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giovedì 1 maggio 2008

Un paio di misteri petroliferi

Ma perchè il petrolio aumenta tanto di prezzo e la benzina tanto poco?

Semplice, siamo protetti dall' euro forte In più i nostri motori sono sempre più risparmiosi, merito dei vincoli ambientali.

Qui ci vuole un link, se lo dico io nessuno si fida.

Entrando lì dentro capirete anche perchè quando il prezzo del petrolio s' impenna, la benza subito si adegua felice; quando flette, cominciano i tentennamenti, le incertezze, le titubanze, eccetera. Insomma, il fenomeno razzi e piume, il fenomeno che viene sempre fuori al bar.

Teoria numero 1: speculazione cattiva da parte di gente avida. In effetti il mercato petrolifero non è libero e le distorsioni abbondano.

Teoria numero 2: poichè il trend dei prezzi viene giudicato in crescita, quando c' è un calo lo si battezza come contingente e temporaneo.

Verifiche: il trend è effettivamente in crescita. La cosa depone tremendamente a favore della seconda teoria.


Mercati alienanti e autosfruttamento

Il mercato produce alienazione, soprattutto in chi lo giudica.

Il metodo della concorrenza ha delle pretese e spesso fallisce non cavando un ragno dal buco. Ecco allora che partono le copiose critiche di chi non aspettava altro. Ma spesso per i motivi sbagliati. Non dico che non facciano centro, ma su un bersaglio diverso da quello mirato.

Esempio: si sente dire che la concorrenza è sempre al ribasso, che produce ineluttabilmente una sorta di "sfruttamento" del lavoratore.

Ora, nella nostra Italia dei piccoli e micro-imprenditori, questa storia dello "sfruttamento" suonava un po' comica. Così qualcuno ha pensato di pigiare sul pedale ed è arrivato, con la comica finale, un battutone a sigillo del cabaret: "auto-sfruttamento".

Giretto in bici per le strade del primo maggio nordista. Rapporto: tutti i negozi aperti, si lavora alacremente, lo sfruttamento e l' auto-sfruttamento non danno tragua nè speranza.

Con tutti 'sti ponti non mi posso allontanare, siamo aperti e mi devo auto-sfruttare: il mercato ha fallito consegnandomi ad un destino cinico e baro.

No, una conclusione del genere non riesco a digerirla, preferisco la stoppa. Il mercato fallisce quando sfrutta il consumatore, non il produttore. Altrimenti, molto semplicemente, si giudica senza aver minimamente capito di cosa si parla.

D' altronde la logica che la produzione sia un mezzo e il consuno (godimento) un fine, mi sembra che fili, mi sembra destinata ad entrare in tutti i cervelli senza turbare le armonie celesti che regnano nella comune mente filosofica.

Sono contento di simpatizzare con un' idea che rispetta questa logica elementare. Peccato che molti giudici severi invece preferiscano invertirla.

Alienazione = invertire i fini con i mezzi. Ecco perchè il mercato produce alienazione... tra i suoi giudici. Perchè costoro hanno proceduto proprio con l' operazione di cui sopra.

Rettifica del bici-rapporto: tutti i negozi aperti, si lavora alacremente, lo sfruttamento e l' auto-sfruttamento non dà tragua nè speranza. Miriadi di consumatori piacevolmente sorpresi delle ricche opportunità!

Il produttore produce (lavora), il consumatore consuma (gode). Il fallimento dove sta?

La concorrenza è al ribasso quando il consumatore chiede un ribasso. Magari non arriva a fine mese, oppure preferisce investire altrove e allora chiede un ribasso, lo desidera, lo agogna... e spesso, per fortuna, lo ottiene.

Ma se il consumatore esprime diverso orientamento, la concorrenza sarà al rialzo.

Facciamo il caso dei Mcdonald's nel mondo. Hanno arricchito parecchio la concorrenza nel mondo non occidentale. Quasi sempre al rialzo. Adrian E. Tschoegl ci ha dato dentro per dimostrarlo.

Una delle cose esportate con McDonald's, per esempio, è stata l' igiene nei locali pubblici. Successone:

"...McDonald’s emphasis on cleanliness, including or especially in restrooms, has led its competitors to upgrade their facilities. Before the first McDonald’s opened up in 1975, restrooms in Hong Kong’s restaurants were notoriously dirty (Watson 1997). Over time, competitors felt compelled to meet McDonald’s cleanliness standards. The same thing appears to be occurring in China (Watson 2000). In Korea, McDonald’s introduced the practice of lining up in an orderly fashion to order food; traditional practice was simply to crowd the counter, with success in ordering accruing to the most aggressive (Watson 2000). In the Philippines, Jollibee mimics McDonald's clean and well-lighted look..."

Evidentemente i consumatori volevano più igiene, sentivano di potersela permettere. E qualcuno gliel' ha fornita. Tutto cio' non è affatto scontato, il consumatore potrebbe anelare ad un maggior sudiciume se il compenso che ne ricava è adeguato.

Il consumatore come fine, nel mercato come nella vita. Tutto fila. Lasciamo i giudici alienati alle loro elucubrazioni e occupiamoci dei mille casi in cui la concorrenza s' impantana per seri intoppi. Quelli sì che sono fallimenti.

sabato 29 marzo 2008

Corto circuiti: contro l' "aziendalizzazione" della scuola in nome della...responsabilità!? (6)

"... Un economista serio si vergognerebbe di dire che lui ha un dominio intellettuale..."

Ho già detto che usavo questa espressione in un senso tecnico, quindi con un significato meramente formale e smentibile nei fatti qualora quel formalismo non funzioni. La mia sottolineatura era un modo provocatorio per dire: ne vogliamo parlare? Vale la pena di chiarire? No, nonostante la mia precauzione si è ritenuto di aver già capito tutto e di passare alle offese.

Prendiamo due personaggi "l´ economista" e "il fisico". Il fisico ricercatore svolge il suo lavoro in laboratorio e nei suoi pensatoi.

Ma molte delle modalità essenziali attraverso cui svolge il suo lavoro -orari, limiti alla strumentazione, frequenza ed entità del suo compenso, grado di precarietà in cui lavora, modo in cui si formano le sue opportunità di lavoro, modo in cui si formano le sue opportunità di investimento - è demandato all´ opera dell´ economista il quale disegna l' ambiente in cui il fisico è chiamato a muoversi. Per quanto, ben inteso, l´ ultima parola spetti al politico che detiene la forza.

L' economista si occupa della cornice chiamata a vincolare nei fatti l´ attività del fisico. Per esempio, se l´ insegnante sarà pagato e quanto, in genere viene chiesto all´ economista (da noi non è stato così e si vede), il quale disegnerà un meccanismo, un mercato con tutte le correzioni del caso, per stabilire i compensi. Il fisico, come l´ operaio, agisce entro il quadro di regole ideate dall´ economista.

Poi, l´ apporto benefico alla società da parte del fisico, puo´ essere immensamente superiore, sia rispetto all´ apporto dell´ operaio, sia rispetto all´ apporto dell´ economista. Cio´ non toglie che nella sua azione sia vincolato in una cornice frutto del lavoro intellettuale dell´ economista.

