mercoledì 10 settembre 2014

Le virtù dell’ ipocrisia

L’ altro giorno, al ristorante, parlando del più e del meno con Sara, mi è capitato di tessere le lodi dell’ ipocrisia.

Una sua collega poco diplomatica aveva scatenato un putiferio nell’ ambiente lavorativo. Ma perché!? Perché lei non è… non è un’ ipocrita.

Un po’ come quella sgradevole rompi balle dell’ Antonella Elia sull’ Isola dei Famosi.

Da lì è partita la mia apologia di questo “difetto con molte eccezioni virtuose”.

Ecco poi che ieri, navigando qua e là su internet, mi sono imbattuto in una dura condanna dell’ ipocrisia priva di “distinguo” a cura di Padre Giovanni Cavalcoli, Sacerdote e teologo dell’ Ordine dei Domenicani.

Mi sono un po’ indispettito (si fa per dire) ma soprattutto incuriosito.

***

Nel denunciare i vizi dobbiamo essere prudenti, non solo perché rischiamo di non vedere la famosa “la trave” ma anche perché non esiste niente di più pericoloso che pretendere di isolare un vizio e formularne una condanna assoluta.

Recentemente il gesuita Papa Francesco in persona ha condannato risolutamente il dire ipocrita. Tuttavia, un gesuita che condanna l’ ipocrisia è uno spettacolo raro visto che proprio loro ci hanno insegnato per secoli le virtù contenute in questo difetto. Il “simula et dissimula” non è il loro motto solo perché nella scelta del motto ha prevalso… una certa prudenza tipicamente “ipocrita”. Quindi sotto questa condanna qualcosa bolle in pentola, non riesco a prenderla del tutto sul serio.

Ma Padre Giovanni è un Domenicano.

Torniamo quindi a lui, vediamo su quale definizione di ipocrisia si esercita:

… l’ipocrisia è quell’atteggiamento per il quale il soggetto, per ottenere approvazioni od onori dagli onesti, assume all’esterno un modo di pensare o di agire apparentemente onesto, ma internamente, “sotto sotto”, come si suol dire, l’intenzione è cattiva, ingannevole e dannosa nei confronti di quegli stessi onesti. Si tratta dunque di una forma di finzione o simulazione, che si propone di ottenere un successo mondano acquistandosi una fama immeritata di virtù…

Che delusione.

Non ci vuole molto a condannare chi “simula l’ onestà con intenti disonesti”.

Da cosa dovremmo “guardarci” prima di esprimere la nostra disapprovazione verso chiunque si comporti in questo disdicevole modo.

La definizione data da Padre Giovanni Camaldoli è inservibile, non ci aiuta a progredire di un passo.

ipocrisia-3

Prendete invece una definizione più costruttiva e legata all’ etimologia, per esempio questa:

… ipocrita è colui che simula un certo comportamento nascondendo i suoi reali interessi… chi sfrutta le apparenze occultando così la sostanza delle sue intenzioni… chi simula certi comportamenti per ottenere certi scopi che tiene ben nascosti ai terzi… chi agisce in modo torbido coltivando nel suo cuore segreti che non intende condividere col prossimo…

Questa sì che è una definizione neutra.

Con una definizione del genere possiamo esercitarci sul serio e capire cosa c’ è da salvare in questo vizio senza dover concludere banalmente che “chi agisce con intenti disonesti è disonesto e da condannare”.

***

Leggo sul Corriere della sera:

… no alle bici contromano sulle strade italiane… così non si aiutano i ciclisti ma facciamo loro del male… li mettiamo in pericolo…

E via discorrendo.

Da ciclista/automobilista/pedone ho subito drizzato le antenne quando il titolo è comparso sotto i miei occhi.

Seguo la vicenda e so che oggi siamo in un limbo: non si sa bene se sia consentito andare con la bici contromano o sui marciapiedi. In genere si ritiene di no, ad ogni modo un vigile pieno di zelo che ti impartisce un’ umiliante ramanzina lo trovi sempre, e magari trovi pure quello che ti fa la multa (il gettito tasi è stato deludente dalle nostre parti).

Altrove leggo però che il numero di incidenti in cui sono coinvolti ciclisti circolanti contromano è infinitesimale. Praticamente irrilevante se paragonato ai numerosi incidenti che abbattono ciclisti senza macchia ligi a legge e senso di marcia.

Eppure, per mia esperienza, le bici che viaggiano contromano nel centro cittadino sono una marea. D’ altronde, avrebbe davvero poco senso cercare di evadere il traffico con la bici e poi non poter andare contromano per le vie del centro che sono praticamente tutte a senso unico. Seeee, e poi? Dimmi che devo prendere la tangenziale e la facciamo finita.

Quanto ai rischi, anche qui l’ introspezione conferma; dopo una lunga carriera di ciclista urbano, ripenso alle situazioni di pericolo: non me ne viene in mente neanche una in cui percorrevo la strada contromano, eppure ci vado spesso.

Ma perché così pochi incidenti? Perché così pochi rischi?

L’ ipotesi più probabile è che andando contromano il ciclista sia molto più attento e prudente.

E’ un’ ipotesi che mi sento di confermare in pieno: quando imbocco una strada contromano ho gli occhi spalancati (anche dietro) e non di rado procedo a passo d’ uomo. Tutti i miei sensi sono tarati al massimo della ricettività. Difficile che in queste situazioni corra dei pericoli reali. E se la situazione si fa davvero critica… ooop, eccomi sul marciapiede come un pedone qualunque :-).

Per contro, i pedoni investiti sulle ciclabili da ciclisti fischiettanti che procedono con la sicumera di chi crede di potersi permettere una testa fra le nuvole, non si contano. Così come pure i ciclisti integerrimi ribaltati da portiere aperte all’ ultimo momento: la coscienza troppo a posto crea sonnolenza e ritarda i riflessi.

Nulla di nuovo sotto il sole. E’ lo stesso motivo che spiega perché la gran parte degli incidenti automobilistici avviene vicino a casa: quando ci sentiamo più sicuri ci rilassiamo e patatrac.

Ma se le cose stessero davvero così che fare, vietare o no?

Da un lato il divieto produce solo danni: “evita” incidenti che già oggi non ci sono per comprimere comodità notevoli.

