martedì 10 ottobre 2017

“Ma quando tornano i belgi…”

“Ma quando tornano i belgi…”

Il colonialismo non gode di buona stampa, gli storici lo hanno fatto a pezzi.
Eppure, non merita la reputazione che si ritrova. In generale è stato sia benefico che legittimo.
Parlo di quello del XIX secolo, ovvero quello più radicato e duraturo.
I paesi che una volta liberi hanno abbracciato la loro eredità coloniale hanno fatto meglio di chi l’ha ripudiata.
Il vero flagello della storia recente è stata invece l’ideologia anticoloniale, autentico freno pluridecennale allo sviluppo delle ex colonie.
Il colonialismo, per quel che ha messo in mostra, non merita solo l’assoluzione ma anche di essere ripensato e realizzato in forme nuove.
Meriterebbe l’assoluzione… ma non si puo’ impartirla. I tempi non sembrano ancora maturi.
La vicenda Helen Zillen è un chiaro monito; parlo della politica sudafricana che twittò l’ovvio: “gran parte del successo di Singapore va ascritto alla sua capacità di valorizzare il lascito coloniale”.
Fine di una carriera politica. Bye bye. L’ennesima vittima di un’ideologia ottusa e dannosa. E questo nel terzo millennio.
***
La molla principale per ripensare il colonialismo ci viene dal fallimento su tutti i fronti dell’anticolonialismo con il suo ormai secolare pedaggio fatto di fallimenti economici ma anche di vite umane e atrocità sdoganate.
Ma come riprendere la lezione coloniale?
Prima via: chiedere ai governi locali di replicare il più possibile le tipiche istituzioni coloniali.
Lo hanno fatto con paesi di successo come Singapore, Belize e Botswana. Perché gli altri non possono?
Seconda via: ricolonizzare alcuni settori cruciali che oggi continuano a stentare. Per esempio le finanze pubbliche, oppure la sicurezza e l’ordine pubblico. Si tratterebbe di cedere fette di sovranità: un paese maturo e umile non ci penserebbe due volte.
Terza via: costruire nuove colonie partendo da zero.
Quasi dimenticavo: il nuovo colonialismo, sia chiaro, deve fondarsi sul consenso dei colonizzati.
Nonostante la tempesta abbattutasi sulla Zillen, ci sono anche segnali più incoraggianti: i padri nobili del colonialismo – Livingstone in Zambia, Lugard in Nigeria e de Brazza in Congo – godono oggi di crescente rispetto.
A Kinshasa un intercalare consolidato suona così: “ma quando tornano i belgi?”.
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Una prima critica al colonialismo lo considera oggettivamente dannoso.
Di solito la critica è aneddotica: qualche evento preso a caso qua e là, qualche atrocità considerata fuori contesto e si ritiene di aver assolto al proprio dovere di aver fatto storia.
Si potrebbe rispondere a tono facendo altrettanto: guarda la sorte toccata alle nigeriane nel nord del paese dopo la fuga dei coloni! Fine.
Ma la critica va affrontata in modo razionale chiedendosi quale sarebbe stata l’alternativa e facendo i dovuti confronti.
Misurare un controfattuale richiede di costruire un campione di paesi non colonizzati nel XIX secolo, per esempio: Cina, Etiopia, Liberia, Arabia Saudita, Thailandia, Haiti e Guatemala.
Un esercizio del genere come minimo incrinerebbe definitivamente la boria anticolonialista.
Un approccio alternativo è quello di una specifica storia controfattuale sui singoli episodi. E’ molto problematica ma s’impone.
Esempio, la campagna inglese contro i Mau in Kenya tra il 1952 e il 1960 risulta indifendibile a prima vista. Poi, guardando più da vicino, si capisce che agendo in modo tanto deciso si è evitato il peggio.
Un altro approccio mette in luce i punti deboli delle critiche al colonialismo.
Innanzitutto sono contraddittorie: a volte si sostiene che è stato troppo distruttivo, altre volte troppo poco.
Esempio: i coloni non hanno costruito uno stato solido mantenendo in voga troppe tradizioni barbare. Dopodiché, si denuncia la distruzione delle tradizioni locali.
Altro esempio: i confini dei coloni hanno portato ad un’integrazione forzata. Dopodiché, si denuncia la conservazione del tribalismo autoctono.
Altro esempio: non si è investito abbastanza in sanità e infrastrutture. Dopodiché, si denunciano gli investimenti in questi settori come una forma di sfruttamento della popolazione.
C’è poi un frutto del colonialismo che i critici sono inclini a dimenticare: l’abolizione della schiavitù.