In questo senso parlo di "dominanza", non certo quindi nel senso di "superiorità" o di "maggiore dignità" ma solo riferendomi a come si incastrano le competenze.
***

DIMOSTRARE TEOREMI ASSUNTI COME VERI. APPENDICE. Un settimo elemento che impedisce di considerare la scuola un´ azienda: l´ adozione di valori etici legati all´ egalitarismo. Poiché l´ aziendalizzazione produce differenziazione, è inevitabilmente incompatibile con il valore di cui sopra. Un ottavo elemento che rende pericoloso considerare la scuola come un´ azienda: considerare la famiglia come radicalmente sganciata dagli interessi del figlio. In questo caso sarebbe molto pericoloso dare voce in capitolo, accanto all' utente pubblico, anche alla famiglia.
***
"...La Chiesa come Azienda..."

La Chiesa puo´ essere vista tranquillamente e proficuamente come un´ azienda (lo dico da uomo di fede).

Alcuni studi condotti in quest' ottica sono famosi.

Perché l´ Islam ha avuto nella sua storia una fortissima capacità di penetrazione (...di mercato)?

Barry studia la capacità dell´ Islam di decentrare e rendere flessibili le sue strutture.

Come spiegare il fallimento del protestantesimo europeo a petto dei successi protestanti in Sudamerica?
In molti guardano a come l´ ambiente fortemente concorrenziale abbia sagomato le sette protestanti nord americane e come invece il connubio con l' stato abbia relegato il protestantesimo europeo ad una funzione spiritualista che è andata inevitabilmente atrofizzandosi con il tempo.

I servizi della Chiesa in molti casi sono in concorrenza con il welfare moderno. Laddove quest´ ultimo si amplia, la rilevanza della Chiesa si ritira. La Chiesa coglie i suoi maggiori successi operando in ambienti rischiosi (è una delle cause avanzate per spiegare la religiosità degli USA rispetto all´ europa).

Recentemente leggevo un lavoro in cui, con un excursus storico, i rilevanti investimenti in capitale umano della comunità ebraica venivano spiegati come un tentativo di minimizzare i costi di trasporto. Spiegazione eminentemente aziendalistica.

Per non parlare poi dell´ aspetto ideologico. La Chiesa Cattolica nella sua storia è stata tanto indifferente all´ efficienza? Solo nella misura in cui è stata indifferente al mondo, ovvero molto poco. Gli studi anti weberiani ormai si sprecano. L´ origine del capitalismo è rintracciato all´ inizio del secondo millennio nell´ Italia settentrionale, in zone a forte presenza cattolica. In molti citano i tardo scolastici spagnoli e italiani come i primi teorici formali del capitalismo.
***
"...L´ Italia non è un´ azienda..."
Eppure gran parte del idea federalista (vedi USA e Svizzera... e non ultimo anche il progetto UE) è stata concepita per creare forme di concorrenza istituzionale (per esempio concorrenza fiscale). Vale a dire: le istituzioni migliori vincono e vengono premiate e imitate. Introdurre un mercato delle istituzioni, introdurre più mercato nella politica. Non parlo di un´ idea peregrina e tra mille. Parlo di un´ idea che si sta rivelando vincente pur tra i mille problemi da risolvere. Si sta rivelando nei "fatti" e non "ovviamente".
***
Alcuni ritengono che l´ economista - manco fossimo negli anni cinquanta - sia uno che si occupa di mercati finanziari o roba del genere. Ma oggi l´ economista si occupa anche e soprattutto di... matrimoni, rapporti famigliari, riabilitazione da dipendenze, scommesse, felicità, religione, etica, razzismo, politica, diritto, amore, retorica, corse dei cani... e via dicendo. Ci siamo capiti?

Alcuni sono rimasti legati ad un concetto di "merce&servizi" antiquato, come se la nuove teorie del consumatore non fossero mai state concepite, come se sul punto i Nobel non fossero mai stati distribuiti... Ancora si vede la merce come qualcosa di materiale e non invece un "bundle" tramite il quale il consumatore forma la sua identità, le sue caratterizzazioni, accumula il suo capitale umano, esprime e rafforza le sue tradizioni, si crogiola nei suoi pregiudizi...

Alcuni addirittura vedono l´ economista come qualcuno alle prese con valori freddi e oggettivi quando l´ economista si occupa quasi esclusivamente di valori soggettivi e non confrontabili, valori interiori che si esprimono mediane la scelta.

Alcuni vedono nell´ utile semplificazione dell´ homo economicus il paradigma della razionalità economica quando l´ economista fronteggia invece la complessità dei mercati e deve quindi continuamente ricorrere alle razionalità idonee a fronteggiare la complessità.

Corto circuiti: contro l' "aziendalizzazione" della scuola in nome della...responsabilità!? (5)

Mi si scusi se continuo con qualche spigolatura ma gli stimoli sono tanti.

“…Aspetti che sono tipici dell'azienda - e magari la definiscono - non è detto che bastino a definire la scuola… Per esempio un insuccesso scolastico di un alunno non implica affatto un fallimento della scuola o un errore dell'insegnante…"

E perché mai l’ insuccesso scolastico di un alunno dovrebbe, secondo un’ ottica aziendale, segnalare il fallimento della scuola?

Ammettiamo che esistano solo due Licei ("A" e "B") e una sola Università prestigiosa dove convergono gli allievi dei Licei. Ammettiamo anche che la preparazione in entrata degli allievi che cominciano il Liceo sia la medesima. Ora supponiamo che le matricole provenienti da A abbiano un profitto universitario nettamente superiore alle matricole provenienti da "B" e questo indicatore sia considerato per valutare la qualità dei due Licei. "A" potrebbe mantenere alto il suo indicatore ricorrendo a tassi di bocciature (insuccessi scolastici) più elevati rispetto a "B". E’ un’ ipotesi perfettamente plausibile.

Ecco allora che, secondo un’ ottica strettamente aziendale, in questo caso il tasso di bocciature è correlato con la qualità dei Licei (e quindi, si presume, anche con il finanziamento). L’ esatto contrario delle conclusioni che il virgolettato implica qualora si adotti una prospettiva aziendale.

venerdì 28 marzo 2008

Corto circuiti: contro l' "aziendalizzazione" della scuola in nome della...responsabilità!? (4)

Israel chiude con fragore la saracinesca rinviando ai suoi libri, ripetendo sia gli insulti che l' unico concetto ma, a mio avviso, senza minimamente considerare le repliche.


È una discussione inutile, sterile. Lei continua a dare per ovvio che le sue caratterizzazioni dell'azienda sono necessarie e sufficienti a definire la scuola come tale. È come se si dovesse discutere se un teorema sia vero assumendo come premessa che è vero. Basta poi l'affermazione: "che l’ economista rivendichi un suo dominio intellettuale sulle altre discipline è un fatto tecnico". Un economista serio si vergognerebbe di dire che lui ha un dominio intellettuale sulle altre discipline perché gli verrebbero attaccati (giustamente) i barattoli dietro.


Ed ecco la mia replica insolitamente calma (ne vado molto orgoglioso).


