo per il fatto di aver parlato di sé e di aver “esplorato il proprio petto” o di aver “messo a nudo il proprio cuore”?… L’ io del critico è uno strumento per essere onesti con gli altri che a loro volta non sono privi di un loro io… l’ intellettuale critico rischia sempre la solitudine innanzitutto perché ne ha un bisogno vitale… anzi la rappresenta pubblicamente come valore pubblico misconosciuto… la verità non è un bene sociale, chi la ama non è adatto alla conversazione, non riesce a trovare un linguaggio che si adatti ai convenevoli… meglio per lui rifugiarsi nella meditazione solitaria…

 

Ogni intellettuale deve lavorare sodo per rendersi non classificabile e costituire un caso a sé. Quando compaiono segnali di genere, l’ intellettuale sloggia.

 

Guai fare gruppo, guai firmare manifesti, guai impegolarsi in campagne di boicottaggio. Ma soprattutto, se non si vuole creare una casta, girare al largo dai benefici sindacali.

Ci si rassegni: conoscere significa non esistere, e l’ isolamento è un buon simulacro dell’ inesistenza. Un buon intellettuale dipinge solo autoritratti.

andrea wan boo

Adesso, alcuni corollari.

L’ intellettuale deve parlare di esperienze comuni appellandosi al senso comune, anche se così facendo assomiglierà di più ad una persona comune che a un intellettuale, ma soprattutto dirà cose che probabilmente non interessano né a Dio, né al Progresso.

Senza uniformarsi ai tabù tanto di moda della Risposta o della Soluzione – parlo di quel sacro terrore che porta l’ intellettuale a porre solo domande quasi fosse un Mike Bongiorno - si eviti comunque di proporre soluzioni generali.

La trappola più insidiosa è quella che scatta quando si chiedono o si forniscono dimostrazioni dell’ ovvio. Quando una domanda è ovviamente sensata, si eviti quindi di uscirsene segnalando gli errori linguistici sottesi che la renderebbero insensata. Si risponda, piuttosto.

Da rifuggire sono sia il volontarismo militante un po’ troppo volontaristico che le idee eccessivamente vaste ed accoglienti.

Spiegate quel che succede piuttosto che esprimere la vostra indignazione un giorno sì un giorno no!

Alla larga dai tecnicismi necessari al funzionamento della macchina sociale. E’ roba che attira solo chi è desideroso di avviarci verso un Progresso alla cui definizione, come tutti i pensatori seri, non è tenuto ad interessarsi. I mezzi lo ossessionano. Vietato pensare agli scopi, quelli vengono da sé.

Si eviti anche quella metafisica disossata dalle parole d’ ordine che richiedono di essere urlate esistenzialmente nel tentativo di sfrondarle da un gergo mistico che le rende tanto vaghe.

Rassegnatevi: “la poesia non fa succedere niente”. La solitudine, di conseguenza, porta solo vantaggi.

La gente è pettegole, vuole sempre esempi concreti. Da evitare con cura sono Foucauld e Derrida, nonché tutta la risma di pensatori secondo cui ogni organizzazione è repressione. Stare alla larga pure da Glucksmann, Bernard-Henry Lévy o Hitchens, ovvero dal cosiddetto giornalista titanico, quel genere di intellettuale che tiene d’ occhio tutti i conflitti del pianeta insegnandoci quotidianamente cosa cova sotto la cenere e perché tutto si tiene.

Alfonso Berardinelli – Che tipo d’ intellettuale sei? – Nottetempo

Fin qui seguo facilmente l’ autore, addirittura con punte di entusiastica adesione qua e là.

Lo seguo per quanto sia riuscito a decifrare il pensiero di chi si mostra più concentrato sull’ introspezione che sul nitore concettuale dell’ esposizione. E non escludo che nella mia parafrasi abbondino forzature e aggiustamenti in grado di corroborare la digestione di un pasto tanto vario e calorico.

Peccato che sul finale si sbielli e il congedo s’ imponga. In particolare quando in modo accorato si chiede all’ intellettuale di non limitarsi a porsi fuori dalla società, ma di andare oltre ponendosi contro la società in modo da trasformare la sua preziosa solitudine in una nobile misantropia.

Ecco, quando Montaigne e Baudelaire esplorano il proprio petto forse non lo si potrà dire, ma in questo caso sì, caro Berardinelli… in questo caso si puo’ proprio parlare tranquillamente di narcisismo.

 

 

 

 

 

 

sabato 2 luglio 2011

Condannati alla difesa?