Poi qualcuno se ne ricorda per criticarla: non è avvenuta abbastanza in fretta.
Se si è onesti alla fine bisogna necessariamente concludere che la gran parte degli interventi europei hanno comportato un beneficio netto per i paesi assoggettati.
L’opera di Juan de Pierskalla lo mostra bene.
Ecco alcune aree dove il colonialismo ha fatto tanto per migliorare la situazione: istruzione, sanità, schiavitù, lavoro, amministrazione,  infrastrutture di base, diritti della donna, caste, tassazione (più equa), accesso ai capitali
***
Veniamo alla seconda critica: l’azione dei colonialisti è stata moralmente illegittima.
Molti vedono il colonialismo in modo ingenuo come l’assoggettamento forzoso di una popolazione.
Non fu questo, tanto è vero che a milioni le persone si spostarono spontaneamente verso i territori colonizzati.
Il colonialismo europeo del XIX secolo non conobbe vere forme di resistenza, anche prendendo a riferimento un orizzonte secolare.
Dice Sir Alan Burns, governatore della Costa d’ Oro: “eravamo in quattro gatti, la popolazione avrebbe potuto buttarci a mare in un attimo”. Un classico.
La parte positiva del colonialismo era sotto gli occhi di tutti. Persino un resistente come Patrick Lumumba lodò i belgi nella sua autobiografia del 1962, secondo lui ripristinarono la “dignità dell’uomo”.
Anche negli scritti di Chinua Achebe l’omaggio all’impero non manca mai.
Se i protagonisti della liberazione celebrano il “nemico” forse un briciolo di verità c’è.
No, si derubrica tutto alla voce “falsa coscienza”.
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Ma il terzomondismo ha prodotto solo ideologia militante, sarebbe tempo perso cercare in esso uno sforzo di accuratezza.
Oggi il terzomondismo s’incarna nel politically correct e non cessa di far danni. Basta guardare al Sudafrica e alle sue continue implosioni: una delle terre più fortunate del pianeta!
L’anti-colonialismo produce ancora oggi danni incalcolabili nella sua inesausta azione per fomentare la rabbiadistruttiva dei nazionalisti e  sobillare la parte più ignorante della popolazione contro il mercato e il pluralismo in politica. Tutto viene azzerato e resta solo l’invocazione del Messia, che di solito assume le sembianze di un militare specializzato in fosse comuni.
E ogni volta bisogna partire da capo con l’assunto ben chiaro in testa che “comunque sia è sempre  tutta colpa dell’uomo bianco”.
L’anti-colonialista è il cantore della vendetta e arriva perfino a fare l’apologia dell’atroce. Assurdo.
La Guinea-Bissau è un caso di scuola.
Qui l’eroe degli anti-colonialisti si chiama Amilcar Cabral.
Il suo piano era semplice: distruzione totale dell’esistente.
Si tenga presente che quando i portoghesi arrivarono laggiù la produzione di riso quadruplicò fin da subito. Anche la speranza di vita s’impennò in breve tempo.
Cabral agì raccogliendo l’aiuto degli scontenti? No, di scontenti ce n’erano pochi, tutta colpa della “falsa coscienza”. In cambio però raccolse l’aiuto di Cuba, URSS, Cecoslovacchia e Svezia.
La sua azione di resistenza cominciò e nel 1974 finalmente prese il potere: 30.000 morti e 150.000 profughi.
E il “dopo” liberazione?
Guerra civile, ovvio.
Nel 1980 la produzione di riso era dimezzata rispetto a quella dei portoghesi. La politica era una rissa continua tra guerriglieri.
Una rissa tra alleati perché l’opposizione era tutta nella fossa comune (500 cadaveri rinvenuti nel 1981).
E il lavoro?: problema risolto assumendo 15.000 impiegati pubblici (10 volte quelli dei portoghesi).
E gli storici marxisti? Dopo una breve ma profonda confusione mentale trovarono il colpevole: l’eredità coloniale.
Arrivano poi aiuti dall’occidente: milioni e milioni. Ci si specializza nell’accaparramento della manna anziché nella produzione.
Oggi la produzione di riso è ancora 1/3 rispetto a quella storica portoghese. E intanto sono passati 40 anni. L’unica cosa che non passa, per certi storici, è “l’eredità coloniale”.
Ah, la vita media… è oggi di 55 anni. Non è aumenta dall’indipendenza.
In Guinea tutti hanno sospirato per anni: “ma quando tornano i portoghesi?”.
Vi sembra un caso estremo? No, è un caso qualunque.