Professore, lei in molti casi, molto semplicemente, si arrabbia avendo travisato il senso di parole che invitavo per precauzione inutile a non travisare.

Per esempio quando parlavo di “dominanza intellettuale”.

Probabilmente è colpa mia visto che ne parlavo solo di passaggio senza le dovute precisazioni. Ma lascio cadere questa questione perché poco pertinente al cuore del discorso.

La cosa singolare è che lei insiste dicendo che assumo come “ovviamente benefica l’ aziendalizzazione”.

Resto stupito visto che mi sono preso la briga di ELENCARE ALMENOo 6 (SEI) condizioni in presenza delle quali l’ aziendalizzazione risulterebbe faticosa quando non impossibile. Sono condizioni chiare, sono condizioni per la verifica delle quali sarebbe facilissimo stendere un protocollo di sperimentazione e avere l’ esito.

Popper sarebbe abbastanza soddisfatto, invece lei insiste (ma mi avrà letto?) nel dire che per me “è tutto ovvio” e si deve solo procedere.

Riproduco qui il paragrafo passato inosservato e riguardante i vincoli.

[…Tanto per fare qualche esempio. Se i soggetti in ballo in questo gioco fossero "sistematicamente irrazionali" (e molti psicologi lo sostengono, vedi Kahnamen), l´ incentivazione e la responsabilizzazione avrebbero effetti perversi, sarebbe assurdo insistere su una logica aziendale. Se i soggetti non presentassero un movente almeno vagamente egoista, l’ aziendalizzazione non servirebbe a niente (ai santi non servono incentivi). Se i benefici forniti dalla scuola non fossero in qualche modo "misurabili" non avrebbe alcun senso "aziendalizzare". Se il soggetto pubblico è afflitto da storture istituzionale ed esprime delle volontà che nulla hanno a che fare con la produzione di beni pubblici, allora sarebbe addirittura pericoloso "aziendalizzare" (poiché l´ agenzia è particolarmente efficiente nel servire l´ utenza, sarebbe ancora più minacciosa qualora i desideri dell´ utenza fossero distorti). Se la struttura delle relazioni nella realtà che si vuole "aziendalizzare" è di tipo "one shot", allora meglio rinunciarvi o agire con la massima prudenza. Se invece l´ interazione tra i soggetti implicati è continua ed evolutiva, allora il terreno è più fertile...]


Tra un invito alla modestia, uno alla vergogna, una rinfrescata di economia aziendale a cura di un eccellente critico di letteratura mitteleuropea, un’ ammonizione a non bollare la Arendt come “superata” (avevo solo detto che non poteva tener conto dell’ opera di studiosi – e ho citato di passaggio due Nobel – venuti dopo di lei) , lei ha pure tirato fuori qualche argomento che mi incuriosisce:

“…ci sono solo giudizi qualitativi intersoggettivi che possono esprimersi in limitate forme quantitative…”

Non capisco bene quali siano le caratteristiche di questi giudizi (non sono cardinali? Non sono ordinabili? Non sono confrontabili?...), sicuramente lo apprenderò dalla lettura del suo ultimo libro, perché se quelle “limitate forme quantitative” sono limitate al punto da essere irrilevanti, allora potrebbero effettivamente mettere in discussione una delle sei caratteristiche. Come vede non è tutto “ovvio”.

Certo che senza la possibilità di “ordinare” (condizione necessaria e sufficiente) siamo in panne… niente aziendalizzazione: stipendi uguali per tutti, carriere automatiche, centralizzazione compulsiva, limiti alla sperimentazione, finanziamenti a pioggia, meriti non compensati e una responsabilizzazione rilevante solo per i Santi, ovvero per coloro che la sentono in assenza di qualsiasi incentivo.

Naturalmente poi ci sono i fatti, e sui successi dell’ aziendalizzazione (o responsabilizzazione) della scuola mi è difficile riferire poiché non riesco a mettere i link.

Prendiamo, che ne so, i licei di New York. La crema è rappresentata in larga parte dal privato (si paga, proprio come si paga l’ azienda!), almeno 13 Licei privati sono considerati d’ eccellenza. Il loro costo è elevatissimo (dai 25 ai 30 mila dollari). Si discute molto se una simile realtà sia equa ma si discute mooolto meno sulla qualità dell’ istruzione impartita là dentro ai futuri nobel e presidenti della repubblica! Se poi andiamo ai Licei pubblici, nel disastro generale, ne svettano due o tre. Uno è lo Stuyvesant (http://en.wikipedia.org/wiki/Stuyvesant_High_School). Gratis, paga l’ utente pubblico. Eppure anche lì i criteri di incentivazione, valutazione e differenziazione trovano ampia applicazione. A partire dall’ ammissione (100 allievi ogni anno su 20.000 richieste). Si puo’ parlare anche di Finlandia (generalmente considerato il paese con i migliori risultati in ambito scolastico). La fetta di privato non è ampia ma la decentralizzazione (elemento centrale per una concorrenza) e l’ autonomia (elemento centrale per l’ innovazione) sono fortissimi visto che l’ intero sistema scolastico è per lo più su base comunale…

Nota bene che non parlo dell' Università, lì non ci sarebbe proprio storia.

Corto circuiti: contro l' "aziendalizzazione" della scuola in nome della...responsabilità!? (3)

Girgio Israel ci dedica ancora parte del suo tempo. E ce lo fa pesare un casino, ma lui è fatto così. intanto noi, finchè il grasso cola, ce lo succhiamo. Eccolo, più spinoso e tormentato che mai.

Claudio Magris: «... l’imperante economicismo, che crede di poter trasformare di colpo le università in imprese, produce l'effetto contrario. L’impresa ha la sua logica e la sua peculiarità e proprio per questo non ogni cosa è un’impresa. Una famiglia, una fabbrica di scarpe e una brigata alpina devono essere tutte gestite con oculatezza economica, senza sprechi e facendo quadrare i bilanci, ma senza scordare che il fine della fabbrica di scarpe e il profitto, il quale invece per la famiglia e per la brigata alpina – e anche per l’università – è un mezzo necessario per realizzare altri fini. La Fiat è un’azienda, l’Italia o la Chiesa no, e ciò non significa sottovalutare la dignità della Fiat. Una cultura d’impresa inoltre non si crea per decreto o vezzo intellettuale. Le università americane hanno dei patrimoni che investono, ma non passano tutto il tempo a parlare di investimenti, anche quando è il momento di parlare di filologia classica o di odontoiatria. Da noi invece le università, strangolate dalla povertà di mezzi che spesso le priva delle più elementari attrezzature scientifiche e assordate dall’aziendalismo ideologico, parlano solo di soldi senza produrli».

Lei continua a fare un discorso autoreferenziale. Concepisce, forse senza rendersene conto, l'azienda come l'unica dimensione possibile e quindi si chiede - ovviamente - come la scuola possa non esserlo.

«Quanto al “senso” del termine “aziendalizzazione”, con tutti i miei limiti, penso di conoscerlo abbastanza visto che lo impiego all’ interno della disciplina che lo ha coniato», Già ma provi a uscire un momento da questo contesto e a chiedersi se esistano altre dimensioni che in esse non rientrano. Se lei cita un economista sull'aziendalizzazione di agenzie pubbliche e lo applica alla scuola, da per scontata la tesi... È un elementare circuito logico.