Credere nella religione tradizionale africana equivaleva a giocare sempre in difesa. Non c’ era una dottrina a cui appellarsi; c’ era soltanto il sentimento del valore dei costumi antichi, della sacralità della terra natale. Assomigliava, in dimensioni ridotte, al conflitto in atto tra cristianesimo e paganesimo nel quarto e quinto secolo, all’ epoca della conversione del mondo classico. Il paganesimo non poteva diventare una Causa. In favore dei vecchi dèi e dei loro templi si poteva al massimo dire che esistevano da sempre e che avevano reso un buon servizio all’ umanità. Il cristianesimo, per contro, poggiava su un fondamento filosofico e poteva essere spiegato. La religione tradizionale africana non aveva dogmi; si esprimeva nelle sue pratiche e in cose come i cento amuleti che gli stregoni offrirono a Meutsa I prima della battaglia navale con i Wavuma.
V.S. Naipaul
All’ epoca in cui la squadra del cristianesimo mieteva trofei ovunque, era trascinata all’ attacco da un centravanti di peso – la ragione.
La ragione affiancava al sentimento una solida dottrina. La ragione collegava la Causa con l’ Effetto, la ragione procurava uno stabile fondamento filosofico.
Con questa punta di diamante tutto era possibile e il cristianesimo conquistò la coppa del mondo. Le sue coorti atteggiate a testuggine sfondavano le linee nemiche facendo volare per aria le bancarelle zeppe di amuleti.
La strategia – ora… da qualche secolo - è quella di svendere il nostro bomber rassegnandoci al catenaccio.
Certo, è una testa calda, a volte crea problemi nello spogliatoio, ma una volta venduto perderemo per sempre l’ occasione di disciplinarlo.
[… se ci mutiliamo della ragione come potremo denunciarne gli abusi?…]
Non trovate che sia esagerato confinare il ragionamento sulla fede ad esperienza adolescenziale che evapora una volta che al liceo s’ incontrano Marx, Freud e Nietzsche?
Si finisce per sedimentare istinti che posti davanti ad una pretesa “conoscenza” fanno scattare il deleterio riflesso di bollarla a prescindere come strumento di potere e causa di superbia.
Su questa via l’ intelligenza si degradata passando da dinamico trapezio in grado di proiettarci nelle  braccia di un altrettanto dinamico catcher a trampolino rabberciato che ci slancia all’ insù verso il nulla quando va bene, all’ ingiù verso il lastrico di una piscina prosciugata quando va male.
Leggendo il libro di Valter Binaghi e Giulio Mozzi10 buoni motivi per essere cattolici, mi sembra però di cogliere un certo fervore per il cambio di strategia.
I due blogger cattolici puntano molto sulla bellezza del racconto evangelico.
L’ atto di fede sembra essere innanzitutto l’ adesione a narrazioni meravigliose ed appaganti. Il cattolicesimo come bella immaginazione.
C’ è la favola triste della cacciata dall’ Eden e c’ è la favola terribile del diluvio universale. Poi ce ne sono molte altre di fattura altrettanto pregevole. Rapiti da questo fascino, sorvoliamo con naturalezza sulle incongruenze.
Ok, mi viene da dire, ma mentre nelle favole accadono tante cose prodigiose che c’ incantano, cosa succede nella realtà?
Rinunciando al nostro centravanti diventa difficile giocare partite del genere.
Non per questo, secondo gli autori, la voglia di dirsi cattolici scema; al contrario, monta perché… la storia della creazione è avvincente e aspettare la fine del mondo mantiene alta la tensione umana.
Perché la vicenda di Gesù è un’ appassionante storia d’ amore con un unico comandamento: ama!
Dubbio (mio): siamo sicuri però che l’ amore mondano sia svincolato dal fare il bene? E che il fare il bene nel mondo implichi anche una riflessione operativa e un calcolo? E’ da escludersi che l’ intenzione lastricherà mai alcuna via diretta all’ inferno?
[chi se lo ricorda?: L' enigma di San Francesco. Cristianesimo, Povertà e Teologia della Liberazione. … se il link non funziona, citofonare diana]
L’ apologetico duo prosegue con la delicata faccenda dell’ incarnazione.
L’ attacco è quanto mai appropriato: Gesù non è un supereroe.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=NWRrL2YJbLM]