Nel terzo mondo la politica dei despoti è sempre stata la stessa: rievocare il fantasma coloniale. E in questo una bella mano l’ha data una storiografia superficiale perché militante.
L’errore di fondo, secondo Isgreja, è stato quello di assumere che gli anti-colonialisti fossero le vittime anziché i carnefici.
Ma agli storici europei i crimini anti-coloniali non interessano, loro hanno nel mirino solo il colonialismo: la fonte di tutti i mali.
Per fortuna c’è stata anche una decolonizzazione più armoniosa: l’ha compiuta chi ha accettato l’eredità coloniale facendola fruttare. Arthur Lewis si riferisce a questi paesi “copia/incolla” come alla parte più creativa del Terzo Mondo.
Purtroppo, la regola generale è stata quella della Guinea-Bissau: secondo la Banca Mondiale l’Africa è stata testimone di un netto regresso nel periodo post-coloniale.
Ma l’anticolonialismo è un tarlo insediato nella testa di molti e che non riesce ad essere sgomberato. Persino grandi paesi come India, Brasile e Sudafrica amano ancora apparire, specie in politica estera, come anti-occidentali.
La strategia di politica estera di molte ex-colonie è ancora trainata dal vittimismo. Più che difendere i propri interessi e accollarsi le proprie responsabilità preferiscono “rivendicare” diritti a destra e a manca, e quando non arriva niente, cominciano a pietire. Sri Lanka, Zimbawe, Venezuela, e gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Oggi l’anti-colonialismo è anche la maggior minaccia ai diritti umani. In nome dell’anticolonialismo tutto è concesso.
Le ex colonie devono reagire! Se l’Inghilterra non avesse reagito sarebbe ancora una terra di Druidi lamentosi in cerca di risarcimenti dai romani.
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Che fare dopo la dipartita degli imperialisti? la cosa migliore è riprendere laddove costoro hanno interrotto la loro opera.
In molti casi virtuosi la vecchia classe burocratica colonialista è stata riassunta in blocco. Lo stesso dicasi per le forze dell’ordine.
Spesso occorre un atto di umiltà: riconoscere la propria incapacità ad autogovernarsi. Non è un atto facile, e i più superbi sono anche i più stupidi (ma va?).
Plamenatz e Barnes vedono in questa mancanza di umiltà il problema centrale.
Un paese umile non teme di appaltare servizi importanti a paesi esteri secondo nuove forme virtuose di colonialismo.
Esempio: nel 1985 il governo indonesiano licenziò 6000 ispettori corrotti e inefficienti all’aeroporto di Jakarta appaltando il servizio alla SGS svizzera. Un successone.
Le multinazionali dovrebbero essere coinvolte anche nella fornitura di servizi pubblici, non anatemizzate come la fonte di tutti i mali. Quando questo avviene a volte va male ma più spesso va bene. E quando va bene va davvero bene…
La seconda via è quella che consiste nel “ricolonizzare” alcune aree del paese, il cosiddetto “statebuilding”.
Il problema dello “statebuilding” è lo scarso coinvolgimentodell’occidente. In altri termini: troppo poco colonialismo, non troppo.
Recentemente l’Australia si è impegnata in uno statebuilding nelle isole Salomone. Lo sforzo e il coinvolgimento necessario sono stati massimi per addivenire ad un successo. E le isole Salomone sono uno sputo nell’oceano.
L’ONU per istituire con qualche garanzia una commissione di giustizia in Guatemala ha dovuto avocare a sé tutte le forze di giustizia e di sicurezza di quel paese per appaltarle poi a poteri esterni. Una manovra complessa e rischiosa… ma necessaria.
E poi, non inventiamo strane parole per cortesia: certe missioni sono missioni coloniali a tutti gli effetti, punto e basta. Già questa paura ad usare in modo preciso i termini fa temere che l’occidente non potrà mai essere coinvolto al 100% in questi progetti.
Ignatieff: l’imperialismo non cessa di essere necessario per il semplice fatto che è politicamente scorretto.
Ma oggi c’è il mito dell’auto-governo: tutti sono per definizione capaci di governarsi. E’ bello crederlo ma è stupido continuare a farlo dopo che i fatti hanno parlato chiaro e in modo contrario.
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I problemi del neocolonialismo sono almeno tre: 1) come farsi accettare dai colonizzati, 2) come motivare i paesi occidentali ad agire, 3) come rendere la colonizzazione una strategia vincente.
Il nuovo colonialismo deve fondarsi sul consenso, sia chiaro. Ma attenzione: di fatto è sempre stato così, lo abbiamo visto più sopra.