«Mi rimane invece il dubbio che il senso originario abbia subito delle storpiature nel passare in altri “ambiti”, magari distanti dalla disciplina che lo impiega nel senso originario». Già, ma perché deve per forza passare in altri ambiti?... Provi a cambiare occhiali e a chiedersi se il mondo non contiene per caso qualcosa di più che aziende.

«Quindi la scuola non ha né obiettivi pubblici né obiettivi privati da perseguire?»

Sì, ma non sono obbiettivi assimilabili alla produzione di oggetti o al conferimento di servizi. È trasmissione di educazione e di cultura, che non sono oggetti o servizi, tantomeno misurabili in termini monetari.

«Quindi la scuola non produce né costi né benefici? Quindi in ambito scolastico è superflua ogni forma d’incentivo?»

Sa che una condizione necessaria non è anche sufficiente? Altro elementare errore logico. Aspetti che sono tipici dell'azienda - e magari la definiscono - non è detto che bastino a definire la scuola o la Chiesa. Per esempio un insuccesso scolastico di un alunno non implica affatto un fallimento della scuola o un errore dell'insegnante, come credono invece certi ottusi tecnocrati che stanno in tal modo deresponsabilizzando studenti e famiglie.

«Quindi nella scuola non c’ è possibilità di individuare uno scambio tra corpo docente e allievi?»

Sì, ma è un rapporto di persone che non si riduce minimamente a uno scambio di merci o di servizi. Sto per andare a lezione e so di non prestare affatto un servizio, ed è proprio per questo che potrò essere un buon insegnante.

«Quindi nella scuola non ha senso il tentativo di progettare azioni razionali anche solo in forma limitata?»

Ho passato una vita a lavorare sul concetto di razionalità e quello di cui lei parla, legato alla filosofia utilitarista, è una aspetto minimale e ridottissimo delle funzioni della ragione. Mi viene voglia di citare il discorso di Ratisbona....

«Oppure in questo ambito non ha alcun senso “misurare” le grandezze a cui accennavo e una misura vale l’ altra?»

Non ci sono grandezze che si misurano, ci sono soltanto "giudizi" qualitativi intersoggettivi che possono, riflettendo l'esperienza dell'insegnante, esprimersi in limitate forme quantitative. La misurazione delle qualità è una cialtronata fallimentare di quella pseudoscienza che va sotto il nome di docimologia.

«Se le nostre scuole sono dei diplomifici in cui irrompono genitori isterici è per altri motivi (obbligatorietà della scuola, valore legale del titolo di studio, fallimento dell' utenza pubblicas, mancanza di un college premium sul mercato del lavoro…) »

Questa - me lo lasci dire - è una sciocchezza assoluta che dimostra che lei non ha la minima idea di cosa accade nel mondo della scuola e dell'università e delle loro funzioni sociali. Bisognerebbe rendere la scuola non obbligatoria?... Ma per favore...

«io “chiedevo”, e senza alcuno spirito polemico »

Vede, non mi dica che non sono disponibile a impiegare tempo per rispondere. Ma non pensa che anche lei dovrebbe impiegare qualche tempo a leggere quello che è stato scritto sulla scuola, modestamente e senza pregiudizi, invece di pensare di poter risolvere i massimi sistemi con quattro chiacchiere? Non dico leggere i miei libri, ma per esempio quelli che ho citato nell'articolo su L'Occidentale e tanti altri scritti. E non bollare le riflessioni di Hannah Arendt come superate (dachi, poi?) senza neppure averle lette né sapere di cosa parlano.
Vede - e non la prenda come polemica, vista l'attenzione che le sto dedicando - questi atteggiamenti sono anche un termometro di come si sia perso il senso di cos'è la cultura.
Che è in primo luogo: riflessione, lettura, modestia, non credere di poter traslare le proprie conoscenze dappertutto come chiave del mondo, uscire dal proprio guscio.

Anche finod (la cui storia non conosco) ha ritenuto di prendere la parola, ecco il suo contributo:

io trovo tutto questo un po' surreale: "il genitore (utente) andrebbe semmai a prendere a schiaffi il professore perché suo figlio non ha superato i test di ammissione dell’ Università prestigiosa (prodotto avariato)"... ma in un caso del genere questo genitore non dovrebbe prendere a schiaffi (mi auguro metaforici) suo figlio al posto del professore? O magari se stesso, perché ha spinto suo figlio a cercare di entrare in una facoltà per cui non è portato?

Ora la mia replica.



Caro Finod, quindi tu “trovi surreale” un sistema d’ incentivi per cui un genitore chieda alla scuola frequentata dal figlio di fornire una preparazione adeguata allo stesso affinchè costui possa affrontare preparato i test d’ ammissione in un’ Università prestigiosa?

Cosa vorresti in alternativa, forse che il genitore chieda il pezzo di carta e faccia la piazzata se non l’ ottiene? E’ questo un mondo reale e fornito dei corretti incentivi.

Caro professore. Mi scusi se accenno ad un paio di risposte anche si in difetto rispetto alla lettura completa della sua produzione.

Le chiedo solo di considerare gli argomenti. Quanto al tono, non posso parlarle direttamente, ma le assicuro che è modesto e umile come vuole lei.

Il fatto che l’ economista rivendichi un suo dominio intellettuale sulle altre discipline è un fatto tecnico, mica una questione di modestia personale.

L’ azienda ha come FINE la realizzazione di un profitto. Vero (anche se Magris non mi sembra sia sul punto una fonte particolarmente autorevole).

Il profitto è correlato con la soddisfazione del consumatore (il nostro prossimo).
La soddisfazione del nostro prossimo è legata ai suoi FINI.

In ultima analisi tutto è legato ai fini del consumatore.

Nel caso della scuola il consumatore è costituito dal SOGGETTO PUBBLICO e dalle FAMIGLIE.

Il “profitto” della scuola è dunque legato in ultima analisi AI FINI DEL SOGGETTO PUBBLICO E DELLE FAMIGLIE.

Cosa c’è è che non va? Non è proprio il mondo che vogliamo quello in cui vengono serviti al meglio i fini del soggetto pubblico e delle famiglie?
L’ azienda NON E’ AFFATTO L’ UNICA DIMENSIONE POSSIBILE (quindi non colgo l’ accusa di autoreferenzialità)!!

Tanto per fare qualche esempio. Se i soggetti in ballo in questo gioco fossero “sistematicamente irrazionali” (e molti psicologi lo sostengono), l’ incentivazione e la responsabilizzazione avrebbero effetti perversi, sarebbe assurdo insistere su una logica aziendale. Se i benefici forniti dalla scuola non fossero in qualche modo “misurabili” non avrebbe alcun senso “aziendalizzare”. Se il soggetto pubblico è afflitto da storture istituzionale ed esprime delle volontà che nulla hanno a che fare con la produzione di beni pubblici, allora sarebbe addirittura pericoloso “aziendalizzare” (poiché l’ agenzia è particolarmente efficiente nel servire l’ utenza, sarebbe ancora più minacciosa qualora i desideri dell’ utenza fossero distorti). Se la struttura delle relazioni nella realtà che si vuole “aziendalizzare” è di tipo “one shot”, allora meglio rinunciarvi o agire con la massima prudenza. Se invece l’ interazione tra i soggetti implicati è continua ed evolutiva, allora il terreno è più fertile…

Potrei proseguire ma mi fermo qui.

