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mercoledì 19 marzo 2008

Rianimare i classici

"...mi chiedo se il rifiuto del nostro Ottocento non sia da identificare in una distanza linguistica e ideologico-sociale..."



Certo che se un libro lo addomestichi privandolo della sua "lingua", poi lo spogli pure delle sue "idee" e, per non sentirlo troppo lontano, neutralizzi anche il contesto sociale che lo ha visto nascere, allora mi sa che finisci per trovarti in mano qualcosa di leggermente diverso.



In fondo, se è vero che il sapere letterario non sia cumulativo nella misura in cui lo è invece quello scientifico, forse il miglior modo di cogliere in presa diretta il nucleo bruciante dei "classici" resta quello di leggersi e lasciarsi scottare dai "grandi" contemporanei anzichè dai "traduttori".



Faccio alcuni esempi concreti. L' irresolutezza di Amleto la si sente meglio nella forma spoglia e tragi-comica di Zeno Cosini piuttosto che in un Amleto "tradotto". Il neo-paganesimo di Boccaccio lo colgo con più vivacità nei pepati racconti provinciali di un Piero Chiara anzichè in un Boccaccio pre-masticasto. Sia le rabbie cupide di un Macbeth che le collere rancorose di un Otello, preferisco farmele raccontare da un Cioran o da un Bernhard. I surrealismi di Ariosto vengono meglio ai suoi colleghi padani di oggi (Cavezzoni, Scabia...). Le Tragedie greche le leggo per decifrare il "paradosso di Clitennestra" ma se voglio godere della loro forza dilaniante preferisco lasciarmi investire da una "diademata" di Testori. Per assaporare al massimo le festosità coprlaliche di un Rablais mi affido a dario Fo anzichè ad una riduzione del classico; se invece voglio figurarmi i suoi furori farfuglianti, cosa c' è di meglio che un Celine? Penetro più a fondo la sensualità estenuata di un Gongora attraverso quella rappresentata da Huysman, capisco meglio la non gratuità del suo barocchismo involuto leggendo Gadda. E si potrebbe continuare.



Poichè all' innovatore va reso merito trovo giusto che gli studiosi risalgano alle fonti e glorifichino il classico greco-latino-medioevale-moderno. Ma il puro godimento estetico, io, da lì non riesco più a trarlo se non con l' annacquatura di mille mediazioni attraverso le quali si perde ogni fragranza.



Una cosa è certa, alcune attitudini attraversano il tempo indenni molto più che altre. Per restare al nostro ottocento, il sarcasmo parodistico di un Belli o di un Porta potrebbe fare bella mostra di sè anche nello Zelig di venerdì prossimo senza tanti ritocchi. E, in questo settore, si puo' arretrare fino a Petronio e a Aristofane. Anche lo scavo psicologico al di fuori del contesto narrativo si mantiene bene nei secoli. I moralisti francesi sono uno spasso anche oggi e i "Caratteri" di Teofrasto valgono per freschezza quelli di Canetti.



P.S. pensando all' ottocento italiano penso a Pinocchio. Regge magnificamente senza traduzioni o traslazioni. A proposito, anche pensando ad "Alta Voce" mi viene in mente Pinocchio. Mi sa che per il primato Busi se la debba vedere con Poli.

martedì 18 marzo 2008

Il preservativo dei classici

Purtroppo devo fare una confessione, non sono mai riuscito a stabilire un vero contatto con i classici (parlo ora di testi precedenti al XIX secolo), ho sempre sentito la presenza di un' intercapedine che m' impediva di aderire completamente alla storia narrata. Un po' come se questi grandi libri fossero avvolti in un preservativo e arrivassero solo attraverso una mediazione.

Faccio un esempio, recentemente ho letto il Don Giovanni in Sicilia di Vitaliano Brancati con una partecipazione emotiva che non saprei mai ricavare da un "classico".