Dall’ altro, questo basso numero di incidenti è probabilmente dovuto anche al fatto di ritenere che esista un divieto implicito a certi comportamenti sulla strada e quindi, quando li si adotta, si è molto prudenti.

Da ultimo, qualora si decida di non vietare, ora che la questione è sul tavolo, ci sarà un liberi tutti. Si potrà ritenere che la circolazione contromano sia stata esplicitamente concessa, cosicché il “contromanista” si trasformerà da vigile e furtivo utente della strada in un pericoloso “rilassato” voglioso di rivendicare i suoi risarcimenti) al primo incidente o i suoi diritti al primo automobilista che “stringe”.

cicli contro

In queste condizioni, qual è la soluzione ottima per il bene della comunità?

Solo una: l’ ipocrisia.

Si vieta in teoria ma si chiude un occhio di fatto. Si minaccia al Ministero ma non si punisce sulla strada.

Il ciclista continua a fare quello che faceva prima, impaurito – e quindi prudente - come prima. Lo farà perché capirà presto che di fatto nessuno glielo impedisce, d’ altronde saprà di essere formalmente in torto marcio, senza contare le responsabilità al minimo inconveniente.

Solo questa soluzione “ipocrita” crea quell’ ambiguità necessaria a minimizzare i rischi conservando le comodità.

Sono le virtù dell’ ipocrisia, baby.

Nell’ ipocrisia rientra anche il fatto che nessuno dovrà mai accennare che si è scelta questa via, ovvero la via ottima per il bene comune. Se la cosa trapelasse verrebbe presa come un’ “autorizzazione esplicita” e tutti i benefici sparirebbero.

Bisognerà che il politico “simuli”, che sbandieri altre intenzioni ben sapendo che in realtà si è affidato alle “virtù dell’ ipocrisia”.

Diciamo che il consiglio dei Ministri chiamato a queste scelte sarebbe meglio non trasmetterlo in streaming. Con buona pace di Grillo.

Ma forse… forse a pensarci bene nemmeno è necessario. Un ministro “ipocrita dentro” (tra i politici non manca la materia prima e forse proprio Lupi fa il caso nostro) magari crederà lui stesso in prima persona nella simulazione che dovrà inscenare. Tanto meglio, ci guadagniamo in credibilità. Oltretutto, miracolo, un ministro così pronto all’ autoinganno cesserà automaticamente di essere un ipocrita: mica mente, mica edulcora un tipo così. Ma qui andiamo a tutta velocità verso l’ essenza della politica, meglio fermarsi, mi gira la testa.

*** continua (forse)***

I prossimi due capitoli:

1) Perché l’ Onda Verde deve essere ipocrita per ottimizzare la circolazione del traffico sulle strade italiane?

2) Perché il contrasto nella Chiesa tra Fondamentalisti e Tradizionalisti  puo’ essere ricondotto ad un contrasto sul valore dell’ ipocrisia?

 

 

 

martedì 9 settembre 2014

Social Desirability Bias

Social Desirability Bias: How Psych Can Salvage Econo-Cynicism, Bryan Caplan | EconLog | Library of Economics and Liberty:



'via Blog this'

Georgismo

Secondo i "georgisti" il captalismo non presenta problemi morali salvo il fatto che non sappiamo se la distribuzione delle risorse naturali (essenzialmente la terra) all' inizio del "gioco del libero mercato" fossero eque. Siccome possiamo presumere un' equità, vale la pena di tassare i fortunati a tutto vantaggio degli sfortunati.

Obiezioni:

1) se la responsabilità è individuale, come individuare vittime e carnefici?

2) il valore originale della terra rispetto al suo valore attuale è infinitesimale, non copre un' eventuale tassazione.

3) ammettiamo pure di non considerare il valore originario ma il valore attuale; dove la terra vale molto? Dove ci consente di stare vicino a persone che promuovono gli scambi. Ma allora questo valore è da imputare a queste persone, che probabilmente sono anche le più ricche: un disoccupato, per esempio, contribuisce ben poco agli scambi. Anche accettando per amore di conversazione talune forzature proposte dai georgisti, basta mantenere fermo il principio per cui "il valore và a chi lo produce" e difficilmente una tassa sulla terra beneficierebbe le persone indicate dai georgisti.

 http://www.cato-unbound.org/2014/08/28/michael-huemer/more-about-georgism-land-taxes

lunedì 8 settembre 2014

The Basic Income and the Welfare State

August 2014: The Basic Income and the Welfare State | Cato Unbound:



'via Blog this'



Dubbio filosofico: è giusto?

Dubbio pratico: quanto disincentiva il lavoro?

Dubbio pragmatico: è fattibile?

Dubbio di fondo: fa scattare la trappola della povertà?


Nel mondo dei suoni

Avevo iniziato a scrivere questo post ma poi mi sono stufato e l' ho piantato a metà. Forse la materia si è allargata un po' troppo e francamente ora non ho voglia di fare quello sforzo intellettuale necessario per riannnodare i fili. Pazienza, forse domani... per ora posto ugualmente i lavori in corso.

***

Sono convinto che un’ autentica esperienza musicale sia qualcosa di raccomandabile: oltre ad arrecare piacere, contribuisce all’ edificazione spirituale della persona e al rafforzamento delle sue convinzioni più profonde. 

Anche per questo sarebbe auspicabile che un giovane sia messo nelle condizioni più propizie per dedicarsi a 

Tuttavia, sono anche convinto di esprimere un’ idea eccentrica, l' introduzione alla musica si compie quasi sempre su altre basi. 

Mi spiego meglio.

Introdurre alla musica significa essenzialmente accompagnare per mano il neofita nel mondo dei suoni, senonché esistono concezioni molto diverse di cosa sia un suono.

Una semplice domanda spesso utilizzata da chi approfondisce queste faccende è già in grado di discriminare tra impostazioni radicalmente diverse: si puo’ introdurre una persona sorda nel mondo dei suoni?

Il buon senso ci dice di no ma secondo alcuni parrebbe invece di sì.

La risposta, evidentemente, dipende dalla concezione che si ha del suono e da questa concezione dipendono poi molte altre cose. 

Chi risponde affermativamente ritiene che per capire cosa sia un suono basta descrivere come viene prodotto. 

A questo punto si cominciano a menzionare oggetti vibranti, onde,  frequenze, meccanismi di trasmissione nell’ etere, orecchi con relativa dotazione di timpani, membrane e quant' altro. 