Nel suo tran tran sboccia cio’ che ha di meraviglioso la banalità dell’ umano.
Puo’ farlo grazie alla normalità di Gesù, grazie alla vita appartata condotta fino alla soglia estrema del "gran finale", grazie al Gesù figlio di un piccolo imprenditore che impara un mestiere sul bancone del falegname pestandosi le dita con il martello. Un bravo ragazzo che sbaglia, soffre, inciampa, si rialza… e sempre in compagnia.
Peccato che, chiamati al passo successivo, ovvero a riconoscere il banale umano che tutti i giorni affonda i suoi gomiti nei nostri fianchi, anziché simpatizzare e intenerirsi per le mille manchevolezze che lo affliggono, si preferisce esorcizzarlo dipingendo lo sprezzante quadretto di una piccola borghesia dietro la cui maschera si occultano mille meschinità riprovevoli.
Altra riserva mi permetto di porla sul sospetto gettato di continuo verso ogni forma di umana organizzazione esteriore di chi vive la fede (nel mirino è la Chiesa istituzionale).
Operazione che stride con l’ omaggio alla carne.
Cosa significa organizzarsi se non far campare la carne? Non è un caso se persino il corpo puo’ essere sommariamente descritto come un’ organizzazione naturale.
Una volta accettata l’ incarnazione e l’ uomo-dio, la forma non puo’ più essere del tutto bandita nel discorso sulla fede. Ostinarsi a farlo segnala un’ ostia mal trangugiata.
Passiamo alla Grazia.
Nell’ atto di fede la Grazia gioca un ruolo decisivo, ok. La cosa è ben sottolineata.
Ma insistere nello svilire l’ azione dell’ intelligenza e della psicologia in queste faccende, deprezza quanto di umano c’ è in quell’ atto. Per evitare un simile rischio si potrebbe far notare come tutti i giorni ognuno di noi, indipendentemente dalle sue affiliazioni, compia atti di fede formalmente simili a quello cattolico senza che intervenga alcuna grazia. Basta il senso comune!
In altri termini, qualsiasi uomo ha dimestichezza con l’ atto di fede, qualsiasi uomo esperisce ogni giorno il naturale legame che quell’ atto intrattiene con la ragione. Questo Signor Qualsiasi potrebbe essere disorientato se ci impuntiamo su un desertificante monopolio da conferire alla Grazia.
Chiudo.
Narrazioni, immaginario, favole, bellezza…
E il vero, che fine ha fatto? Così come il reale, sembra defilarsi un po’ troppo in questo resoconto.
Il nostro centravanti non c’ è più, e forse questo incide sulla reticenza.
Come si lega la bellezza al vero?  A quanto pare non grazie alla naturalezza visto che “il pensiero naturale non ci serve a nulla”. Una pratica cruciale resta dunque in buona parte inevasa.
Possiamo davvero lasciare tutto slegato e puntare una posta tanto elevata sull’ appagamento estetico?
Mmmmmmmmmm.
Ho paura che chiudendosi in difesa prima o poi un gol lo becchiamo.
love link
Come al solito l’ entusiasmo con cui si obietta prende la mano, e alla fine il quadretto fornito è orribilmente deforme.
Non ci sono, infatti, solo perplessità. Tutt’ altro.
Dapprima fatemi notare come i coautori ci tengano a distinguere i loro testi. Chissà, forse la scelta non dipende solo dall’ irriducibile differenza stilistica (leggiadro quello di Mozzi, puntuale quello di Binaghi).
Sta di fatto che in alcune pagine più che in altre, non posso negarlo, agiscono potenti anticorpi in grado di opporsi virilmente alle derive paventate. Basti pensare a quando si parla del cristianesimo come mito compatibile con teologia e scienza, o quando si depreca l’ inane sociologismo che riconduce il male alla cattiveria, o alla brillante e interamente condivisibile tirata contro Mancuso e il Modernismo.
Dici poco!




venerdì 1 luglio 2011

IT

The problem is that outlawing IT and enforcing the law rigorously ensures that share prices (or whatever the asset is) do NOT...repeat NOT...reflect all the information available about their future profitability. This argument is quite persuasive to me.

http://mungowitzend.blogspot.com/2011/07/should-we-allow-insider-trading.html#links

Casi amari

Woody Allen – Match Point

Woody Allen non ha mai fatto mistero di collocare il cinema europeo parecchie spanne sopra quello americano. A partire dalla tradizione (cito a memoria):

“nel confrontare i nostri Maestri con quelli europei mi cresce dentro un senso di vergogna… è qualcosa di disarmante… eravamo così ingenui… e non abbiamo mai recuperato…”.

Quella mania di tagliar giù con l’ accetta semplificando tutto. Ma soprattutto quella mania delle storie di schiavizzare ogni scena per renderla funzionale al racconto.