Cio' non significa che i capolavori del passato non rechino altri doni, ma sono per lo più di natura cerebrale. Nell' ultimo anno ho sfogliato La Guerra del Peloponneso imparando quanto aggressive ed espansioniste possano essere le democrazie; ho lette "Les Juifs" di Voltaire per tenere ben a mente come non sia un caso che le radici dell' anti-semitismo moderno affondino nel terreno dissodato dal "padre della tolleranza"; ho letto "Il Mercante di Venezia" ma solo per constatare come la demagogia del perdono possa fare velo sulla giustizia e come la grande arte teatrale possa rendere odioso un personaggio che ha tutte le ragioni dalla sua. Potrei proseguire con il fascinoso ma siderale dogmatismo di padre Dante che stando lassù, faccia a faccia con Dio, non riesco a sentirmelo veramente prossimo.

Intrattenimenti un po' troppo cerebrali per suscitare autentico entusiasmo, quindi.

Anche il ripasso dei Promessi Sposi che feci qualche anno fa mi ha lasciato una mirabile lezione di economia nel capitolo sull' assalto ai forni e una altrettanto grande di psicologia di massa nel capitolo sulla peste. Lezioni di economia, di psicologia e di filosofia morale...ma - salvo alcune fulminanti intuizioni sulla codardia di Don Abbondio - poche autentiche scosse emotive.

Eppure, sia chiaro, l' ottocento è un secolo che non metto nel preservativo di cui sopra, è un secolo che non metto in conto, c' è di tutto, anche roba che "sento" molto vicina: se la questione dei matrimoni contrastati mi sembra un po' distante, le questioni sulla roba (Verga) sono assai più vicine. Non parliamo poi delle tensioni intorno all' eredità! I Vicerè me li sono bevuti come un romanzo contemporaneo. L' ascendenza del genitore opprimente come la narra il Fogazzare mi ha sinceramente colpito. Ma il massimo sono le burocrazie zariste di Checov e Gogol, assomigliano tanto alle nostre; come pure gli eterni pervertiti del prolisso Dostoijevskij. Flaubert e il Tolsoij meno mistico poi...non no, l' ottocento annulla spesso la fredda distanza che mi pervade non appena sento menzionare la parola "classico".

Congetture temerarie

Sto leggendo I Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer. Mi sono deciso poichè il critico Harld Bloom li inseriva nel suo prezioso "Canone Occidentale" e, nei libri in lista, era tra quelli che non avevo mai affrontato. Ora mi è venuto un sospetto. Vuoi vedere che l' americano, nel compilare il suo stringato compendio della letteratura occidentale più influente, ci ha infilato Chaucer per scalzare chi sarebbe entrato più comodamente, ovvero il Boccaccio? C' era già l' ineludibile Dante e due italiani, probabilmente, gli sembravano troppi.

A Davide che, dopo essermi espresso come sopra, mi rimprovera con il pregnante argomento..."...il Bloom avrà avuto le sue buone ragioni visto che i suoi titoli sono in ordine e i suoi concorsi se gli è vinti tutti senza recriminazioni..."...

Purtroppo capita spesso che la "professionalità letteraria" sia al servizio delle simpatie, specie laddove il critico è militante, specie laddove è difficile reperire punti di riferimento oggettivi, specie laddove la scelta è tra due vertici pressochè indistinguibili della letteratura. Del resto, lo stesso Chaucer, nel ricostruire arbitrariamente una sua genealogia, trascura a sorpresa di fare il nome del Boccaccio, pur se le affinità, le precedenze e la conoscenza, siano elementi ben noti. Da ultimo, anche i libri di critica letteraria più referenziati si leggono con maggiore passione quando, liberando una certa impertinenza, si evita di lasciare all' autore l' ultima parola. Tu la lasceresti al grande Eliot mentre stronca l' Amleto di Shakespeare bollandolo come opera monca? Allora, azzardiamo pure nei nostri francobolli forumistici, ci è concesso una volta che si riconosca e si riverisca senza sottomissioni lo sterminato sapere dell' esperto.

sabato 26 gennaio 2008

Ma non vedi che è tutto un fatto di nevrosi?

