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mercoledì 31 ottobre 2018

RELATIVISMI AGGRESSIVI

RELATIVISMI AGGRESSIVI
Giovanni e Giuseppe reagiscono in modo differente alle aggressioni.
Giovanni: parlerò con il mio aggressore e ci chiariremo.
Giuseppe: chiarirsi è impossibile, non resta che difendersi ed eliminare ogni minaccia.
Giovanni è un “assolutista”: esiste una realtà oggettiva che consente a me e al mio aggressore di comunicare.
Giuseppe è un relativista: ognuno sceglie le sue credenze che restano poi irriconciliabili tra loro. Impossibile dire chi sia più vicino al vero.

Non vi sembra strana questa storiella? Di solito il relativista viene considerato più tollerante. Capita che sia lui stesso a dichiararlo: “ho scelto il relativismo perché più idoneo all’incontro”. Nei fatti a me è sempre sembrato il contrario: chi più del relativista è perennemente arrabbiato, indignato, livoroso, sprezzante…? Ora capisco meglio il perché anche in teoria: il relativismo mina la comunicazione.  

martedì 23 ottobre 2018

LA FINZIONE RELATIVISTA

LA FINZIONE RELATIVISTA
La maggior parte della gente non è sincera nel suo relativismo. A livello di pancia continuano a pensare di avere ragione. Guardateli mentre educano i loro bambini o quando criticano un collega.

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Growth is good. Through history, economic growth, in particular, has alleviated human misery, improved human happiness and opportunity, and lengthened human lives. Wealthier societies are more stable, offer better living standards, produce better medicines, and ensure greater autonomy, greater fu...