Per chi predilige questa impostazione il suono è semplicemente la proprietà che hanno alcuni oggetti di produrlo allorché opportunamente trattati.

Le azioni necessarie per produrre un suono possono essere puntigliosamente descritte e anche una persona sorda (ma intelligente) puo’ comprenderle abbastanza bene. Tutto puo’ essere anche visualizzato ed esemplificato, e questo senz’ altro aiuta. Insomma, col sordo si puo' fare di tutto tranne che ascoltare, cosicché divnta difficile dire se una persona del genere possa mai essere realmente "introdotto nel mondo dei suoni". In effetti a questa trafila sembrerebbe mancare qualcosa di fondamentale.

Eppure, considerare il suono come una semplice proprietà degli "oggetti risonanti” sembra entusiasmare molti. Perché?

Fateci caso. Cosa domina in questa visione? 

Oggetti, aria, membrane… La materialità sembra farla da padrona nel resoconto "produttivista", e forse proprio questo piace tanto all’ uomo moderno che si sente come rassicurato e à la page dalla precisione e dalla concretezza "scientifica", per quanto arida possa essere.

L' evoluzionista, per esempio, guarda volentieri ai suoni in questa ottica: l’ uomo primitivo era abile nel risalire dai suoni alle fonti, per lui l' identificazione delle fonti era fondamentale, una questione di vita e di morte: le foglie del bosco schiacciate in una certa maniera producevano un suono che indicava l’ avvicinarsi dell’ orso da fuggire. Questa enfasi sui meccanismi di produzione sonora rende il suono in se stesso un epifenomeno trascurabile, quel che conta è la "fonte" e la sua identificazione.

Peccato che una descrizione del suono in questi termini, oltre che arida, sia anche lacunosa e insoddisfacente nel momento in cui pretende, contro il senso comune, che anche il bambino sordo possa comprendere appieno la musica.

Ma allora qual è l’ alternativa?

Per capirlo bisogna pensare meglio dove l' impostazione "produttivista" forza la mano. 

In poche parole, essa identifica indebitamente il suono con le fonti sonore, il prodotto finito con il processo di produzione. Una volta descritti i processi per produrlo, si pensa di aver dato conto del suono, di aver fornito gli elemeti necessari per comprenderlo. Per questo motivo ho voluto chiamare questa visione "approccio produttivista".

Ma il suono, forse, è qualcosa di diverso, qualcosa di concepibile come a se stante, sebbene, nessuno lo nega, per esistere sia necessario che venga prodotto in qualche modo.

Questa confusione genera il paradosso del bambino sordo perfettamente consapevole della musica che non ascolta.

Fateci caso, in teoria anche un sordo sarebbe in grado di suonare uno strumento, persino di comporre una musica valida. Ma se è solo per questo anche un computer potrebbe in teoria suonare e comporre (cominciano in effetti a comparire prototipi in grado di superare il test di Turing relativo). D'altro canto, un computer non puo' ascoltare musica, proprio come il sordo. E' per questo motivo che chi non aderisce all' ideologia produttivista ritiene estremamente problematico introdurre alla musica sia il computer (per quanto intelligente) che il sordo (per quanto intelligente). 

Ma proviamo allora ad evitare le forzature commesse dall' impostazione produttivista, proviamo ad essere più rigorosi, vediamo dove il rigore ci conduce e forse scopriremo anche perché si è tanto riluttanti a seguirlo.

L' alternativa migliore consiste nel considerare il suono un fenomeno (puro evento), ovvero qualcosa che noi possiamo anche descrivere parlando delle cause che lo hanno generato ma per comprenderlo appieno doppiamo necessariamente sperimentarlo.

Quando siete a tavola, provate a spiegare cosa si prova degustando il "dolce" ad una persona molto arguta che però non puo' sentire i sapori.

Il bambino sordo non puo’ comprendere i suoni perché puo’ comprenderne solo la descrizione. Ma se è vero che i suoni sono innanzitutto dei fenomeni, la loro comprensione implica sperimentazione diretta, attività preclusa al bambino sordo.

Ho quindi distinto il suono/oggetto dal suono/fenomeno, poiché solo quest’ ultima formula è rigorosa.

Non si puo’ dar conto di un fenomeno senza ricomprendere nel resoconto il soggetto che lo percepisce.

Non si puo’ dire cosa sia un suono senza far rientrare nel resoconto l’ orecchio che lo percepisce.

Nell' impostazione alternativa, quindi, l' orecchio in ascolto è più importante sia della mano che batte, pizzica o pigia, sia della bocca che soffia.

In realtà parlare di “orecchio” non basta. Se lo scenario fosse popolato solo di orecchi, mani e bocche avremmo in scena una serie di oggetti che interagiscono tra loro, e saremmo punto e a capo.

Per uscire dal circolo vizioso occorre che all’ altro capo della relazione ci sia una mente in grado di fare esperienze.

Si tratta di esperienze necessariamente solipsiste, ovvero non comunicabili, anche se possiamo supporre che l' esperienza di coloro a cui ragionevolmente attribuiamo una mente simile alla nostra, somigli in qualche modo alla nostra.

Ma forse parlare di mente è ancora poco, molti potrebbero avere una concezione fisicalista della mente, potrebbero pensare che i processi mentali siano descrivibili, io direi allora che occorre una coscienza. E per chi ritiene che anche la coscienza dell' uomo sia riducibile a descrizioni fedeli, è allora necessario parlare di spirito: per introdurre alla musica l' elemento centrale è lo spirito dell' ascoltatore.

Al cosiddetto "approccio produttivista" si contrappone quindi il cosiddetto "approccio spiritualista".

Riepilogo: noi capiamo cosa sia un suono, non attraverso una descrizione rigorosa dello stesso, ma mettendo al centro chi è in grado di capirlo. Solo mettendo al centro CHI capisce la COSA riusciamo a capirla noi stessi. 

In altri termini, il suono è quel fenomeno prodotto da certe reazioni ben descritte dalla scienza acustica che puo’ essere compreso fino in fondo solo da una persona che ne fa un' esperienza diretta e solipsista, ovvero non comunicabile.

E allora diventa chiaro che perché il mondo dei suoni ha un senso necessariamente amputato per i bambini sordi che non potranno mai farne un' esperienza solipsista, pur potendo accedere a tutte le descrizioni più accurate in merito.