Se in un film americano Tizio incontra Caio, l’ ascoltatore è meglio che se l’ annoti in fretta sul taccuino mentale, perché la cosa avrà ripercussioni. E se non sarà così, il film sarà da qualificarsi come sfilacciato e dispersivo.

In un film europeo, non è per niente detto che le cose stiano in questi termini, anzi. Quand’ anche l’ incontro sia a posteriori giudicabile come radicalmente gratuito, avrete assistito a un sofisticato effetto realtà destinato a nobilitare la pellicola.

Con una battuta: nei film europei, di tanto in tanto, ci si puo’ infilare un sonnellino.

Diciamolo più chiaramente: sarà che ha perso un mucchio di guerre, sarà che ne ha combattute molte senza raccapezzarsi (partendo di qua e finendo di là), sarà che ne ha viste di tutti i colori, ma l’ europeo medio, per usare un eufemismo, tende a credere che la realtà sia a dir poco labirintica.

Un modo efficace per esprimerlo consiste nel conferire un posto d’ onore alla fortuna.

Woody rende un tiepido omaggio ai suoi maestri facendo del caso un protagonista assoluto di questo bel film.

Un caso domato, per la verità, che agisce nella storia anziché sulla storia.

In altri termini: Woody non tira i dadi per decidere la sequenza successiva, il suo è un film girato all’ americana: pulito, coeso e coerente (almeno se ci dimentichiamo che esistono anche i tabulati telefonici).

Chris, il classico bravo ragazzo, dopo averla illusa, uccide sia l’ amante che lo ossessionava rifiutandosi di abortire, sia una vecchia (per sviare le indagini); torna dalla ricca e ignara moglie che con tutta la famiglia è al settimo cielo da nove mesi perché lei finalmente è restata incinta. E’ giunta l’ ora di sgravarsi! La fortuna s’ incaricherà di trasformare il piano raffazzonato e l’ azione maldestra di un incensurato, nell’ omicidio perfetto.  A farne le spese sono sia le vittime (trucidate) che il colpevole (in fondo avrebbe voluto lavarsi l’ anima pagando il fio).

Chris ha cavalcato per tutto il film una tigre idrofoba che, proprio al momento di disarcionarlo e azzannarlo, si trasforma come per incanto in un ciuchino mansueto.

Ed ecco presentarsi il labirinto: al ritorno dall’ ospedale lui si sofferma sulla creaturina: deve fingere di gioire per una cosa di cui non puo’ gioire ma che in fondo lo fa gioire. In altri termini, le sozzure lo costringono a fare cio’ che avrebbe fatto spontaneamente.

E intanto noi ci ascoltiamo della grande opera. Ma l’ omaggio non è alle fiammeggianti cabalette, bensì allo sfrigolio dei vecchi dischi. I portentosi sentimenti mediterranei inscenati al Metropolitan, covano anche a latitudini spaziotemporali diverse ma si ripropongono sotto una coltre di polvere, proprio come la musica riprodotta da quei dischi usurati. Il sangue sparso dalla passione con gestualità impulsiva, ora è sparso da una vigliaccheria catatonica.

Si evita con cura di retribuire equamente le anime coinvolte e far quadrare i conti: il delizioso amaro in bocca con cui Woody ci lascia è tutto europeo.

Un retrogusto da conservare intatto proteggendolo da ogni insidia dello humor, che qui come non mai è tenuto a distanza siderale.  

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=PvuC5jLFsT0]

Craig su Dawkins

Richard Dawkins has emerged as the enfant terrible of the movement known as the New Atheism. His best-selling book The God Delusion has become the literary centerpiece of that movement. In it Dawkins aims to show that belief in God is a delusion, that is to say, "a false belief or impression," or worse, "a persistent false belief held in the face of strong contradictory evidence."1 On pages 157-8 of his book, Dawkins summarizes what he calls "the central argument of my book." Note it well. If this argument fails, then Dawkins' book is hollow at its core. And, in fact, the argument is embarrassingly weak.

It goes as follows:

1. One of the greatest challenges to the human intellect has been to explain how the complex, improbable appearance of design in the universe arises.
2. The natural temptation is to attribute the appearance of design to actual design itself.
3. The temptation is a false one because the designer hypothesis immediately raises the larger problem of who designed the designer.
4. The most ingenious and powerful explanation is Darwinian evolution by natural selection.
5. We don't have an equivalent explanation for physics.
6. We should not give up the hope of a better explanation arising in physics, something as powerful as Darwinism is for biology.
Therefore, God almost certainly does not exist.