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martedì 4 settembre 2018

Il pragmatismo non funziona SAGGIO



Il pragmatismo non funziona


Il pragmatismo è una filosofia di pace, e poiché i “valori” ci fanno litigare i pragmatisti hanno pensato bene di toglierli di mezzo: finché non servono a qualcosa di concreto la parola “valore” è da ritenersi vuota, almeno per la discussione pubblica.
E’ come se la modernità occidentale, ad un certo punto della sua storia, si fosse voltata indietro e avesse preso coscienza dei cadaveri lasciati sul campo: religioni, ideali e valori, fino ad allora così preziosi, avevano realizzato una carneficina e andavano in qualche modo screditati al fine di entrare  nel regno della pace. Fu dato immediatamente mandato ai migliori filosofi sulla piazza di farla finita con la vecchia metafisica e di sostituirla con qualcosa di più “leggero” e facilmente rinnegabile.
Il pragmatismo va al sodo, si appella al senso comune, esalta la praticità della scienza, persino lo stereotipo è riabilitato, diffida però dei sofismi filosofici (che fanno litigare) ma poiché non puo’ farne a meno, almeno finché desidera presentarsi come “pensiero” compiuto, impronta il suo discorso filosofico ad un attacco a testa bassa contro ogni metafisica.
Attenzione, non che prima la sicumera e la temerarietà fossero virtù, non che prima il dubbio fosse calpestato e deriso, tuttavia, “prima”, non si sentiva il bisogno di trincerarsi in un relativismo dei valori come ci chiede di fare il pragmatista. Oggi veniamo continuamente invitati a concentrarci su cio’ che funziona lasciando perdere ubbie relative ai principi. Il pragmatista trasforma l’ideale in ideologia e il principio in dogmatismo, così facendo li mette alla berlina.
Il pragmatismo pone al centro i fatti e le conseguenze di certi fatti. I fatti sono adorati perchè oggettivi, i fatti non possono essere rinnegati, sui fatti non si costruiscono sofismi, i successi della scienza ce lo hanno insegnato. Chi proprio non vuol rinunciare alla moralità la coltivi pure nel privato, lì il suo arbitrio non potrà fare danni, ma nella sfera pubblica si dia la precedenza all’oggettiva imparzialità dei fatti, la loro chiarezza porterà pace anche tra le teste più calde.
Ebbene, possiamo dire che il pragmatismo sia stata una soluzione pragmatica? No, oggi possiamo dirlo, in questa filosofia c’è del genio, ma non funziona: noi litighiamo più sui fatti che sui valori, una scoperta imbarazzante ma solida. Per farmi capire porto un paio di esempi citati da chi ha studiato la materia: la scelta tra libertà ed eguaglianza (scelta valoriale) ci divide meno che il dibattito sui dati del riscaldamento globale (analisi dei fatti). La discussione sul Crocifisso in classe (scelta valoriale) ci polarizza meno che la discussione sugli omicidi fomentati o evitati dalla libera circolazione delle armi (analisi dei fatti). L’ “evidenza empirica” a quanto pare è oggi molto meno evidente degli ineffabili valori. Perché?
Qui le ipotesi sono tante ma voglio menzionare quella dello psicologo Dan Kahan, il quale arriva a dire che siamo “troppo razionali”: quando un dato nudo e crudo non ci soddisfa approfondiamo finché non riusciamo ad incastrarlo al meglio nella nostra “narrazione” preferita. Oggi, d’altronde, possediamo i mezzi cognitivi per farlo mentre ieri eravamo molto più ingenui e “passivi” di fronte all’apparire di un semplice fatto (forse eravamo troppo impegnati a scannarci sui valori).