Ora diventa chiaro anche perché la via dettata dal senso comune, la via più rigorosa, chiara e priva di paradossi sia minoritaria: perché implica concetti quali quello di “introspezione”, "coscienza", “spirito” che sono come fumo negli occhi per molti uomini del nostro tempo in grado di tollerare a malapena il concetto di "orecchio".  

D’ altro canto, spero, comincia a diventare meno improbabile la mia affermazione iniziale: “… un’ autentica esperienza musicale… contribuisce all’ edificazione spirituale dell’ uomo…”.


Se i suoni, e quindi la musica, sono così intimamente connessi con la mente umana, e quindi con lo spirito dell’ ascoltatore, diventa più plausibile che agendo opportunamente sui suoni si possa agire in modo edificante e consolante anche sullo spirito di chi ascolta.

***
Dopo aver chiarito come intendere il "suono" possiamo ora dedicarci alla musica e al suo significato.

Così come il suono è cio' che sente chi ascolta un suono, il significato della musica è cio' che comprende chi capisce una musica. Ma cosa significa capire la musica?

La musica ordina i suoni come il linguaggio naturale ordina le parole e i concetti ma l' analogia non puo' protrarsi molto oltre. 

Una persona dimostra di comprendere una parola del linguaggio naturale utilizzandola correttamente ma per la musica vale qualcosa del genere?

Il "produttivista" risponde affermativamente ma lo "spiritualista" è molto più prudente: suonare correttamente un brano musicale - cosa alla portata di sordi e computer, tanto per dire - non è garanzia di comprensione dello stesso così come, d' altro canto, una musica puo' essere compresa da chi l' ascolta senza essere in grado di riprodurla. Anzi, questo è il caso più comune.

Chi parla in modo goffo, meccanico e autistico puo' tuttavia comprendere benissimo il significato di cio' che dice mentre chi esegue volontariamente l' Adagio di Barber in modo goffo, meccanico e autistico, pur potendo fare altrimenti, non ha capito niente della musica che interpreta.

C' è chi pensa allora che comprendere la musica sia piuttosto assimilabile alla comprensione della mimica facciale dei nostri interlocutori. Non c' è dubbio infatti che è soprattutto attraverso questo espediente che noi diamo una coloritura espressiva alle frasi che pronunciamo. 

In questo caso il parallelo regge senz' altro meglio. In effetti, per comprendere la mimica facciale del nostro interlocutore non è importante saperla riprodurre autonomamente. Perché mai un abile ritrattisti dovrebbe essere particolarmente abile nel dominare la sua mimica facciale?

Tuttavia anche questo parallelo rischia di essere incompleto, tanto è vero che non si vede perché un "produttivista" non possa farlo suo. Cosa impedisce, infatti, che attraverso una descrizione accurata della mimica facciale si possa poi redigere un dizionario analitico delle emozioni? Molta psicologia si dedica proprio a questo compito, e con successo! Ma se la sua descrizione analitica esaurisce la comprensione dell' emozione, allora siamo in pieno approccio "produttivista". 

Noi comprendiamo la mimica facciale del nostro interlocutore solo se riusciamo a metterci nei suoi panni, solo se in noi esiste un' esperienza in qualche modo simile a quella che lui intende comunicarci. Per comprendere la sua mimica facciale dobbiamo necessariamente fare appello alla nostra vita interiore, in particolare isolando in modo non arbitrario quelle esperienze vissute in cui abbiamo potuto vivere a fondo delle emozioni quanto più simili a quelle che ora lui tenta di esprimere. Solo in questo caso c' è autentica comprensione della mimica facciale.

E per la musica è un po' lo stesso, in essa l' artista rappresenta alcune emozioni ed esiste un solo modo per comprenderle:  fare appello alla nostra vita interiore isolando in modo non arbitrario l' esperienza personale che ci ha regalato emozioni in qualche modo assimilabili. E' solo con un riferimento all' esperienza personale, quindi, che si comprende la musica; attenzione però, non dico che l' esperienza concreta debba apparire in modo chiaro alla nostra immaginazione di ascoltatori, la musica non deve necessariamente rinviare a fatti concreti della nostra vita, il centro di tutto è l' emozione e solo quella, ma noi, per quanto detto prima, sappiamo che non possiamo conoscere cosa sia quell' emozione se non l' abbiamo esperita direttamente e in modo solipsistico.

Ora dovrebbe essere ancora più chiaro quanto sostenevo all' inizio: “… un’ autentica esperienza musicale… contribuisce all’ edificazione spirituale dell’ uomo…”: se la musica rinvia alle emozioni personalmente vissute, è chiaro che una grande musica evocherà in modo appropriato i frutti interiori più preziosi della vita vissuta riproponendoli in modo vivido alla nostra meditazione. La bellezza stessa non è tanto un attributo dell' opera quanto qualcosa che emerge da questa esperienza interiore che l' opera suscita. Ma queste sono anche le condizioni ideali per edificare il proprio Spirito e rafforzare le proprie convinzioni morali più autentiche.

***
Il "produttivista" si oppone risoluto a conclusioni simili e cerca vie alternative. Quella "formalista", per esempio, gli sembra di gran lunga preferibile. Vediamo di che si tratta.

Per il formalista anche solo l' espressione "comprendere la musica" è quantomeno problematica. La musica ha davvero un senso da comprendere?

Probabilmente no, pensa il formalista. Non siamo affatto autorizzati a trattarla come la metafora di qualcosa, e soprattutto non dobbiamo coinvolgere la vita interiore di chi ha a che fare con i suoni: quando l' interiorità ha il sopravvento tutto si fa oscuro e incomprensibile.

La musica non puo' essere una metafora di qualcos' altro poiché si riferisce solo a se stessa.

Ma cosa significa un' affermazione del genere? Cosa significa affermare che la musica si riferisce solo a se stessa? Cosa significa affermare in modo perentorio l' autonomia della musica?

Eduard Hanslick, il padre nobile del formalismo, sosteneva che la musica è mera forma resa attraverso i suoni. L' architettura musicale e le varie dinamiche strumentali sono le uniche cose che siamo autorizzati a comprendere quando ascoltiamo della musica. 