This argument is jarring because the atheistic conclusion that "Therefore, God almost certainly does not exist" seems to come suddenly out of left field. You don't need to be a philosopher to realize that that conclusion doesn't follow from the six previous statements.

Indeed, if we take these six statements as premises of an argument intended to logically imply the conclusion "Therefore, God almost certainly does not exist," then the argument is patently invalid. No logical rules of inference would permit you to draw this conclusion from the six premises.

A more charitable interpretation would be to take these six statements, not as premises, but as summary statements of six steps in Dawkins' cumulative argument for his conclusion that God does not exist. But even on this charitable construal, the conclusion "Therefore, God almost certainly does not exist" simply doesn't follow from these six steps, even if we concede that each of them is true and justified. The only delusion demonstrated here is Dawkins' conviction that this is "a very serious argument against God's existence."2

So what does follow from the six steps of Dawkins' argument? At most, all that follows is that we should not infer God's existence on the basis of the appearance of design in the universe. But that conclusion is quite compatible with God's existence and even with our justifiably believing in God's existence. Maybe we should believe in God on the basis of the cosmological argument or the ontological argument or the moral argument. Maybe our belief in God isn't based on arguments at all but is grounded in religious experience or in divine revelation. Maybe God wants us to believe in him simply by faith. The point is that rejecting design arguments for God's existence does nothing to prove that God does not exist or even that belief in God is unjustified. Indeed, many Christian theologians have rejected arguments for the existence of God without thereby committing themselves to atheism.

So Dawkins' argument for atheism is a failure even if we concede, for the sake of argument, all its steps. But, in fact, several of these steps are plausibly false in any case. Take just step (3), for example. Dawkins' claim here is that one is not justified in inferring design as the best explanation of the complex order of the universe because then a new problem arises: Who designed the designer?

This objection is flawed on at least two counts.

First, in order to recognize an explanation as the best, one needn't have an explanation of the explanation. This is an elementary point concerning inference to the best explanation as practiced in the philosophy of science. If archaeologists digging in the earth were to discover things looking like arrowheads and hatchet heads and pottery shards, they would be justified in inferring that these artifacts are not the chance result of sedimentation and metamorphosis, but products of some unknown group of people, even though they had no explanation of who these people were or where they came from. Similarly, if astronauts were to come upon a pile of machinery on the back side of the moon, they would be justified in inferring that it was the product of intelligent, extra-terrestrial agents, even if they had no idea whatsoever who these extra-terrestrial agents were or how they got there.

In order to recognize an explanation as the best, one needn't be able to explain the explanation. In fact, so requiring would lead to an infinite regress of explanations, so that nothing could ever be explained and science would be destroyed. So in the case at hand, in order to recognize that intelligent design is the best explanation of the appearance of design in the universe, one needn't be able to explain the designer.

Second, Dawkins thinks that in the case of a divine designer of the universe, the designer is just as complex as the thing to be explained, so that no explanatory advance is made. This objection raises all sorts of questions about the role played by simplicity in assessing competing explanations—for example, how simplicity is to be weighted in comparison with other criteria like explanatory power, explanatory scope, plausibility, and so forth. If a less simple hypothesis exceeds its rivals in explanatory scope and power, for example, then it may well be the preferred explanation, despite the sacrifice in simplicity.

But leave those questions aside. Dawkins' fundamental mistake lies in his assumption that a divine designer is an entity comparable in complexity to the universe. As an unembodied mind, God is a remarkably simple entity. As a non-physical entity, a mind is not composed of parts, and its salient properties, like self-consciousness, rationality, and volition, are essential to it. In contrast to the contingent and variegated universe with all its inexplicable physical quantities and constants (mentioned in the fifth step of Dawkins' argument),3 a divine mind is startlingly simple. Certainly such a mind may have complex ideas (it may be thinking, for example, of the infinitesimal calculus), but the mind itself is a remarkably simple entity. Dawkins has evidently confused a mind's ideas, which may, indeed, be complex, with a mind itself, which is an incredibly simple entity.4 Therefore, postulating a divine mind behind the universe most definitely does represent an advance in simplicity, for whatever that's worth.

Other steps in Dawkins' argument are also problematic; but I think enough has been said to show that his argument does nothing to undermine a design inference based on the universe's complexity, not to speak of its serving as a justification of atheism.

Several years ago my atheist colleague Quentin Smith unceremoniously crowned Stephen Hawking's argument against God in A Brief History of Time as "the worst atheistic argument in the history of Western thought."5 With the advent of The God Delusion the time has come, I think, to relieve Hawking of this weighty crown and to recognize Richard Dawkins' accession to the throne