E qui viene il bello: siccome far rientrare i fatti nel nostro schemino ci costa pur sempre uno sforzo (cognitivo), poi risultiamo ancora più aggressivi nel difendere il nostro duro lavoro, con tanti saluti alle buone intenzioni del pragmatista. E’ come se ci affezionassimo alla nostra interpretazione difendendola a spada tratta. Morale: se il “fatto oggettivo” offre più resistenza di un valore resta pur sempre malleabile. Non solo, lo sforzo per ottenere il “prodotto finito” che più ci aggrada si commuta poi in potenziale di violenza contro chi osa rinnegarlo.
Fatevi un giretto sui social, si litiga e si odia che è un piacere, siamo nel regno del conflitto eterno, e si litiga sui fatti tanto amati dal pragmatista, non sui pericolosi “valori arbitrari”, ci si odia per interpretazioni differenti della realtà, è così facile d’altronde divergere: basta ipotizzare un complottino al momento giusto raccogliendo qualche indizio qua e là ed ecco che gli amati “fatti” avvalorano la mia narrazione anziché la tua.
Sì, certo, però non scoppia la terza guerra mondiale, è questa l’obiezione che sento più spesso. Già, non scoppia la terza guerra mondiale, ma lo dobbiamo al pragmatismo? Forse lo dobbiamo alle nostre istituzioni, alla democrazia (che fa votare la discesa in guerra a chi deve poi andarci) o al mercato (che ci ha arricchito con annessa strizza di perdere tutto), non al pragmatismo che invece ci ha reso, se possibile, ancor più litigiosi e nevrastenici di prima. 
No, il pragmatismo non funziona, torniamo pure ai nostri valori assoluti, ai nostri ideali, ai nostri principi: saremo più felici, più realizzati e, a quanto pare, non litigheremo affatto di più.

lunedì 2 luglio 2018

LA BATTAGLIA INFINITA CONTRO IL SESSISMO

LA BATTAGLIA INFINITA CONTRO IL SESSISMO
Il relativismo è percepito ovunque: un atleta prestante diventa un nanerottolo se lo metti in una squadra di basket. E’ percepito anche dove non te lo aspetteresti, per esempio nella percezione dei colori. Uno dice “il blu è blu” ma le cose sono un po’ più complesse. Se mi chiedono di contare quanti pallini blu vedo su uno schermo dove compaiono pallini di tutti i colori, io rispondo senza esitazioni. Magari altri a cui viene posta la medesima domanda daranno una risposta diversa, d’altronde ci sono pallini con sfumature di rosso e di blu che io conto tra i rossi ma qualcun altro potrebbe contare tra i blu. Poco male. Senonché, in certe condizioni, anch’io vario inconsciamente i miei criteri e comincio a considerare blu le palline che prima consideravo rosse. Quando? In genere quando le palline chiaramente blu proiettate sullo schermo diminuiscono. Sì, quando il blu scarseggia io comincio a vederlo anche dove prima non lo vedevo. La nostra mente funziona così: la penuria produce miraggi.
Questo fenomeno spiega perché la battaglia contro il sessismo non è mai finita: chi la intraprende non percepisce i progressi fatti e comincia a vedere sessismo ovunque, anche laddove prima non c’era. Per esempio, ieri il giudizio “le donne hanno inclinazioni differenti rispetto agli uomini” non era un giudizio sessista, oggi sì. In sostanza, quando il sessismo reale diminuisce quello percepito potrebbe anche aumentare.
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Do we think that a problem persists even when it has become less frequent? Levari et al. show experimentally that when the “signal” a person is searching for becomes rare, the person naturally responds by broadening his or her definition of the signal—and therefore continues to find it even wh...
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martedì 29 maggio 2018