Coerente con questa impostazione EH ci parla delle musiche utilizzando proprio la metafora architettonica e dinamica. Ma qui cade in contraddizione poiché egli stesso fa un uso insistito di metafore, ovvero di uno strumento appena condannato. Anche per descrivere una mera forma musicale, infatti, si fa uso di metafore! Dire che la musica  sale, scende o accelera, è solo una metafora, in realtà i suoni non fanno niente di tutto cio'.

Il formalista ci chiede di attenerci strettamente al dettato musicale, alla materia dello spartito senza rendersi conto che anche il gergo musicale più stretto è solo una comprensione metaforica di quanto accade. Se proprio vogliamo ridurre la mediazione metaforica non è tanto al musicista che dovremmo rivolgerci quanto al fisico, ma questo è palesemente assurdo.

Nemmeno il formalista, quindi, riesce a fare a meno delle metafore quando comprende la musica. Ma se il formalismo è un utopia, se la metafora è necessariamente sdoganata, tanto vale evitare quelle più sterili, ricorriamo piuttosto a quelle più pregnanti e più in grado di descrivere con pertinenza cio' che vive l' ascoltatore cosciente, anche a costo di rischiare di più in termini di arbitrio.

I formalisti moderni si sono accorti delle contraddizioni dei padri nobili e hanno dovuto giocoforza radicalizzare il loro approccio per poter tenerlo in piedi. 

Per loro, oggi, fare musica equivale a giocare. Del resto in inglese "suonare" e "giocare2 sono la stessa cosa.

Per i formalisti ludici la musica non ci comunica nulla di significativo, la musica è completamente svuotata da ogni metafora, è solo una mera "sintassi sonora" dotata di regole con cui gioca chi ascolta e chi suona. 

Ti annoi? Puoi riempire un cruciverba. Ti annoi ancora? Puoi compilare un sudoko. Il tedio ti assale? Puoi risolvere un rebus... Oppure, in alternativa, puoi pur sempre ascoltare/suonare della musica. In fondo si tratta di attività succedanee le une alle altre, tutte a disposizione del nostro piacere.

Allo "spiritualista" questa visione sembra davvero miserella. 

Come dicevamo, lo "spiritualista" ritiene che la musica possa essere anche compresa. Che la comprensione sia una facoltà autonoma e indipendente. Contro il "produttivista2 ritiene che sia una facoltà scollegata dall' abilità nel riprodurre correttamente i suoni. Contro il formalista ludico ritiene che sia una facoltà scollegata dalla capacità di trarre un mero piacere dai suoni a cui si è esposti.

La visione del formalista ludico però è particolarmente insidiosa poiché il gioco è la specialità dei bambini e l' introduzione alla musica riguarda per lo più proprio loro.

La visione del formalista ludico attrae il formatore poiché grazie al mero gioco riesce ad interagire più facilmente con il discente. 

In un certo senso giocare con la musica costituisce una tappa obbligata per chiunque voglia iniziare il bambino al mondo dei suoni. Il fatto preoccupante è che per la maggioranza dei formatori non esistono tappe ulteriori. 

Per i formatori "ludico/produttivisti" l' evoluzione del discente è molto semplice: costui passa dall' essere un giocatore approssimativo all' essere un giocatore particolarmente abile. Fine. 



***
Appunto: parlando di formazione riprendi le 5 fasi del gioco abbinando a ciascuna un aspetto su cui insistere per una corretta formazione all' ascolto musicale...

giochi di ripetizione
giochi di ruolo
giochi di regole
giochi di scoperta (di regole)
giochi di metafora (sulle regole scoperte)
...


musica

L' asimmetria tra etica ed estetica

1) Ascoltata l' episodio biblico che narra il fratricidio di Caino concludiamo che Caino ha torto.

2) Ascoltato l' Adagio di Samuel Barber concludiamo che è bello.

3) Richiesti di giustificare il primo giudizio diciamo: "penso che esista un principio etico per cui non è consentito uccidere un innocente, quindi Caino ha torto".

4) Richiesti di giustificare il secondo giudizio diciamo: "penso che esista un principio estetico per cui disporre i suoni in quel modo è corretto, quindi l' Adagio di Barber è bello".

5) Se le giustificazioni 3) e 4) fossero entrambe conformi al senso comune, allora tra etica ed estetica esisterebbe una simmetria conforme al senso comune e sarebbe giustificata una meta-etica e una meta-estetica omogenee dal punto di vista filosofico.

6) Penso però che la giustificazione espressa in 4) non sia conforme al senso comune. Sarebbe più plausibile dire: "l' Adagio di Barber riesce ad evocare in chi lo ascolta emozioni nobili e autentiche, per questo è bello".

7) Se davvero il giudizio estetico espresso in 6) fosse conforme al senso comune quanto il giudizio etico espresso in 3), allora tra etica ed estetica si produrrebbe un' asimmetria: il giudizio etico è giustificato dalla ragione facendo appello ad un principio intuito grazie alle nostre facoltà intellettuali. Il giudizio estetico è giudicato grazie ad un' esperienza nella quale sperimentiamo emozioni (o la memoria di emozioni) autentiche.

8) Se le cose stanno come detto in 7), allora occorre una meta-etica cognitiva (realista) e una meta-estetica non-cognitiva (anti-realista).

9) Prima possibile obiezione: anche il giudizio etico puo' essere in realtà giustificato da un sentimento di ripugnanza: la figura di Caino ci ripugna e noi lo condanniamo.

10) Risposta alla prima possibile obiezione: avremmo condannato fermamente Caino anche se l' avessimo chiamato "A" e inserito in una storia asettica che non suscita ripugnanza, in cui magari si uccide premendo un bottone. In questo caso il sentimento di ripugnanza difficilmente avrebbe influenzato il nostro giudizio.

11) Concessione alla prima possibile obiezione: non si puo' negare che il sentimento di ripugnanza abbia un ruolo in taluni giudizi etici. In questo senso l' etica puo' essere vista come divisa in due: principi di base (cognitivi) e limiti ai principi + precetti secondari (non cognitiva). Deontologia e virtuismo possono convivere e forse questa distinzione è la base della laicità.

12) Seconda possibile obiezione: il giudizio espresso in 4) non è poi così difforme rispetto al senso comune. Il formalismo in fondo esprime giudizi di questo tenore.