Cinque esempi che ci indurrebbero a rinunziare, penso che siano sufficienti per scrollarmi di dosso una volta per tutte l’ accusa di autoreferenzialità.
Non c’ è alcun "circuito logico perverso" visto che formulo delle ipotesi verificabili che se verificate porterebbero ad abbandonare il progetto.
Potrei fare degli esempi. Facciamo il caso della difesa, il quinto requisito è problematico, Cio’ rende l’ “aziendalizzazione” sconsigliabile se non sotto molti vincoli.

Lei dice che la “trasmissione di cultura” non è assimilabile a un servizio. Sarebbe così se un’ operazione del genere non fosse misurabile in alcun modo. Se i soggetti utenti (Pubblico+famiglie) non potessero in nessun modo valutare l’ arricchimento che deriva da simili relazioni. Se non esistessero proxy credibili in merito. Vede come non sono affatto autoreferenziale?

Ho citato alcune caratteristiche che assimilano la scuola ad un’ azienda (con utenza pubblica). Lei dice che sbaglio poiché considero solo le “condizioni necessarie”. Ma questo è semplicemente falso, io considero quel pacchetto di condizioni “necessario E sufficiente” per procedere con forme di aziendalizzazione. Ripeto: un’ azienda con UTENZA PUBBLICA (oltreché privata).

A proposito di “problemi con la logica”, c’ è un passaggio abbastanza chiaro.

Io dicevo: “«Se le nostre scuole sono dei diplomifici in cui irrompono genitori isterici è per altri motivi (obbligatorietà della scuola, valore legale del titolo di studio, fallimento dell' utenza pubblica, scarsa considerazione del curriculum scolastico sul mercato del lavoro, mancanza di un college premium sul mercato del lavoro…) »

Al che lei mi risponde: “…questa è una sciocchezza… bisognerebbe forse rendere la scuola non obbligatoria…”.

E’ una reazione completamente incongrua rispetto alla mia affermazione, mi mette in bocca qualcosa che non ho detto nè implicato.

Se dico che l’ “obbligatorietà della scuola” (magari fino a 18 anni) CONTRIBUISCE, in misura che non specifico, ANCHE al presentarsi di inconvenienti (il genitore reagisce perché vuole il figlio al lavoro e vede nella scuola una resistenza), lei, senza un nesso, mi rimprovera quasi di voler abolire l’ obbligatorietà! E' come se lamentandomi di un mal di testa lei mi dicesse che sono pazzo a volermela tagliare. Il mio sguardo si farebbe interrogativo.

Naturalmente il progetto di costruire delle Agenzie per la fornitura di servizi pubblici non è fondato esclusivamente su una razionalità utilitarista (come lei sembra affermare). Anzi, il ruolo principale è rivestito da razionalità differenti, di stampo evolutivo, un certo grado di autonomia serve proprio a quello (sull’ aziendalizzazione evolutiva vedi Simon, Hayek…e mi limito ai primi due Nobel che rammento e che si sono dedicati a questo tema).

Vede professore, “traslare le proprie conoscenze in altri ambiti” non mi sembra affatto presuntuoso, specie se in passato molti successi ci hanno arriso.

Le parlavo dell’ Agenzia delle Entrate. Faccio ora un altro esempio.

All’ economista recentemente, davanti allo sfacelo della giustizia, è stato richiesto - da qualche folle lei penserà - di “entrare in tribunale” (come ha già fatto da molto tempo nei paesi che ci sopravanzano).

Nel farlo ovviamente si avvale di esperti del settore. A loro chiede “ha senso dire che una procura funziona meglio di un’ altra”, “ha senso dire che un giudice lavora meglio di un altro”, “quali sono le proxy migliori per identificare l’ eventuale gap”...?

E’ dalle risposte dell’ esperto che imposta il suo modello, un modello per modificare l’ attuale realtà de-aziendalizzata (che piace a tantissimi: carriera uguale per tutti, aumenti a pioggia degli stipendi…).

A queste domande si puo’ tranquillamente rispondere che una certa grandezza NON E’ MISURABILE, l’ economista potrebbe convenire e rassegnarsi rinunciando. Assurde sono invece le reazioni che vedono in questo interessamento (richiesto da terzi che difficilmente sono in completa malafede) un’ interferenza, magari avendo in mente una concezione ante guerra dell’ economia.

Corto circuiti: contro l' "aziendalizzazione" della scuola in nome della...responsabilità!? (2)

Ho interagito con il prof. Giorgio Israel sul tema di cui al post (1). E' una personalità che stimo molto anche se dal carattere, a mio giudizio, piuttosto fragile e propenso a scambiare il disaccordo con l' offesa. Ecco qui di seguito le inutilmente aspre parole a cui ha affidato la sua replica.

Preferisco non leggere la polemica altrimenti viene voglia anche a me di essere polemico.

Il suo discorso è autoreferenziale perché lei non mette in discussione la ragione per cui la scuola non è un'azienda: e cioè perché non fornisce né prodotti né servizi, bensì qualcosa che non è né una merce né una prestazione di servizio: cultura ed educazione.

Quindi continuare a intorcinarsi sulla questione dell'utenza non ha senso, se utenza non c'è. Forse chi va a scuola è come chi va ad acquistare un prodotto al supermercato o a pagare una bolletta all'ufficio postale? È da questa pazzesca confusione che nasce lo sbandamento di quei genitori che vanno a prendere a schiaffi il professore se non promuove il figlio, come si protesterebbe in un supermercato che vendesse merce avariata.

Comunque non posso dilungarmi perché tutto questo è spiegato in dettaglio e argomentato nel mio libro. Andrebbe letta anche Hannah Arendt al riguardo. Quindi si tratta di cose serie e delicate (pensate da menti non di secondo piano) che non si risolvono con le formule dell'ingegneria gestionale o con gli slogan tipo benchmark, buoni per una fabbrica di automobili. E siccome sono questioni serie preferisco non vederle liquidate con polemiche sommarie, altrimenti - ripeto - cadrei anch'io nella polemica. Il che è facile, di fronte alla superficialità e ignoranza dei valutatori e tecnocrati che impazzano sulla scuola.

Un'osservazione detta davvero con spirito amichevole e costruttivo. Ma se uno dichiara di non saperne gran che del mondo della scuola e si trova di fronte a un'affermazione di cui dichiara anche di non capire bene il senso, non sarebbe meglio aspettare, riflettere, leggere, invece di buttarsi a corpo morto a far polemica? In fin dei conti, non pretendo che quel che dico sia la Verità, ma è frutto di riflessioni di anni e di letture documentate.



Ringrazio Giorgio Israel per la risposta fumantina che ha voluto dedicare la mio intervento.