BIAS DEL RELATIVISMO

BIAS DEL RELATIVISMO
La nostra valutazione dei fatti è spesso distorta poiché relativa a un punto di riferimento neutro: immergi la mano sinistra nell’acqua fredda e la mano destra nell’acqua calda per circa un minuto, poi infila entrambe le mani nella ciotola di mezzo, sentirai due temperature diverse quando la temperatura è uguale. Quel che vale per i sensi vale per la psiche. Per i risultati finanziari, il punto di riferimento di solito è lo statu quo, o magari il risultato cui ritieni di avere diritto, oppure quello che hai a lungo sperato.
Siamo stati abituati a ritenere che all'uomo, in quanto essere dotato di razionalità, sia sufficiente tenere a freno l'istinto e l'emotività per essere in grado di valutare in modo obiettivo le situazioni che deve affrontare e di scegliere, tra varie alternative, quella…
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mercoledì 19 luglio 2017

Inno al soggettivismo

Inno al soggettivismo

1. AMV s’incazza
Aldo Maria Valli è il mio vaticanista di riferimento. In realtà è il mio riferimento in molte cose che riguardano il cattolicesimo contemporaneo e le sue spaccature. Perché? Perché ha cambiato idea… Ha cambiato idea senza averne una convenienza, anzi. Il che lo rende ai miei occhi in qualche modo più attendibile.
Ha cambiato idea su papa Francesco: prima accoglieva e difendeva il suo messaggio, ora è più scettico. Non che la virata sia decisiva ma perlomeno offre una garanzia: conosce bene sia gli argomenti “pro” che quelli “contro”. Entrambi sono o sono stati nel suo arsenale argomentativo.
Gli stimoli che offre il suo blog sono molti e qui mi limito a coglierne uno. In un suo recente intervento l’insigne giornalista mostrava un certo disappunto nel leggere su un foglietto della Messa cio’ che considerava “un inno al soggettivismo”. Si trattava di un breve commento all’esortazione apostolica “Amoris laetitia”. Titolo: “prima la coscienza, poi le regole”.
Il papa – secondo il “foglietto” – insiste sul “discernimento” di fronte al peccatore che chiede il perdono, non tutti i peccatori sono uguali, nemmeno se hanno commesso lo stesso peccato. Se così stanno le cose, le regole servono a ben poco…
… per il discernimento infatti, più che le regole, serve l’impegno personale. Perché il discernimento, che si adatta alla situazione concreta della persona, è più esigente delle regole. Ogni persona ha una “sua” situazione. Pensare di stabilire tante “regole” quante sono le situazioni vissute dalle persone nella loro vita di relazione vuol dire infilarsi in un ginepraio inestricabile, tanto rischioso quanto ingiusto…
Il concetto espresso sul foglietto della Messa è chiaro: poiché ogni persona vive una sua situazione, pensare di stabilire tante regole quante sono le singole situazioni vorrebbe dire “infilarsi in un ginepraio inestricabile, tanto rischioso quanto ingiusto”. Ciò che il testo sembra sostenere è che la singola situazione non può essere normata, ma solo osservata attraverso la lente del discernimento.
Commenta Valli:
… siamo dunque in quella che si chiama morale della situazione, caratterizzata dal fatto che il giudizio sulle scelte non avviene in base a una verità universale, espressa da una legge, ma in base al modo in cui la singola situazione è vissuta dal soggetto che ne è protagonista…
Andando avanti ecco come conclude il foglietto…
… «Il discernimento personale è più rispettoso, ma anche più impegnativo. La “regola” è più comoda, il discernimento più severo. Dio non pretende da noi un bene in generale, ma quel bene che rappresenta ciò che è meglio per noi in quella determinata situazione, alla luce della nostra vita di relazione. Quindi il “massimo bene possibile”, che si può realizzare solo con il discernimento…
Commenta ancora Valli stupito…
… Quanto all’idea secondo cui la regola sarebbe più comoda, mentre il discernimento sarebbe più severo, ancora una volta viene da chiedersi: che vuol dire? In che senso la regola sarebbe più comoda? Dobbiamo concludere che il buon Dio, con i dieci comandamenti, avrebbe scelto la via della comodità?… Sarebbe stato meglio se si fosse scomodato e avesse aggiunto ai comandamenti svariate postille per ogni singolo caso? E che significa che Dio non pretende un bene in generale ma ciò che è meglio per noi in una certa situazione? Vuol dire che il bene oggettivo non esiste, ma esiste solo il bene soggettivo? Ma se non esiste il bene oggettivo, come facciamo a sapere che cosa è bene e che cosa è male in una data situazione? Su che cosa fondiamo la valutazione? Di nuovo, la conclusione a cui arriviamo è che vale solo l’esperienza soggettiva, la quale è buona in sé, al di là di ogni norma e ogni legge universale oggettiva…
Valli è disorientato, e il problema che solleva – come al solito –di rilievo.
Da parte mia vorrei contribuire nel districare la matassa segnalando il pericolo di due “confusioni” in cui è facile incappare.
2. Confusione tra soggettivismo e relativismo
Soggettivismo e relativismo non sono la stessa cosa, anche se spesso vengono indebitamente accomunati.
Pensiamo solo al padre del soggettivismo: Cartesio. Vi sembra un relativista?
La posizione “soggettivista” sostiene che noi percepiamo la realtà filtrandola attraverso qualcosa che appartiene intimamente al soggetto. L’uomo giudica sulla base di un’immagine mentale che si fa delle cose.
C’è sempre questo filtro che ci separa dal mondo.
Esempio: Gino e Pino guardano una mela, per Gino è rossa mentre per Pino è verde. Qual è il reale colore della mela?