E' normale che dopo il secondo divorzio, dalla vita ci si senta giudicati. E a questo i più fragili non reggono.


***


Com' è difficile trascinarsi vivendo in mezzo a grandi idee e grandi concetti insufficientemente rilevanti per il nostro quotidiano. Si è troppo presi dall' elaborazione frenetica di progetti che sconfinano nelle reverie per pensare chiaramente a qualsiasi cosa. E ci si trascina malati di astrazioni vivendo come pesci sulla spiaggia, come il sedimento che rimane dopo il liquido. E' ovvio che un tipo così non va lontano, specie se vive in una civiltà trafficona e superba che adora la propria cafonaggine.

Non resta che alleviare la confusione che monta cambiando spesso moglie, facendo la corte al sonno, rimpiangendo le certezze dell' uomo arcaico. Con passione isterica ci si dedica poi al privato: si dipinge, si stuccano buchi, si accomoda, s' incatrama a più non posso...

Eppure nemmeno così si guadagna la pace. Uno sciame di paranoie si è incaricato di torturarci...

...come un pezzo di ghiaccio sull' orlo del bicchiere, così il cervello picchia di continuo...

Ci si sente statici , privi di carattere, cedevoli alla minima insistenza, infiacchiti da mille infezioni spirituali, dalla sofferenza, dall' assurdo, senza nulla di veramente valido da opporre, se non una gestualità e un frasario di circostanza fatto di estenuati ghirigori intervallati da improvvisi crampi linguistici. A volte s' imbrocca un discorso ma lo si porta avanti male, con un' efervescenza noiosa, con un vigore lamentoso e inutile. Poi, lontani da tutti, nell' intimità delle proprie stanze, ci si guarda allo specchio e si vorrebbe uggiolare come fanno i cani.

Considerando dove si è finiti, lo spavento si fa persino diluire con un certo orgoglio. E' solo una vita d' inferno che non sembra neanche più così brutta quando si riesce a sopravvivere. Considerata a debita distanza guadagna interesse al punto da poter fornire il soggetto per un romanzo. Quello che ho appena finito di leggere.

sabato 19 gennaio 2008

Esistenzialiiistiii...Tiè

Vi sono piaciuti "Gli Indifferenti" letti da Toni Servillo?

Qualsiasi sia la risposta una cosa mi sento di dirla: grazie Alberto. Grazie per averci risparmiato.
***
Premetto di aver letto questa storia da poco e non so ancora se l' effetto del racconto sia già calato dentro di me. Comunque un paio di ideuzze me le sono fatte.

Io tremo quando nei libri che descrivono argutamente i nostri accrocchi borghesi - sempre intasati da vaniloqui ed ipocrisie più o meno patenti - si fa largo fino a profilarsi distintamente lo stereotipo a due gambe dell' "Oscuramente Consapevole".

E' un tipo con la faccia lunga come la quaresima. E' "oscuramente consapevole" di una meschina fatalità che incomberebbe su tutti. Ripeto: su tutti. Ma gli altri, a giudicare dai loro sguardi stupidi ed eccitati, non se ne accorgeranno mai per quante sono le faccende che devono spicciare. Invece l' OC non ha mai un cavolo da fare. Quindi non lo freghi tanto facilmente.

Questo qua, innanzitutto lo riconosci subito perchè porta sempre a spasso come un cagnolino al guinzaglio il suo fedele anelito. Trattasi dell' anelito ad una "disperata sincerità". Avanza verso di te, sofferente già dalle prime pagine, quando ancora non è successo nulla. E non ha nessuna intenzione di sgomberare tanto presto il campo.

E' lui il diapason su cui si accorda la lamentosa cetra esistenzialista. A quanto pare sarà il protagonista di tutta la vicenda, t' imbatterai nelle svolte che lo riguardano, se va bene, intorno alla terz' ultima pagina. Ti devi rassegnare alla sua sensibilità estenuata nonchè continuamente oltraggiata dalle grettezze del quotidiano. Per tutto il romanzo nutrirà un profondo disprezzo verso chiunque metta insieme quattro stracci nel tentativo di mantenersi vivo.