Mi permetto un' ulteriore replica poiché penso che abbia un suo “contenuto” indipendentemente dalla lettura del suo ultimo libro (ho comunque letto il Liberarsi dai Demoni trovando una consonanza su più punti).


Ecco gli spunti che mi ha offerto.

“…ma se uno… si trova di fronte ad un'affermazione di cui dichiara…di non capire bene il senso… non sarebbe meglio aspettare, riflettere…”

Infatti io “chiedevo”, e senza alcuno spirito polemico (quello semmai era nell’ altrove che segnalavo, e non era poi nemmeno tanto aspro).

Quanto al “senso” del termine “aziendalizzazione”, con tutti i miei limiti, penso di conoscerlo abbastanza visto che lo impiego all’ interno della disciplina che lo ha coniato. Visto che ho partecipato da vicino ad alcune “aziendalizzazioni” di successo e ho una vaga idea di cosa le faccia fallire.

Mi rimane invece il dubbio che il senso originario abbia subito delle storpiature nel passare in altri “ambiti”, magari distanti dalla disciplina che lo impiega nell' accezione originaria. E poiché esiste un dibattito pubblico, queste storpiature non sono formalismi su cui sorvolare (sono molti i settori in cui, in nome della de-aziendalizzazione, potrebbere trovare fondamento la richiesta di privilegi smaccati e arbitrari).

“…la scuola non è un’ azienda…”

Quindi la scuola non ha né obiettivi pubblici né obiettivi privati da perseguire? Quindi la scuola non produce né costi né benefici? Quindi in ambito scolastico è superflua ogni forma d’ incentivo? Quindi nella scuola non c’ è possibilità di individuare uno scambio tra corpo docente e allievi? Quindi nella scuola non ha senso il tentativo di progettare azioni razionali anche solo in forma limitata? Oppure in questo ambito non ha alcun senso “misurare” le grandezze a cui accennavo e una misura vale l’ altra?

Sì perché la concezione di “azienda” nelle discipline economiche è parecchio mutata da almeno 25 anni (almeno dai lavori di Coase e Becker) e ho paura che Hanna Harendt non possa tenerne granchè conto. Senza queste nozioni la confusione semantica diventa rischiosissima.

L’ azienda è un organizzazione che si realizza per poter “internalizzare” i frutti dell’ azione che produce.

Internalizzare, cioè’ far ricadere sulle spalle di chi ha prodotto certe azioni le conseguenze di quelle stesse azioni. In altri termini, l’ azienda è un modo per agire in modo razionale sfruttando come armi la RESPONSABILITA’ e gli incentivi.

Laddove non ha senso parlare di “responsabilità”, di “incentivi”, di “azione razionale”, non ha senso neppure parlare di “aziendalizzazione”

“…superficialità e ignoranza dei valutatori e tecnocrati che impazzano sulla scuola…”

Guardi che anche il mercato è pieno di aziende (canoniche) che lavorano male per CARENZA NEL VALUTARE i propri dipendenti, i propri collaboratori, i prezzi futuri, i costi previsti… e chi più ne ha più ne metta. In genere subiscono una ristrutturazione per non fallire. Non una de-aziendalizzazione.

“…Forse chi va a scuola è come chi va ad acquistare un prodotto al supermercato o a pagare una bolletta all'ufficio postale? È da questa pazzesca confusione che nasce lo sbandamento di quei genitori che vanno a prendere a schiaffi il professore se non promuove il figlio, come si protesterebbe in un supermercato che vendesse merce avariata…”

Da questa lineare esemplificazione si coglie bene un classico ribaltamento dei termini.

Se la Scuola fosse un’ Agenzia demandata dall’ utenza (pubblica e privata) a fornire una preparazione all’ allievo (prodotto? servizio?), allora il genitore (utente) andrebbe semmai a prendere a schiaffi il professore perché suo figlio non ha superato i test di ammissione dell’ Università prestigiosa (prodotto avariato). E una situazione del genere (a parte gli schiaffi) non è certo patologica!!

Se le nostre scuole sono dei diplomifici in cui irrompono genitori isterici è per altri motivi (obbligatorietà della scuola, valore legale del titolo di studio, fallimento dell' utenza pubblica, mancanza di un college premium sul mercato del lavoro…)

L’ economista Alex Tabarrok (si è occupato soprattutto di carceri e ferrovie) individua tre fasi che inquadrano l’ aziendalizzazione di agenzie pubbliche 1) realizzazione (ovvero responsabilizzazione dell’ agenzia) 2) fallimento dell’ utenza (in genere l’ utenza è il soggetto pubblico che fallisce nel progettare le richieste o nell’ implementare i controlli) 3) ristrutturazione dell’ utenza 3) successo crescente.

Ci sono tutti i segnali per dire che siamo nella fase 2.

giovedì 13 marzo 2008

Regole contro Mercato. Rodrik contro De Soto?

La fama che circonda personaggi come Rodrik e De Soto spinge a riflettere.

Si tratta di due grandi economisti che si sono spinti a fondo nella ricerca inaugurata da Adam Smith: rinvenire il segreto che rende ricca una Nazione e povera l' altra.

Il primo si è spesso mostrato critico verso le ricette comunemente utilizzate per gestire la globalizzazione.

Poichè queste ricette, cucinate dall' FMI e dalla Banca Mondiale, vengono con faciloneria etichettate come neo-liberiste, va da sè che l' economista di Harvard venga ritenuto poco più che un social-democratico.

Mi è capitato di sentire parecchi no-global citarlo attingendo alla ricchissima messe di esempi che l' Illustre ha con dovizia sciorinato nelle sue preziose pubblicazioni.

Al contrario, De Soto, si è spinto a difendere le economie illegali di cui ribolle la suburbia dei paesi poveri. I suoi libri presentano nella controcopertina i giudizi sperticati di Coase e della Thatcher. Chiude ogni suo paragrafo con una perorazione del diritto di proprietà. Ha appena vinto il premio Friedman...Insomma, appare a molti come un mastino del mercato spinto.

Eppure, quando poi vai a guardare, non c' è una grande differenza nell' approccio dei due.

Entrambi, sulla scia dell' insegnamento neoclassico, vedono nella qualità istituzionale la chiave di volta delle questioni legate allo sviluppo. Entrambi predicano forme di decentramento nell' azione volta a costruire dette istituzioni.

Rodrik giudica questo decentramento come garanzia di un approccio molteplice da contrapporre al Modello Unico (e Neoclassico) degli organismi internazionali.

De Soto si spinge ancora oltre e invita a rintracciare l' esistente embrione di regole condivise che già è presente - spesso in forma illegale - nella vita quotidiana dei diseredati. Una volta rintracciato quello scheletro, la formalizzazione del diritto dovrà tenerne conto.

In fondo dicono qualcosa di molto simile.

C' è però un elemento meramente retorico che li differenzia e che forse crea un' ingiustificata frattura negli schieramenti in cui vengono poi collocati.

Nella prosa di Rodrik si tende a sottolineare l' importanza delle Istituzioni Non di Mercato. Viene usata esattamente questa locuzione in modo che il lettore resti colpito da quanto il fondamento di tutto non sia affatto il mercato. Rodrik ci appare subito come un non-fondamentalista, per lui contano le Regole. Il mercato viene dopo.