E qui i critici si fanno sarcastici: manca sempre un consensoformale, trasparente e rappresentativo.
I critici non colgono l’essenziale: se i paesi colonizzati fossero formalmente puliti, trasparenti e capaci di produrre rappresentanze non avrebbero bisogno dei colonizzatori! Il lavoro di Chesterman è chiaro sul punto.
Il consenso in genere è di fatto. Esempio: il chiaro supporto della Sierra Leone all’azione inglese tra il 1999 e il 2005 per ricostruire le forze di polizia.
Serve un leader locale che sia popolare e al contempo uno sponsor della relazione coloniale.
Il presidente della Liberia Ellen Johnson Sierleaf costituisce un prototipo.
Man mano che il colonizzato si rende autonomo, la legittimità del colonizzatore declina e va continuamente ricalibrata: la exit strategy diventa fondamentale.
Per Darwin si realizza un paradosso tipico: l’uscita coincide con il momento più attivo dello statebuilding. Tutto puo’ essere rovinato da un passo falso.
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C’è poi il problema di motivare l’occidente. L’impresa coloniale è quasi sempre stata in perdita. Richard Hammond ha parlato di “imperialismo diseconomico”.
E’ per questo che i colonizzatori hanno sempre mollato la preda senza resistere granché. Wu fa l’esempio degli olandesi a Taiwan come prototipo.
Il problema dell’imperialismo non è che è cattivo ma che è costoso.
Chiedete quanto è costato all’Australia colonizzare e ricostituire un tessuto istituzionale nelle isole Salomone.
L’ ONU in questo senso è inaffidabile, dominato com’è da paesi imbevuti nell’ideologia anticoloniale.
Soluzione Hechter: creare un mercato transnazionale per la governance.
Un colonialismo in affitto: i colonialisti vengono pagati – con rinegoziazioni periodiche – per i servizi resi.
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Terzo problema: come realizzare progetti coloniali di successo?
Prima lezione: ripartire dalle vecchie istituzioni coloniali, la Cambogia è un buon esempio.
Seconda lezione: mantenere una congruenza tra i valori della comunità e quelli dello stato.
Il vecchio colonialismo conosceva bene il trucchetto: mandato duale,  regola indiretta, staff locale, primato della consuetudine… sono tutte istituzioni che lavorano in parallelo alle riforme di modernizzazione.
C’è poi la visionaria soluzione proposta da Paul Romer: colonizzare integralmente dei nuovi territori disabitati. I paesi ricchi dovrebbero costruire delle charter city nei paesi poveri prendendo in affitto territori desertici o quasi.
Praticamente si tratterebbe di ricreare tante Hong Kong in giro per il mondo.
Il piano nasce da una semplice considerazione: per ridurre la povertà nel mondo la piccola Hong Kong ha fatto di più di tutti i programmi internazionali d’aiuto messi insieme. Che farne di questa informazione?
La legittimazione delle charter city è ovvia: i cittadini verrebbero spontaneamente attirati da istituzioni occidentali. Nessun sospetto di assoggettamento.
Qui il colonizzatore potrebbe evitare gran parte dei problemi che abbiamo visto finora: avrebbe una tabula rasa su cui costruire partendo da zero. Zero path dependence.
Ipotesi: prendete l’isola di Galinhas di fronte alla Guinea-Bissau (10 miglia) e supponete che venga affittata ai portoghesi i quali ne farebbero un Portogallo in miniatura. In teoria, si badi bene, potrebbe ospitare l’intera popolazione della Guinea-Bissau.
Con un pazzo come l’anticolonialista Cabral in continente cosa succederebbe?
Migrazione di massa, ovvio. No stragi, no fosse comuni, no guerra civile… e Cabral a casa quanto prima.
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Provocazione: se la Palestina si facesse colonizzare da Israele tutti i problemi pratici sarebbero risolti per quasi tutti. Fine di un tormentone telegiornalistico.
E se l’Italia si facesse colonizzare dalla Germania?
L’Italia del sud si è fatta colonizzare a suo tempo dai piemontesi e non è andata molto bene, forse con la Germania andrà meglio? 🙂
COLONIEEE

lunedì 9 ottobre 2017

L'avo infoiato

L’avo infoiato

Siamo così sicuri che la famiglia tradizionale sia poi così tradizionale?
Siamo così sicuri che la famiglia targata “Mulino Bianco” si rinvenga in natura?
Direi di no, non ne siamo affatto sicuri.
Anche se  la narrazione tradizionale sembra favorire questa ipotesi, i dubbi in proposito sono consistenti.