L' Oscuramente Consapevole si disancora dalle compagnie assumendo sguardi trasognati, sorrisi sforzati e squallidi. Circondato dal cinismo, il suo genio sta nel costruirsene uno a proprio uso e consumo. Con tanta consapevolezza addosso per lui la vita non arriva mai, è solo uno stanco girotondo di abitudini.
***
Ma che regalo generoso fa il Moravia a noi lettori risparmiandoci la scena in cui l' "oscuramente consapevole" raccoglie le sue disperse forze per indignarsi e cantarla sul muso al mondo intero!

Non che il buon Michele sia immune dalla tentazione di imboccare il trombone e far salire al cielo il suo canto liberatorio. Ma ogni volta che ci prova esce una nota fessa, cosicchè noi siamo autorizzati a ridacchiare di gusto insieme al nostro amico segreto: il Merumeci Leo.

"Non ti rispondo caro Michele, sei solo un ragazzo...". Leggendo sillabo a fior di labbra queste parole in coro con il Merumeci. Addosso mi sento il trasporto estatico con cui, al cinema da bambini, aizzavamo il buono perchè finisse il cattivo al più presto e senza pietà. Esistenzialiiistiii...Tiè.

**********************

Parlando dell' Oscuramente Consapevole mi riferivo a Michele, o al limite a Carla.

Essendo i due protagonisti del romanzo di un ventenne (o giù di lì) l' elemento autobiografico è pressochè insopprimibile.

Questo per dire che la tua proiezione puo' essere ben giustificata.

Il mio giudizio sull' uomo è sospeso per mancanza totale di elementi (ho solo un vago ricordo delle folte sopracciglia).

Per quanto riguarda l' artista, l' ho visto impegnato in ambienti difficili, aridi, demotivatori di ogni verbalità, prevaricatori di ogni Logos, refrattari ad ogni segnaletica. Vi abbondava solo l' assenza di fenomeni, l' assenza di chiare topologie. In compenso formicolavano distonie spirituali di tutti i tipi.

Eppure, in queste condizioni tanto difficili, i potenti microscopi in dotazione naturale al Nostro, lo mettevano in grado di captare una moltitudine di silenziosi sommovimenti dell' animo, cosicchè l' edificio che veniva costruendo finiva per raggiungere volumetrie impressionanti.

Mi godo i virtuosismi di questo ammaestratore di pulci soprassedendo alle mille riserve che potrei tirare in ballo su mille altri punti.

Chiudo solo con un fulminea opinione che riferisco tralasciandone le motivazioni e con il proponimento di riprenderla in modo più completo altrove: quando le virtù principali del testo sono quelle di cui dicevo sopra, a soffrirne è la lettura radiofonica.

giovedì 20 dicembre 2007

La conversione dei Caraibi

Scrivo con la percezione dilatata che lascia l' incontro ancora fragrante con il verso di Walcott, vate antillano dalla scrittura ventilata che, senza fermarsi mai, ondeggia sulla pagina alla stregua di un palmizio caraibico. Il suo rigo sa farsi fungo allucinogeno dalle spore non omologate.


E ce ne sono tanti di righi salmastri in quel suo magistrale poemone dove con ricchezza immaginifica strabordante si mette in scena lo strazio di una conversione ai valori occidentali della sua gente. Uno strazio che ci fa leggere con la mandibola smollata.


Sono righi da cui non ci va di staccare gli occhi, li sorvegliamo anche allontanandoci da loro, anche quando sono diventati ormai niente più che un corteo di formichine nere in marcia verso una meta per cui abbiamo perso interesse.


Una ridda di righi rumorosi e itraprendenti, ognuno vuole proiettare il suo cinema, ognuno è disposto a tutto pur di dare sulla voce all' altro. Si affollano sgomitando davanti alla pupilla sconcertata del lettore.