13) Risposta alla possibile seconda obiezione: se accettassimo 4) per giudicare l' opera basterebbe descriverla anziché sperimentarla. Esempio, se leggessi i primi undici suoni di una serie dodecafonica potrei anche concludere che manca il do diesis per completare la serie, allo stesso modo se ascoltassi quella serie suonata potrei dire che un do diesis finale completerebbe bene la frase. Ma il primo giudizio (grammaticale) non equivale al secondo (estetico). Il primo puo' essere fatto sulla carta, il secondo deve nascere da un' esperienza di ascolto.

13) Conclusione: l' etica predilige una filosofia realista, l' estetica predilige una filosofia anti-realista.

sabato 6 settembre 2014

Per una teoria estetica anti-realista

Realismo o anti-realismo?

Premessa: entrambe le posizioni si sposano con l' oggettivismo.

E' anche vero che oggettivismo e realismo è l' accoppiata vincente: se un' opera mi appare bella allora la sua bellezza è qualcosa di reale che posso descrivere. Se un' azione mi pare buona, allora la sua bontà è qualcosa di reale che possono descrivere.

In realtà, però, il parallelo tra arte ed etica è problematico: l' oggetto dell' etica sono i valori umani. Assumendo il principio della "fallacia naturalistica", non ci sono altre discipline con il medesimo oggetto. L' arte si occupa delle emozioni umane. Anche la psicologia si occupa delle emozioni umane descrivendole puntualmente.

L' arte deve quindi differenziarsi da approcci concorrenti al medesimo oggetto, esigenza che l' etica non ha. Lo fa rinunciando alla "descrizione" in favore dell' "espressione". L' espressione ci parla di cio' che sfugge alla psicologia e a qualsiasi approccio descrittivo. L' espressione fa appello a un' esperienza interiore di emozioni da condividere con l' artista: il sentimento della bellezza emerge quindi dentro di noi (anti-realismo) da questa condivisione sincera. Essendo un' esperienza cessa di essere un attributo dell' opera d' arte.


venerdì 5 settembre 2014

Gender and Risk-Taking | askblog

Gender and Risk-Taking | askblog:



'via Blog this'

Estate 2014 -

estate 2014 - YouTube:



'via Blog this'

Estatissima 2014

estatissima 2014 - YouTube:



'via Blog this'

Musica e solipsismo

Nel linguaggio la vaghezza ha anche una doppia funzione positiva 1) sviluppare conoscenza comune (gli esempi non mancano) e 2) far cooperare più soggetti alla ricerca di verità.

La musica è un linguaggio vago che 1) ci unisce e 2) ci dice chi siamo realmente. Comunità e Verità.

Ma come possono essere legati verità e vaghezza? Attraverso la comunione per simpatia tra autore e ascoltatore.

Un esempio banale per farsi un' idea: se due soggetti guardano un oggetto blu diranno di vedere entrambi un oggetto blu, ma come possono essere sicuri di intendere per "blu" la stessa cosa? In altri termini, come possono essere sicuri di provare la stessa sensazione di fronte ad un oggetto blu? Non esiste questa garanzia, puo' darsi che di fronte a quell' oggetto il primo soggetto provi le stesse sensazioni che il secondo soggetto prova rispetto ad un oggetto giallo. L' equivoco di fondo è sempre possibile poiché le convenzioni linguistiche sono impotenti nell' affrontarlo, non esistono parole precise per esprimere l' esperienza del guardare un oggetto blu, e se questo vale per i colori, gusti e suoni, vale ancora di più per le emozioni e i valori. La nostra conoscenza più importante è di tipo "solipsistico". L' intuizione è al centro di tutto e la musica lavora proprio sull' intuizione interiore di chi è chiamato a comprenderla.

La musica (e l' arte in generale) cerca in ultima analisi di colmare il nostro solipsismo, di diminuire le probabilità di equivoco con l' altro. L' arte crea una simpatia tra noi e l' autore riducendo gli equivoci a cui è sempre esposto il resoconto dell' esperienza interiore. Comunità e verità, quindi.

lunedì 1 settembre 2014

Come uscirne

La crisi di bilancio stronca l' economia dell' Occidente, e con l' invecchiamento della popolazione andrà sempre peggio. Siccome sembra che al welfare non s' intenda rinunciare e siccome "tagliare gli sprechi", "vendere il patriomonio e "tassare i ricchi" sono manovre del tutto insufficienti, ecco un' alternativa, o meglio, un aggiunta:

1) far pagare i servizi a chi puo' permetterselo (ISEE a tutto campo), a cominciare da scuola e sanità.

E' vero, cio' crea un impoverimento generalizzato ma che è comunque compensabile grazie a globalizzazione e nuove tecnologie. In altri termini, alla stagnazione dei salari reali (w\p) rispondere agendo su p. Il low cost è una realtà in espansione: viaggi, mobili, case e consumi vari si possono realizzare anche grazie a low cost sempre più aggressivi.

Funzioni del rito


  1. fissa dei punti focali alla Shelling (convenzioni neutre ma utili); producono conoscenza comune, un bene indispensabile al coordinamento sociale;
  2. raccoglie la sapienza di una moltitudine di menti, essenziale in un mondo complesso (tradizione hayekiana)
  3. esercita alla ripetizione rafforzando il classico vantaggio evolutivo dell' uomo sugli altri animali (trasmissione culturale) vedi il lavoro di Joseph Heinrich
  4. crea un mondo apparente e spesso l' apparenza basta alla nostra felicità, o comunque costituisce una buona premessa.
  5. è un modo per produrre sincerità nell' adesione al gruppo. Una specie di macchina della verità in assenza di meglio.
  6. rafforza l' adesione al gruppo.
  7. promuove la vicinanza stornando l' imbarazzo: pensa ai funerali o alle preghiere dette insieme dopo un litigio.
  8. crea una passività attiva laddove l' inazione è la soluzione migliore.
  9. fissa i canoni della bellezza e consente ad ogni membro di esperirla di persona.
  10. Coetzee in "vergogna": "Non c’è niente di male nei rituali, sono stati inventati per facilitare i passaggi imbarazzanti"--
  11. Il rito coordina e crea conoscenza profonda nell'affermazione dei valori. Inoltre, l'energia emozionale si amplifica quando facciamo tutti e tutti assieme la stessa cosa. robin hanson the age of em

mercoledì 13 agosto 2014

Haidt and the Moral Foundations of the Welfare State, by Bryan Caplan http://econlog.econlib.org/archives/2014/08/haidt_and_the_m.html