Forse la famiglia tradizionale non è altro che una geniale invenzione. Tanto geniale quanto artefatta.
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L’homo sapiens è una delle cinque grandi scimmie sopravvissute insieme a scimpanzé, bonobo, gorilla e orango. In particolare, insieme ai bonobo e agli scimpanzé, siamo gli arrapatissimi discendenti di un avo, sul piano sessuale, decisamente assatanato.
Ci sono solidi motivi per ritenere che le nozioni convenzionali intorno alla monogamia dell’uomo siano come minimo esagerate.
Probabilmente, il cambio di rotta rispetto alla nostra reale sessualità primitiva si è avuto solo 10000 anni fa in seguito alla cosiddetta rivoluzione agricola. Ma 10000 anni sono un’inezia nella storia evolutiva dell’uomo. La nostra vera natura sarebbe da ricercarsi quindi nel periodo precedente.
Una mentalità “complottista” a questo punto farebbe notare come l’approfondimento di questi temi imbarazzanti sia sempre stato silenziato dall’ autorità religiose, patologizzato dalla medicina ufficiale e ingegnosamente eluso dagli scienziati.
Sia come sia, l’ esito istituzionale di questa “trascuratezza” si è concretizzato nella cosiddetta “gabbia del matrimonio”, un’istituzione decisamente efficiente ma sessualmente frustrante e in grado di uccidere qualsiasi libido di partenza. Una soluzione di fatto fonte di tradimenti,  disfunzionalità, confusione e sensi di colpa. Non proprio il massimo. Nemmeno la monogamia seriale compensa, e rimane solo uno sfogo temporaneo ed inefficace.
Il matrimonio dipinto come la tomba del desiderio non è un’esagerazione. Per il maschio vincolarsi in quel modo è un duro colpo,  ma anche la femmina ne subisce un contraccolpo non da poco: chi vorrebbe dividere la sua vita con un uomo che si sente intrappolato e diminuito?
Lo sapevate che il 42% delle donne soffre di disfunzioni sessuali? Difficile pensare ad un “effetto naturale” quando le percentuali raggiungono certi livelli. E perché secondo voi il Viagra batte tutti i record di vendita anno dopo anno? Per tacere della la pornografia, un affare colossale su scala planetaria che rastrella solo in America dai 60 ai 100 miliardi di dollari all’anno. Perché un intrattenimento del genere dovrebbe fruttare tanto se il matrimonio fosse così appagante? Gli americani spendono molto di più negli anonimi locali di striptease che a Broadway. Sembrerebbe più “normale” godersi una sfilata di  donnine nude che qualsiasi altro spettacolo teatrale.
Il matrimonio tradizionale appare sotto attacco ma soprattutto non sembra opporre una grande resistenza. Si ha come l’impressione che la “finzione” non regga. Forse funziona solo per pochi privilegiati.
Prendiamo una categoria di persone al di sopra di ogni sospetto, un gruppo umano moralmente più affidabile della media: i preti cattolici. La Chiesa Cattolica ha pagato nel 2008 436 milioni di dollari in risarcimenti scaturiti dalle cause di pedofilia. Parliamo quindi di cedimento a “perversioni sessuali”, non di sfoghi fisiologici, lì per fortuna non c’è risarcimento da conferire. Forse la condizione del prete celibe non è tra le più conformi alla nostra natura, nemmeno quando ci riferiamo ad un’élite. La vita sessuale è negata ai preti, e, considerando che si tratta pur sempre di individui con una tenuta etica superiore alla media, ne ricaviamo che la tentazione a cui sono sottoposti è molto molto dura da reggere. Insomma, qualcosa che possiamo definire in molti modi ma non “naturale”.
La confusione tra ciò che ci viene detto e ciò che sentiamo dentro di noi crea un conflitto interiore che non fa bene.
Perché tanti divorzi? Perché così tante famiglie composte da un solo membro? Perché la passione evapora in così tanti matrimoni?
La società in cui viviamo spesso risponde solo a suon di “terapie”. C’è una patologia che va curata. Ed ecco allora sorgere la fiorente industria della “terapia di coppia“.
Viene il dubbio ci sia sotto qualcos’altro. Forse l’uomo contemporaneo comincia ad accusare lo sdoppiamento di personalità a cui è stato sottoposto: da un lato prova una spinta insopprimibile verso la  promiscuità sessuale, dall’altro sente di dover recitare in pubblico il ruolo del coniuge fedele a vita. L’industria dello spettacolo e del cinema conosce bene questo sdoppiamento e ci gioca da sempre.