Altra storia per De Soto. Invitandoci a formalizzare dette Regole sulla base delle consuetudini, il peruviano non puo' enfatizzare l' estraneità di quelle Regole rispetto ad un fenomeno contrattualistico. La consuetudine infatti emerge hayekianamente da una miriade di interazioni umane, ovvero da qualcosa che assomiglia molto ad un mercato.

Personalmente attribuisco a Rodrik un' imprecisione retorica. Per i fini che si propone lo studioso è praticamente irrilevante ma per il giudizio ideologico che a me interessa ora, no.

Come distinguere infatti chi assume le Regole come fondamento contrapponendole al mercato, operazione che traspare dalla retorica di Rodrik?

In genere costoro prediligono soluzioni centraliste: esistono delle Regole e vanno poste a fondamento. Tutto deve girare intorno ad esse.

La soluzione "localista" in fondo cos'è se non un "mercato delle regole": esistono dei set istituzionali differenziati, che competano visto che sono entrambi legittimi. Ma optare per un "mercato delle regole" è un modo per asserire la superiorità del Mercato sulle Regole.

Poichè abbiamo visto che sia De Soto che Rodrik propendono per la soluzione istituzionale localista, allora entrambi, nella diatriba Regole contro Mercato, appartengono di diritto allo stesso schieramento.



ADD1. A chi si infervora nel proclamare in astratto la necessità di un' imprescindibile gabbie di regole a fondamento della vita civile e a barriera di un mercato pervasivo e corruttivo, fate pure presente che sono in molti a ritenere la Costituzione come un contratto su cui gli italiani fondano la loro convivenza. Poi fate anche presente che "il contratto" costituisce l' atto di mercato per eccellenza. Dopodichè attendete risposta.

mercoledì 5 marzo 2008

Soft paternalism

Le regole di default incidono eccome sui comportamenti. Prendi il caso di una regola relativa al silenzio assenso.

Ci sono però buoni motivi per ritenere che la loro influenza duri poco qualora tocchi persone realmente interessate alla scelta in questione.

Direi che costituiscono un prezzo accettabile per molte riforme.

martedì 26 febbraio 2008

Difendere la democrazia sbandierando Chuchill

E' una mossa ad alto contenuto ideologico:

"...la democrazia è un gran brutto sistema di governo, senonchè tutti gli altri sono peggio...".

Dal fatto che sistemi di governo dittatoriali abbiano combinato disastri inenarrabili, non segue che "la democrazia" sia il miglior sistema di governo a nostra disposizione. E lascio da parte le plausibili teorie che vedono le dittature novecentesche come un parto dei sistemi democratici anzichè come una loro antitesi.

Se qualcuno dicesse:

"...il mercato fallisce spesso, è comunque il miglior modo che abbiamo per regolare le nostre relazioni...";

sarebbe ben presto accusato di essere un fondamentalista, gli verrebbe fatta notare la necessità di regole stringenti che ordinino e correggano l' azione del mercato.

Tutto giusto, ma allora perchè non viene fatto prontamente notare ai chuchilliani di ogni risma quanto sia indispensabile porre limiti ben precisi al metodo democratico, pena il caos sociale?


E' evidente che su tutta la faccenda incomba una cappa di dogmatismo. Asteniamo pure il giudizio ma evitiamo di negarla.

Sul punto vedi BC in MRV cap.8

Democrazia & Sviluppo

Una relazione molto complessa, praticamente inesistente.

"...molti di noi, ardenti democratici, vorrebbero sperare che la democrazia non sia solo un dogma benefico in sè, ma sia anche una fonte di felicità e sviluppo. Purtroppo la letteratura empirica sul tema non è in grado di aiutarci e di persuaderci su questo punto, fallisce nell' individuare un nesso di causalità tra democrazia e sviluppo. Rimango comunque ottimista sugli effetti salutari che una democrazia produce nel lungo periodo"

Queste poche righe sono utilizzate da BC in MRV p.187 per testimoniare quanto il dogmatismo intorno ai benefici della democrazia sia di gran lunga più ostinato rispetto a quello intorno al mercato. Ciononostante l' accusa di "fondamentalismo" aleggia continuamente avendo come obiettivo unico chi supporta soluzioni di mercato.

martedì 19 febbraio 2008

L' etica puo' dire ancora la sua

Mai sbandierata nelle conversazioni con gli altri, non dovrebbe però cessare di fornirci un orientamento.


"...We see the behavior of free people, and appreciate it as being a just and moral system, not to mention a vastly successful one. Yet many still forgo individual liberty in preference to allowing state control over aspects of life. As Whittaker Chambers stated later in his memoir, "Men have never been so educated, but wisdom, even as an idea, has conspicuously vanished from the world." Ethical behavior not only has a role in the framework of freedom, it is in its very nature. And it’s because of this wisdom that we must always remember the things that are just, moral, and successful in their ideas and consequence- free markets and free men..."

Quando è il mercato a renderci più buoni

Stroncando Hobbes.

"...contrary to widespread belief, free markets do not substitute self-interest for morality. Free markets enable moral action by channeling existing self-interest into conduct benefiting both the individual and those around him. Free markets harmonize self-interest..."

sabato 9 febbraio 2008

Leggere Tyler Cowen: In Praise of Commercial Culture


  1. Intro. La domanda: il capitalismo favorisce la cultura?

  2. Intro. 5 vie per dire di sì con relativi controesempi.

  3. Intro. Definizione di "Capitalismo".

  4. Intro. Popolari contro elitisti. Wells vs.Bloom. Problemi di estetica.

  5. Intro. L' argomento principale: il mercato garantisce complessità. Non è poco vista la preponderanza dell' elemento soggettivo in materia di estetica.

  6. Pessimisti e Ottimisti culturali: la sfilza dei nomi e delle scuole.

  7. Cap.1. Capitalismo e società ricche come garanti dell' indipendenza artistica: la cascata degli esmpi e la fonte delle risorse (famiglia, mecenati, università, lavoro...).

  8. Cap.1. Creatore, distributore, consumatore. Il mix delle motivazioni per produrre arte.

  9. Cap.1. I soldi come fine (es. Rinascimento, Mozart) e come mezzo.

  10. Cap.1. Teorema di Baumol: la produttività crescente rende l' attività artistica più costosa poichè in quel settore la produttività non cresce. Evidenze a confutazione. I benefici della tecnologia per la produttività artistica.

  11. Cap.1. Specializzazione e diversità. Capitalismo e varietà: esempi.

  12. Habermas contro Tyler: la cultura come Ragionamento (Platonico) contro la cultura come Competizione.

  13. Cap.1. Il mercato garantisce dinamismo e innovazione. Ma l' innovazione è anche una chiave dell' arte. Ruolo degli outsiders e delle minoranze. Esempi (neri, gay, ebrei, impressionisti...).

  14. Cap.1. Cultura di massa: TV e sport. Scarsa concorrenza, scarsa diversità. Con cavo, satellite e digitale la musica cambia.

  15. Cap.1 Il governo, meglio quando agisce come un privato in maschera. Teorema: creare burocrazia (lavori poco impegnativi) sostiene l' attività artistica.