giovedì 7 agosto 2014

Il lettore nel nuovo millennio

Mi riallaccio a un commento molto pregnante postato da F. Pecoraro sulla discussione che è avvenuta sul tuo profilo FB. Anch’io - che comunque sono sempre stata lettrice forte di narrativa e saggistica, e quindi se ho capito bene non faccio testo - leggo forse anche più di prima, ma ho sempre il tablet accesso, sono sempre sui social, zompo dall’ebook alla rete con una velocità che fa impressione anche a me, ho almeno tre libri di carta iniziati e li leggo a spizzichi fra una chiaccherata su FB e tre post sui vari, moltissimi blog che seguo, un paio di condivisioni, un video su youtube. È un tipo di lettura diversa, e non me la sento di affermare che sia meno concentrata o di valore inferiore rispetto a quella “novecentesca” a cui mi dedicavo fino a dieci anni fa. I tomi di sette, ottocento pagine non riesco più a leggerli, non importa quanto li trovi interessanti, intriganti, importanti, addirittura imprescindibili. Quelli che non ho letto nell’era precedente a questa so che ormai non li leggeró più - a meno che non mi servano per lavoro - e mi sono già messa il cuore in pace. Quello che mi stupisce è che ci siano ancora scrittori che ne partoriscono di volumi così e in tutta franchezza temo che siano delle ciofeche oppure dei cliff hanger, libri strutturati apposta per tenerti col fiato sospeso e farti arrivare alla fine. Ecco, di libri così non ho mai sentito il bisogno: ho letto con molta soddisfazione Finnegan’s Wake ormai due decenni orsono, che è tutt’altro che un cliff hanger - si vede che all’epoca ce la facevo. Ora mi sarebbe impossibile, e non perché sono invecchiata o cecata io, ma perché questa nuova pratica di lettura, interconnessa, frammentaria, transmediale, personalmente mi piace, mi diverte, mi soddisfa molto di più.


Mi ritrovo nel post di claudia (22.7 10.36). Il mio percorso di lettore è ben descritto nel suo resoconto, del quale sottoscrivo ogni parola. Con un’ aggiunta, ovvero un mutamento nelle preferenze personali. Noto infatti una decisa transizione dalla letteratura alla saggistica. Chissà che anche questa variante non sia imputabile a quella strumentazione tecnologica che tanto ha contribuito a frammentare la lettura. In fondo è la stessa strumentazione che agevola il contatto e la discussione con terzi, magari terzi sconosciuti: ed è molto più facile dilungarsi a discutere la tesi contenuta in un saggio che non l’ evocazione esalata da un verso.

Speriamo solo che questo mutamento nella mia “domanda” di lettore non sia condiviso dalla maggioranza, così da riorientare l’ offerta. Non sia mai. Molti scrittori, già oggi, non vedono l’ ora di riconvertirsi degradando le loro qualità per farsi “decifratori del reale”. Scrivono romanzi sognando di scrivere saggi. Li vedo ansiosi di rimpiazzare le affidabili quanto noiose metodologie quantitative con qualcosa che sia alla loro portata, qualcosa di “romanzesco”. Magari qualche bolsa allegoria con cui appesantire i loro testi. Temo il rischio si affievolisca quell’ intimità di relazione con le cose descritte che, se da un lato rappresenta un’ epistemologia decisamente scadente, dall’ altro è essenziale per avere un prodotto artistico. Già oggi, troppo spesso, l’ artista intervistato intona il suo “resistere, resistere, resistere!” fuori luogo. Questo uomo di mondo, una volta sul proscenio, resiste a tutto, anche a parlare del suo libro. A tutto, tranne che ad esecrare un qualche disegno di legge in itinere.

Amazon vs Hachette

Certo che se Amazon fa propaganda la fa bene, l’ altro giorno ho comprato un e-book del 1998 a 15 euro e ancora fremo di rabbia, guardacaso proprio per i motivi elencati nel link! Ecco, uno è già un po’ incazzato per certi prezzi, e poi si sente anche dire che a pretenderli così alti sono gli editori, i quali attaccano Amazon perché non vorrebbe mai superare una certa soglia…. beh, come minimo non sono nelle condizioni psicologiche adatte per “lottare contro il monopolio”, ho piuttosto la netta sensazione che un salsicciotto caldo (non vagamente promesso ma già servito in tavola) mi sia stato sfilato dal piatto.
“Ma se poi il libro l’ hai comprato allora gli editori in fondo avevano ragione…”. Nel mio caso sì ma in generale sembrerebbe di no. Questa ricerca ( http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=450220) per esempio conclude che “… a 1 percent drop in price — a mere 25 cents on a $25 book — increased the number of units sold by 7 percent to 10 percent…”.
Che poi Amazon - con self-publishing, bundling e quant’ altro si inventerà - faccia bene anche agli autori non è affatto certo: la torta sarà più grande ma non è detta che lo sia anche la loro fetta. L’ importante è che faccia bene al consumatore, di cui il lavoratore (creativo e non creativo) è al servizio. Ma forse questa è ideologia.
Certo che capisco gli editori, si preoccupano per la distribuzione al dettaglio che si assottiglia e ora devono anche preoccuparsi della fuga degli autori. E nemmeno la “fuga” di argomenti che possano far presa su persone neutrali non gioca certo a loro favore.
Gridano: “monopolio”. Ma il concetto di “monopolio” produttivo è piuttosto vago se preso in sé, non sappiamo bene nemmeno quali prodotti siano in concorrenza tra loro: ieri sono andato al negozietto per comprare il Corriere ma poi ho visto la Nutella in occasione e ho investito tutto nel barattolone famiglia. Non mi sarei mai aspettato che Corriere della Sera e Nutella fossero in concorrenza ma ieri ne ho avuto la riprova. E allora non basta lanciare allarmi su concetti vaghi (monopolio, bibliodiversità…), per smuovere l’ antitrust bisogna indicare i danni reali ricevuti dal consumatore.

venerdì 1 agosto 2014

Metafisica

La metafisica studia l' essere in quanto tale e non nelle sue specificazioni, come fa invece la scienza. Atto, potenza, forma, materia, essenza, esistenza, sostanza, accidente... sono tutti aspetti dell' essere. L' essere è il concetto più ampio della metafisica, di conseguenza non puo' appartenere a qualcosa di più generale.