Ci gioca anche Wall Street dove la pornografia, da Larry Flynt in poi, ha un posto d’onore. Che straordinario conflitto tra  proclami pubblici e  desideri privati! Lo constatiamo tutti i giorni, e vale per tutti : sia per l’uomo comune che per l’uomo famoso. L’ipocrisia sessuale sarebbe inspiegabile se il modello tradizionale di sessualità fosse davvero conforme alla nostra natura.
Si continua a dire che la monogamia è naturale e il matrimonio  un’ istituzione universale ma tutto questo non si combina con una serie di altre innegabili realtà
D’altronde, è facile dimostrare che gli esseri umani si sono evoluti in gruppi estremamente coesi, dove praticamentetutto era condiviso: cibo,  protezione,  cura dei bambini, rifugio… non si capisce bene come mai i piaceri sessuali non avrebbero dovuto esserlo.
Oltre a essere dei marxisti nati, probabilmente eravamo anche degli hippy nati.
Del collegamento  sesso-amore potremmo fare tranquillamente a meno, almeno a giudicare quanto accade tra le scimmie più vicine a noi e i popoli selvaggi che ancora oggi possiamo osservare nell’ Amazzonia.
A sostenere questa tesi c’è una montagna di evidenze circostanziate. C’è il confronto con i primati nostri cugini. Ci sono evidenze anatomiche altrimenti inspiegabili. C’è il nostro eccitamento per ogni novità sessuale che ci viene proposta. Ci sono anche taluni segnali  come la vocalizzazione copulatoria femminile, più conforme all’ipotesi della promiscuità.
Ci sono poi i punti deboli della narrazione comunemente accettata, che è bene allora riassumere brevemente.
***
Nella narrazione standard uomo e donna si cercano: lui è attento a bellezza e  gioventù. Lei invece è in caccia diricchezza e prestigio.
Ammesso che i due si piacciano, si mettono insieme in un’unione destinata a durare per sempre, o comunque a lungo.
Nel corso di questa unione non si può escludere che lei cerchi un po’ di divertimento anche altrove, per esempio con maschi geneticamente più dotati del marito.
D’altro canto, anche lui, una volta  garantita la certezza della paternità, non disdegna relazioni adulterine a breve termine.
Ma la narrazione standard non sembra affatto delineare una condizione naturale, quanto piuttosto un adattamento a particolari condizioni sociali emerse con l’avvento delle pratiche agricole e l’istituzione della proprietà privata.
Da un punto di vista evoluzionistico il tempo che ci separa dalla rivoluzione agricola è un istante nella storia dell’uomo, giusto il 5% sul totale.
Considerati i notevoli vantaggi in termini di ricchezza che all’umanità sono derivati da agricoltura e industria, il matrimonio può ben essere descritto come qualcosa di meritevole… ma non di naturale. Paradossalmente, la sua innaturalità lo rende un “sacrificio” ancora più apprezzabile.
Prima vigeva una società organizzata intorno alla divisione in parti uguali di tutto. Non che questo egualitarismo fosse dettato da ideali nobili, era piuttosto una necessità imposta per motivi di efficienza, un modo con cui l’ animale sociale  uomo minimizzava i suoi rischi.
Potremmo chiamarlo “egalitarismo selvaggio”.
Con l’avvento dell’agricoltura e della proprietà privata l’uomo ha cominciato ad organizzarsi intorno a gerarchie ben precise in grado di razionalizzare gli incentivi.
Agricoltura e proprietà privata cominciarono a rendere molto più accentuate le diseguaglianze e quindi anche la sorte della prole: diventava assolutamente necessario identificare la propria con precisione al fine di destinare senza errori i sacrifici di una vita e l’eredità cumulata.
In una società egualitaria, dove tutti i cuccioli della “banda” vengono cresciuti più o meno nella stessa maniera, non ci sono particolari eredità da “indirizzare”; se così stanno le cose,  perché mai gli individui dovrebbero privarsi di molteplici quanto occasionali relazioni sessuali dettate esclusivamente dal piacere del momento? E’ questo, oltretutto, un modo per rinforzare i legami e la coesione sociale.
Il nostro più antico antenato probabilmente era simile a un gorilla-maschio-alfa che scacciava tutti i suoi competitori per tenersi un harem di femmine. Tuttavia, la crescente capacità di cooperare ha messo in crisi il dominio del singolo  aprendo il suo harem anche agli altri maschi. Le gerarchie sono praticamente sparite, e ogni volta che mostravano di riformarsi la coalizione delle potenziali vittime tornava ad azzerarle.