  16. Cap.1. Europa vs. USA. Fondere e diversificare è il compito della modernità.

  17. Cap.2. Lettura e tecnologia: 3 novità epocali.

  18. Cap.2. Letteratura come ferro di lancia per gli ottimisti: il mercato funziona e la diversità si vede (esternalità delle arti visive).

  19. Cap.2. Il complesso dei bolckbuster sbriciolato da internet.

  20. Cap.2. Johnson vs Swift.

  21. Cap.3. Arti visive: tecnologie, ruolo della città e riproducibilità
  22. Cap.3. 4 città considerate come case study.

  23. Cap.3. Firenze, arte e commercio. Il ricco compra, l' artigiano produce (domanda e offerta). Firenze rispetto alla milano degli Sforza o alla Spagna dei filippi.

  24. Cap.3. Benjamini: si perde l' aura dell' opera ma si guadagna in ricchezza dell' offerta e diffusione dell' opera.

  25. Cap. 4. Musica: tecnologia distributiva e facilità di accesso oggi. La pittura si possiede, la musica no: l' indipendenza e la competizione passa dai piedi, avvantaggiato un territorio frammentato come quello tedesco (Haydn, ozart, Beethoven). Il ruolo della Hausmusik. Il rifiuto del mercato: Wagner, Schoenberg, Strawinski, Cage. La radio, dischi e produttività alle stelle. La musica contemporanea: in un mondo ricco si puo' permettersi una nicchia di soli specialisti, cosicchè anche il compositore diviene uno specialista. Rock e capitalismo: il nesso scoperto dai sovietici.

  26. Cap. 4. Contro la tesi Frank/Cook per cui la facile riproducibilità nuoce alla diversificazione.

  27. Cap. 5. 9 motivi per spiegare il pessimismo culturale intorno alla cultura prodotta nella società dei commerci 1) illusione cognitiva 2) funzione dell' anziano 3) competizione culturale 4) lo scandalo dei sensi 5) religione 6) politica della stabilità 7) multiculturalismo e staticità 8) elitismo 9) psicologia pessimista.

  28. Il pessimismo puo' far bene: meglio se preso nelle dosi che produce il mercato.

giovedì 7 febbraio 2008

Per liberalizzare serve il contentino ai recalcitranti?

Boldrin, contro Giavazzi, dice che non ha senso.

Confutando il nesso causale [+libero mercato]=>[+povertà], si tenta di indebolire le pretese di Giavazzi. In alternativa e con le stesse intenzioni viene preso in considerazione il nesso: [+libero mercato]=>[+diseguaglianza].

A me sembra che il nesso da considerare sia: + libero mercato => + rischio.

Una comunità a lungo evolutasi nelle artificiose rassicurazioni del welfare all' italiana - che, tanto per esemplificare garantiva sia il posto fisso a vita che la disoccupazione a vita - è letteralmente terrorizzata anche solo da un pizzico di rischio in più. Persino la povertà è preferibile ad un rischio minimo di impoverimento relativo. I costi-opportunità sono per noi gravosissimi, se ci propongono due tariffe telefoniche anzichè una non dormiamo la notte per la paura di aver fatto la scelta sbagliata...

Senza contare che le liberalizzazioni avvantaggiano un individuo che oggi è solo "statistico" (sarò forse io? Ho le qualità e la fortuna per essere io?) mentre colpiscono un individuo ben specificato e cosciente (dal lavoratore iper sindacalizzato, ai noti percettori di rendite). Il primo rimuginerà sulle sue sorti con un filino di speranza, il secondo invece farà un baccano d' inferno.

E' per questo che, devo ammetterlo, ho l' impressione che un po' di zucchero occorra per la pillola.

Dato il sadismo e l' invidia connaturata nel genere umano, forse il miglior modo per consolare chi si ritiene a torto colpito da forme di liberalizzazione, consisterebbe nel colpire anche il suo vicino con lo stesso bastone. Mal comune mezzo gaudio: questo principio sì che tiene conto anche del "fattore culturale" senza intaccare il "fattore istituzionale".

Una strana domanda

Inclinata positivamente.

Wine, we know, gets better with age - but now it appears it tastes better the more it costs.
Researchers at the California Institute of Technology have shown that a person's enjoyment of wine can be heightened if they are simply told that it is an expensive one.
Twenty-one volunteers were asked to sample different bottles of Cabernet Sauvignon and rate the ones they preferred.
The only information they were given was the price of the wine - but in a number of cases, they were not told the real price. In one case, the volunteers were given two identical red wines to drink and were told that one cost much less than the other.
Most described the "higher priced" wine as much more enjoyable.
Researchers also managed to pass off a $90 (£46) bottle of Cabernet Sauvignon as a $10 bottle and presented a $5 as one worth $45.


sabato 2 febbraio 2008

Privatizzare gli enti locali. Deliri ultraliberisti.

Leggevo questo post tratto dal blog "Lettere ad Oreste". Nell' auto-proclamato "delirio liberista" si tenta di schematizzare una privatizzazione della politica. In realtà non si tratta di deliri, visto che si rifugge da soluzioni irrazionali, quanto piuttosto di utopie più o meno spinte.

"...perchè la privatizzazione degli enti locali funzioni, sarebbero necessarie gigantesche società di capitali in grado di acquistare tutto il territorio dell'ente locale. Il modo più semplice sarebbe offrire quote azionarie ai piccoli proprietari...".

Questa ipotesi non dice ancora niente, si ipotizza una corporation con azioni distribuite tra i cittadini. Il contenuto cruciale sta nella governance di questa impresa. Se ad ogni cittadino si attribuisce un' azione non negoziabile, oppure se ad ogni proprietario di azioni non negoziabili si attribuisce un voto, allora siamo in una semplice democrazia, esattamente come ora. Anzi, molti servizi sarebbero così "nazionalizzati".

Se invece, pur continuando a valere i vincoli del paragrafo precedente, i diritti di cittadinanza vengano riservati ai proprietari, allora siamo come in una democrazia del XIX secolo.

Ma siccome non mi sembra che l' esito auspicato sia quello appena descritto, ammettiamo pure che le azioni siano negoziabili e che la proprietà si concentri in poche mani. La gestione del territorio, si dice, dovrebbe diventare più efficiente. Vengono elencate più ragioni che sono poi tutte riconducibili alla seguente:

"...non si correrebbe alcun rischio di free-riders..."

E' difficile che "forti concentrazioni di proprietà" eliminino comportamenti opportunistici. Semmai è il contrario, ce lo dice la teoria del monopolio. In questa teoria chi offre il servizio è spinto alla notoria inefficienza e alla sottoproduzione del bene di cui è monopolista. Parecchi azionisti di minoranza sarebbero sacrificati.


L' efficienza non è mai garantita dalla semplice "privatizzazione", occorre anche la competizione.
Ben diverso il caso in cui tutte le azioni appartenessero ad un unico soggetto. Allora sarebbe possibile un urbanizzazione efficiente con eventuale rivendita parcellizzata del bene.
Resta il dubbio se la creazione di tanti piccoli sovrani non comporti dei rischi alla sicurezza.