L' essere è una realtà trascendentale, che viene prima di tutte e che comprende tutte le altre. Le realtà trascendentali non possono essere ripartite poiché non vi è nulla di più generale di cui possono essere parte. Lo studio dell' essere è l' ontologia.

Parmenide nega il divenire: poiché nel cambiamento una cosa ne causa un' altra, in generale dovremmo poter dire che il non-essere causa l' essere. Ma questo è impossibile.

Aristotele rende conto del cambiamento distinguendo tra atto e potenza (l' essere in atto deriva dall' essere in potenza e non dal non-essere).

La causa del passaggio dalla potenza all' atto è sempre un ente attuale.

La catena di cause contingenti possono regredire all' infinito nel tempo ma la catena di cause necessarie hanno una causa prima, altrimenti non potremmo definire come necessari i suoi effetti. La catena necessaria è simultanea (fuori dal tempo) e la "necessità" di cui parliamo riguarda la logica più che la fisica.

La causa efficiente e proporzionata già contiene i suoi effetti (in potenza). Causa ed effetti esistono quindi contemporaneamente, l' asincronia riguarda solo le modalità (atto/potenza) degli enti coinvolti. Cio' spesso non è compreso da chi interpreta la causa aristotelica nel senso moderno.

La causa prima già contiene i suoi effetti (in potenza) ed è sempre attuale. Se una causa prima non esistesse non esisterebbero neanche gli effetti che invece possiamo constatare, questo perché causa ed effetto sono contemporanei e la diacronia riguarda solo le modalità potenza/atto.

Forma e materia caratterizzano l' ente anche se, contrariamente ad atto e potenza, non li caratterizzano tutti. Gli angeli, per esempio, hanno una forma ma sono immateriali.

Altra distinzione importante è quella tra oggetto e fenomeno. L' oggetto ha una sua fisicità e le sue proprietà possono essere ben rese attraverso descrizioni fisiche. Il fenomeno è inestricabilmente legato alla coscienza umana e non puo' essere compreso in assenza di coscienza. Per esempio, il suono è da molti ritenuto un fenomeno poiché il sordo non puo' comprenderlo appieno, per quanto comprenda perfettamente il resoconto oggettivo che lo descrive.

Un cambiamento puo' essere sostanziale o accidentale. Nel secondo l' ente non perde la sua natura. La parte accidentale dell' ente dipende dalle circostanze mentre la parte sostanziale è indipendente.

Capire significa dar conto delle 4 cause: materiale (da dove deriva la materia dell' ente), formale (da dove deriva la forma dell' ente), efficiente (da dove deriva l' ente) e ultima (dove è destinato l' ente). la causa efficiente (necessaria) sembra vicina al senso comune ma spesso viene equivocata poiché non puo' essere compresa disgiuntamente dalla causa finale, che invece è ripudiata dalla modernità. La causa efficiente incarna la legge predisposta per realizzare la causa finale.

L' essenza è cio' che rende un ente tale. Si distingue dall' esistenza perché noi possiamo capire l' essenza di un ente anche senza sapere se esiste. L' unico ente in cui esistenza ed essenza coincidono è Dio.

Cosa distingue sostanza ed essenza? Se si prescinde dall' aspetto materiale sono sinonimi. Noi non possiamo conoscere la sostanza di un ente a prescindere dalla sua esistenza mentre possiamo conoscere la sua essenza.

Realista è colui che crede nell' esistenza delle essenze, per esempio Platone. Tommaso credeva che le essenze esistessero realmente, ma mai disgiunte dall' ente. Tuttavia riteneva che le essenze fossero concepibili anche in modo disgiunto dall' ente (avevano cioè un' esistenza mentale come concetti). Era dunque un realista moderato o "realista immanentista".

Il significato di un termine è la realtà esterna a cui si riferisce, indipendentemente da cio' che conosciamo o consideriamo della realtà designata da quel termine. Il senso di una parola è invece la realtà designata per come la conosciamo o per quel che la consideriamo nel discorso che stiamo facendo. Esempio: Edipo vuole sposare Giocasta. Giocasta significa una persona che è la madre di Edipo ma la parola, nel discorso di Edipo, non ha certo qual senso. Senso e riferimento di un termine non sono la stessa cosa.

Analitico è un giudizio vero in virtù del suo senso. Sintetico è invece un giudizio da verificare a prescindere da cio' che significa. Molti dubitano che una distinzione del genere abbia senso ma siccome tutti sappiamo dividere i giudizi secondo questo criterio non si vede perché mai dovremmo rinunciarvi.

Una conoscenza a priori è giustificata a prescindere dall' esperienza, una conoscenza a posteriori non puo' prescindere dall' esperienza. Cio' non toglie che la prima possa dipendere da una esperienza, magari pregressa. Si dice solo che non è giustificata da alcuna esperienza ma è valida per l' appunto a priori.

Due pezzi di carta bianchi hanno in comune la bianchezza mentre hanno di specifico il fatto di essere due pezzi di carta. Cio' che hanno in comune è detto Universale. Cio' che hanno di specifico è detto di particolare.

Gli Universali esistono? Se credi di no allora sei un nominalista se credi di sì sei un realista. Francamente non si capisce bene perché mai non dovrebbero esistere visto che di loro chiunque di noi ne parla come se esistessero.

Gli universali esistono a prescindere dai particolari? Se credi di sì allora credi in una conoscenza trascendente (o platonica) se credi di no allora credi in una conoscenza immanentista. Forse l' immanentismo è la posizione più legata al senso comune, d'altronde noi facciamo esperienza degli universali sono venendo a contatto con i particolari.

La posizione immanentista sugli universali non rinnega necessariamente la trascendenza: si puo' essere realisti immanentisti e dualisti sostanzialisti. Si puo' credere cioè nell' anima: una realtà trascendentale concepibile anche separatamente dai corpi. (Per una difesa del dualismo sostanzialista vedi The evolution of the soul]

Fondamento. Una credenza è fondata quando è dedotta da credenze fondate. Ma esistono anche credenze fondate sull' auto-evidenza: quelle logiche fondamentali, quelle matematiche fondamentali... e secondo gli epistemologi riformate anche altre: quelle circa la realtà esterna, la mente, le cause... e anche la credenza in Dio. Anche realtà trascendentali possono quindi essere auto-evidenti.