Per la narrazione tradizionale questo è anche il momento in cui si forma la “coppia duratura“. È vero, talvolta si discute se prediligere l’ipotesi della monogamia o quella della poligamia, senza che si prenda mai in seria considerazione l’ipotesi complessivamente più calzante – ma anche più scandalosa – della promiscuità.
Quel che sappiamo è che la società di cacciatori in cui i nostri avi sono vissuti era di piccole dimensioni e altamente egalitaria, pressoché tutto veniva condiviso: dalla carne all’allattamento dei piccoli, si trattava di gruppi  dove praticamente non esisteva privacy. Il comunismo delle società preistoriche non è messo in discussione da nessun studioso serio, da quel che mi risulta.
È plausibile quindi  ipotizzare che la spartizione si estendesse anche all’attività sessuale. Perché escluderla? Perché non prenderla nemmeno in considerazione favorendo invece l’ipotesi della monogamia? Questo non si capisce bene. Ovvero, lo si capisce molto bene alla luce delle trasformazioni sociali originate 10000 anni fa con l’avvento dell’agricoltura e la conseguente necessità di propagandare una gestione della sessualità senz’altro più rispondente a quel contesto.
Oltretutto, esploratori, missionari e antropologi che nell’era moderna hanno avuto contatti con  popolazioni primitive sembrerebbero supportare la visione di un’umanità lussuriosa e sfrenata.
Se passate un po’ di tempo con i primati più vicini a noi noterete le femmine di scimpanzé avere approcci sessuali con dozzine di maschi differenti ogni giorno.
Guardate poi alla diffusione della pornografia, o anche solo a quanto sia faticoso mantenere una relazione sessuale monogama. Ma davvero qualcosa di naturale può risultare tanto innaturale?
Ci sono poi le nostre caratteristiche anatomiche. Il maschio hatesticoli molto più grandi di quanto un primate monogamo  abbisogni, si tratta di organi che penzolano in modo vulnerabile fuori dal suo corpo, laddove, per contro, la temperatura aiuta a preservare uno sperma sempre pronto ad essere eiaculato in modo efficace. Mostra anche un pene enorme se paragonato a quello degli altri primati, sia per lunghezza che per spessore,  oltre all’ imbarazzante tendenza a raggiungere precocemente l’orgasmo. Il seno prominente e pendulo della femmina, non necessario per l’allattamento, è un altro segno ambiguo. Impossibili da ignorare sono anche i gemiti della donna durante il rapporto: probabilmente un invito ai  maschi lontani; anche la capacità di avere orgasmi seriali supporta l’idea di promiscuità sessuale.
Con la rivoluzione agricola e un’economia più produttiva diventa cruciale poter identificare il proprio erede. Così come i confini terrestri devono essere ben definiti, anche i confini nella prole non devono lasciare adito ad equivoci.
La grande trasformazione lascia sul campo dei perdenti: la donna, che da questo momento diventa una reclusa. Ma anche per l’uomo le cose peggiorano: lo stress del carceriere è talvolta superiore a quello del carcerato. Senza dire che il povero maschio a questo punto deve immolarsi per difendere la sua preda dalle insidie esterne.
Un’altra grana per l’uomo deriva dal doversi procurare uno status sociale adeguato, infatti da ora in poi la donna non lo prenderà più nemmeno in considerazione se poco dotato da quel punto di vista.
La sessualità dell’agricoltore è voyeuristica, repressiva, omofoba e  focalizzata sulla riproduzione. Sembra il motto vetusto di una comune hippy ma è anche l’ipotesi scientifica che fa quadrare molti conti.
La terra deve ora essere posseduta, fatta fruttare e trasmessa alle generazioni future. Ma non alle generazioni future in generale, bensì solo ed unicamente ad una generazione futura ben identificata.
La narrazione standard insiste che la certezza della paternità sia sempre stata della più grande importanza ma francamente i motivi addotti a supporto di questa ipotesi sembrano debolucci.
D’altronde, la ricerca antropologica è ricca di esempi di società dove la paternità biologica è di scarsa o nulla importanza. Chi pensa ad una sessualità promiscua non ha problemi a spiegarselo, ma gli altri?
Possiamo concludere riassumendo così:  il nostro avo era sessualmente molto attivo e libero secondo un canone di promiscuità ribaltato poi nel corso della del periodo “agricolo”; a questo punto la cultura ha agito in modo da introdurre la coppia fissa e il matrimonio, istituzioni più confacenti al nascente regime di proprietà privata. Considerati gli enormi benefici in termini di prosperità e ricchezza per la nostra specie ha ricevuto da questa nuova condizione, specie dopo la rivoluzione industriale, non smetteremo mai di ringraziare quella fetta di umanità che si è sottoposta ad un simile giogo. Tuttavia, non dobbiamo nemmeno rinnegare che  un sacrificio non conforme alla nostra natura profonda sia stato introdotto.