Troppi forse per reggere la densità sonettistica a cui li sottopone il vate, per sopportare l' irruenza metaforica con cui carica ogni pagina al punto da renderci ponderosa la sfogliata. Pagine che ci spiace abbandonare alla loro sorte, meritevoli come sono di essere ulteriormente dissodate dal vomere di cento riletture.


Che rischio riversare tutte quelle calorie sul palato del degustatore bulimico! Si finisce prima per sorprenderlo, poi per deliziarlo, poi per inebriarlo, poi per stordirlo; infine per allucinarlo. Poi, per...per "dilatarlo". Scrivo dopo aver superato l' ultima soglia di quest' ultimo stadio. Ne tenga conto il perplesso che già scuote la testa.


Una poesia immersa nella piaga slabbrata e formicolante di cuori negri che stanno al mondo senza radici. Che hanno una loro economia nobilmente stagnante fatta di acque glauche arate dalle reti, di corde muschiose e barbute strattonate da muscoli guizzanti come delfini. Un economia dove il remo viene lasciato oziare a lungo. Un' economia accompagnata dal ritmo della bofonchiante abitudine figlia dell' esperianza.


Umanità ancora avvolta nel timore riverente verso un creato da ringraziare per le sorprese elargite ogni giorno che dio manda in terra.


Cuori negri sospesi tra la ritmica pace di onde benedicenti e l' anarchico frizzare della schiuma che si arriccia nella risacca.


Cuori babbuini tremanti come pioppi nell' aria in un timore della cui sacralità ci accorgiamo solo ora che barcolla, sbiadisce e cede a forze imperscrutabili che la estinguono.


In questa festa continua carica di infezioni contagiose, passa inosservato persino il trito stereotipo dell' umiliazione imposta dalla volgarità dei tempi.


Sia dannato chi lo risveglia menzionandolo quando pensa, così facendo, di agganciare un commento appropriato alla lunga teoria di versi ispirati che ci sfila di fronte prostandoci con la fatica che danno al palato i cibi resi squisiti dall' eccessivo sapore che li carica.


Le sete di fantastiche donne arroganti dalla bellezza ferina varcano un paesaggio talmente splendido che guardarlo ci affranca dalla macina della storia.


Una bellezza cresimata da Vescovi plenipotenziari, una sinuosità ciprigna fatta di bolle acquatiche, pronta a svanire come le meduse trasparenti.


Nello stesso momento in cui ringraziamo per tutto questo spettacolo, ecco che cominciamo a perderlo. Le mani, enormi come alberi, dei coralli ci congedano. La risacca è niente più che una bianca linea astratta. Perdiamo il legno rimpiazzato dai cementi, perdiamo la crudeltà delle razzie spinte via dalla tristezza della prostituzione, perdiamo il ballo della pupilla indagatrice sostituita dai torpori oculari indotti dalla soddisfazione materiale, perdiamo la freschezza dei fanghi a cui si preferisce il calore delle lamiere, perdiamo l' esaltazione di droghe misteriose per affogarci nell' alcol della grande distribuzione.


Poi, in un soprassalto, allo scoccare di una scintilla, ci precitiamo verso l' incorruttibile che sentiamo abitare ancora la negra periferia. "Dov' è la nostra casa?". Via, via, il cuore sfinito dai libri reclama una nuova impraticabile libertà. Qesta nostra utopia - che è il nostro pio errore - saprà consolarci con l' allucinazione del verso che segue.Scrivo con la percezione dilatata che lascia l' incontro ancora fragrante con il verso di Walcott, vate antillano dalla scrittura ventilata che, senza fermarsi mai, ondeggia sulla pagina alla stregua di un palmizio caraibico. Il suo rigo sa farsi fungo dalle spore non omologate.


E ce ne sono tanti di righi salmastri in quel suo magistrale poemone dove con ricchezza immaginifica strabordante si mette in scena lo strazio di una conversione ai valori occidentali della sua gente. Uno strazio che ci fa leggere con la mandibola afflosciata.