MONOGAM

Perché non andiamo a tormentare il gatto? SAGGIO


Perché non andiamo a tormentare il gatto?


I bambini che compiono abusi sugli animali diventeranno adulti violenti?
Tormentare gli animali è solo una monelleria infantile o anche l’indicatore di una psicopatologia?
Per qualcuno noi siamo crudeli di natura, i nostri antenati erano probabilmente delle scimmie antropomorfe carnivore che si dilettavano a smembrare le loro prede 😦 .
Altri ritengono invece che i nostri bambini siano gentili e che l’insensibilità verso gli animali venga installata da una cultura che promuove attività come la caccia.
Lo stesso Charles Darwin nella sua biografia scrisse che da bambino aveva picchiato un cagnolino semplicemente per assaporare il “gusto del potere”.
L’antropologa Margaret Mead pensava che una delle cose più pericolose che potesse accadere a un bambino fosse quella di uccidere o torturare un animale: ne sarebbe rimasto segnato per sempre.
Nei primi studi sul tema si intervistavano gruppi di criminali aggressivi, gruppi di criminali non aggressivi e gruppi di non criminali, facendo poi i dovuti confronti.
Nel primo gruppo era più probabile trovare soggetti che avessero ripetutamente compiuto abusi sugli animali.
L’idea del nesso tra crudeltà infantile verso gli animali e violenza da adulti si è talmente consolidato che per designarlo è stata coniata l’espressione “The Link” (registrata all’ufficio copyright).
serial killer Albert De Salvo, lo strangolatore di Boston, Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee, e molti altri sono stati tutti accusati di crudeltà infantile verso gli animali.
Ma un esame condotto su 354 casi di omicidi seriali ha riscontrato che quasi l’ 80% degli autori non aveva esperienze precedenti note di crudeltà verso gli animali. E la connessione è ancora più tenue quando si rivolge l’attenzione ai ragazzi stragisti nelle scuole.
Tuttavia, l’ American Psichiatric Association ancora include la crudeltà verso gli animali fra i criteri diagnostici dei disturbi della condotta.
E recentemente uno studio come quello di Linda Merz-Perez e Catherine Heide insiste sul nesso.
Ma il sociologo Arnold Arluke, nel confrontare la fedina penale di alcuni soggetti che nell’infanzia erano stati condannati per abusi sugli animali con quella di un gruppo di cittadini “immacolati”, lo smentisce
Ai corsi di logica impariamo che se tutti gli A sono B, non vuol dire che tutti i B siano A. Il fatto che la maggior parte dei dipendenti da eroina abbia cominciato fumando marijuana non implica che fumare l’erba farà di te un tossico. La stessa cosa può dirsi del nesso tra violenza verso gli animali e criminalità: il bambino che strappa le ali a una falena non è particolarmente predisposto all’omicidio.
Se si studia la storia pregressa dei criminali e la si mette a confronto con quella dei soggetti rispettosi della legge ci si accorge che la percentuale di molestatori di animali non varia granché. Almeno se stiamo al lavoro certosino realizzato daEmily Patterson-Kane e Heather Piper.
Ci sono cose che effettivamente facilitano la predizione di un futuro violento, per esempio la propensione di certi bambini a picchiarsi fra loro, oppure l’abitudine a mentire sistematicamente, oppure ancora l’inclinazione ad appiccare incendi. Ma la crudeltà verso gli animali non è affatto predittiva. Almeno, così dice Suzanne Goodney Lea, andatevi a cercare i suoi lavori su internet.
Ma perché i bambini molestano gli animali? La risposta più frequente che danno loro stessi è di questo tenore: “non avevamo niente da fare, ci annoiavamo, e allora abbiamo detto: perché non andiamo a torturare il gatto?”.
Arnold Arluke avanza un’ipotesi drastica, è convinto che, per molti bambini, la crudeltà verso gli animali sia una componente normale della crescita, contribuisce a cementare i legami fra i cospiratori “complici nel crimine”.
Altri pensano al bambino come ad un esploratore compulsivo, e fanno rientrare le molestie agli animali in questa attività di “ricerca”.
La cosa migliore, ad ogni modo, è affrontare il problema in sé per sé senza trasformare i bambini dediti a questa attività in potenziali adulti psicopatici.
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