Sono righi da cui non ci va di staccare gli occhi, li sorvegliamo anche allontanandoci da loro, anche quando sono diventati ormai niente più che un corteo di formichine nere in marcia verso una meta a cui possiamo disinteressarci.


Una ridda di righi rumorosi e itraprendenti, ognuno vuole proiettare il suo cinema, ognuno è disposto a tutto pur di dare sulla voce dell' altro. Ce ne sono proprio tanti.
Troppi forse per reggere la densità sonettistica a cui li sottopone il vate, per sopportare l' irruenza metaforica con cui carica ogni pagina al punto da renderci ponderosa la sfogliata. Pagine che ci spiace abbandonare alla loro sorte, meritevoli come sono di essere ulteriormente dissodate dal vomere di cento riletture.


Che rischio riversare tutte quelle calorie sul palato del degustatore bulimico! Si finisce prima per sorprenderlo, poi per deliziarlo, poi per inebriarlo, poi per stordirlo; infine per allucinarlo. Poi, per...per "dilatarlo". Scrivo dopo aver superato l' ultima soglia di quest' ultimo stadio. Ne tenga conto il perplesso che già scuote la testa.


Una poesia immersa nella piaga slabbrata e formicolante di cuori negri che stanno al mondo senza radici. Che hanno una loro economia nobilmente stagnante fatta di acque glauche arate dalle reti, di corde muschiose e barbute strattonate da muscoli guizzanti come delfini. Un economia dove il remo viene lasciato oziare a lungo. Un' economia accompagnata dal ritmo della bofonchiante abitudine figlia dell' esperianza.


Umanità ancora avvolta nel timore riverente verso un creato da ringraziare per le sorprese elargite ogni giorno che dio manda in terra.


Cuori negri sospesi tra la ritmica pace di onde benedicenti e l' anarchico frizzare della schiuma che si arriccia nella risacca.


Cuori babbuini tremanti come pioppi nell' aria in un timore della cui sacralità ci accorgiamo solo ora che barcolla, sbiadisce e cede a forze imperscrutabili che la estinguono.


In questa festa continua carica di infezioni contagiose, passa inosservato persino il trito stereotipo dell' umiliazione imposta dalla volgarità dei tempi.


Sia dannato chi lo risveglia menzionandolo quando pensa, così facendo, di agganciare un commento appropriato alla lunga teoria di versi ispirati che ci sfila di fronte prostandoci con la fatica che danno al palato i cibi resi squisiti dall' eccessivo sapore che li carica.


Le sete di fantastiche donne arroganti dalla bellezza ferina varcano un paesaggio talmente splendido che guardarlo ci affranca dalla macina della storia.


Una bellezza cresimata da Vescovi plenipotenziari, una sinuosità ciprigna fatta di bolle acquatiche, pronta a svanire come le meduse trasparenti.


Nello stesso momento in cui ringraziamo per tutto questo spettacolo, ecco che cominciamo a perderlo. Le mani, enormi come alberi, dei coralli ci congedano. La risacca è niente più che una bianca linea astratta. Perdiamo il legno rimpiazzato dai cementi, perdiamo la crudeltà delle razzie spinte via dalla tristezza della prostituzione, perdiamo il ballo della pupilla indagatrice sostituita dai torpori oculari indotti dalla soddisfazione materiale, perdiamo la freschezza dei fanghi a cui si preferisce il calore delle lamiere, perdiamo l' esaltazione di droghe misteriose per affogarci nell' alcol della grande distribuzione.


Poi, in un soprassalto allo scoccare di una scintilla, ci precitiamo verso l' incorruttibile che sentiamo abitare ancora la negra periferia. "Dov' è la nostra casa?". Via, via, il cuore sfinito dai libri reclama una nuova impraticabile libertà. Qesta nostra utopia - che è il nostro pio errore - saprà consolarci con l' allucinazione del verso che segue.