Magari uno dei due è daltonico e l’altro no. Ma questo come incide sulla valutazione della realtà? Bisogna avere una teoria dei colori per abbozzare una risposta.
La scienza ce ne fornisce una oggettiva riducendo il colore ad un sistema di frequenza all’interno di uno spettro luminoso.
Ma si tratta di una teoria palesemente incompleta poiché noi sappiamo che cio’ che chiamiamo “rosso” è qualcosa di diverso da una frequenza d’onda, tanto è vero che un cieco alla nascita, benché sappia descrivere con dovizia di particolari le frequenze del colore rosso, non ha la minima idea di cosa sia, questo perché non è in grado di farsene una propria immagine mentale.
Potremmo dire che il colore rosso non esisterebbe se non ci fosse nessuno a farne esperienza. Esisterebbero solo delle frequenze d’onda emesse dai corpi.
Una teoria meramente oggettiva dei colori va completata introducendo i soggetti.
Fin qui il soggettivista, difficile negare le sue ragioni. Si noti che lo scettico e il relativista vanno ben oltre: sostengono sostanzialmente che il filtro soggettivo di cui disponiamo ci precluda una conoscenza della realtà, cosa che un soggettivista come Cartesio si guardava bene dal dire.
Soggettivismo e realismo sono compatibili, basta postulare l’affidabilità del filtro della conoscenza. Per esempio, con il principio di credulità: le cose sono come ce le rappresentiamo (fino a prova contraria).
A questo punto bisogna spiegare la cattiva fama del soggettivismo in certi circoli che preferiscono tenersi stretto il realismo diretto, ovvero oggettivo e senza filtri.
I motivi sono due, innanzitutto è ben vero che  da un punto di vista storico – non logico – i relativisti moderni sono dei fuoriusciti dalle schiere del soggettivismo. Tra Cartesio e Derrida c’è un filo rosso.
E qui sottolineo con un esempio la natura storica di questa filiazione. Il soggettivismo ha scalzato l’oggettivismo poiché spiega al meglio fenomeni quali le illusioni, la prospettiva, le allucinazioni. Ma, allora mi chiedo: il realista diretto come spiega, per esempio, il fatto che un bastone semi-immerso nell’acqua sembri spezzato per effetto della rifrazione? Come mai lo crediamo tale pur avendo – per l’oggettivista – un accesso diretto e senza filtri  all’oggetto reale (che non è affatto spezzato)? Di solito ricorre al concetto di “apparenza”: in casi del genere, dice lui, noi abbiamo accesso diretto all’apparenza e non alla realtà.
Ma a questo punto lo scettico puo’ giocare sul concetto di “apparenza” esattamente come gioca con il concetto di “rappresentazione”: tutto è apparenza, puo’ dire.
Per tutto questo rimarcavo che il relativismo è un portato storico del soggettivismo ma non un portato logico. Dal punto di vista logico l’oggettivismo non è meno vulnerabile agli attacchi dello scettico. Tanto è vero che esiste anche uno scetticismo antico (Pirrone) quando nell’antichità il soggettivismo cartesiano era di là da venire.
In secondo luogo, è ben vero che una posizione soggettivista induce ad una posizione dualista che riconosce due realtà a se stanti: mente e corpo. Dove risiederebbero infatti le rappresentazioni attraverso cui conosciamo la realtà? In uno spazio parallelo a quello fisico, lo spazio mentale.
Questo “inconveniente” di dover introdurre uno spazio parallelo ha scatenato discussioni infinite ma in questa sede ci basti notare che non è affatto un inconveniente per quel che interessa a noi: il credente non ha alcun problema a riconoscere una realtà ulteriore rispetto a quella fisica. Lui magari la chiama “spirituale” anziché “mentale” ma poco cambia. In questo senso fede cristiana e soggettivismo sono solidi alleati.
Ma torniamo ora al nostro peccatore di fronte al quale è bene “discernere”. Così come Pino e Gino giudicano il colore della mela sulla base delle “lenti mentali” che indossano, anche il peccatore agisce sulla base del filtro che possiede (per esempio il filtro della sua esperienza).
La cosa è trascurabile nel momento in cui siamo noi a giudicare il peccatore?
No, non puo’ esserlo, non puo’ esserlo anche se assumiamo che i filtri di cui disponiamo siano affidabili. Abbiamo appena visto che prendere in considerazione l’elemento soggettivo non significa scadere nel relativismo.
Quando Dio si troverà di fronte e dovrà giudicare un contadino dell’antica Roma, un contadino indiano del X secolo e un contadino feudale non si limiterà certo a verificare la frequentazione della Messa, dovrà “discernere” poiché la condizione soggettiva dei tre soggetti sarà molto differente.
Possedere una teoria oggettiva del peccato è un po’ come per lo scienziato possedere la teoria dei colori, ci dice molto ma non tutto, non l’essenziale. Il peccato si forma nella nostra interiorità in modo imperscrutabile, qualcosa sui cui solo Dio puo’ e deve avere l’ultima parola.
Ora, è vero, Tommaso non è certo un soggettivista e la filosofia della chiesa cattolica s’ispira a lui per molte cose. Ma la sua ascendenza non è esclusiva, il fatto è che introdurre elementi di soggettivismo non dovrebbe essere visto come una rivoluzione copernicana per almeno tre motivi: 1) già esistono 2) noi tutti siamo soggettivisti e 3) tra soggettivismo e relativismo c’è tutta la distanza appena delineata.
3. Confusione tra colpa e pena
Il secondo aspetto riguarda la possibile confusione tra colpa e sanzione.
Cerchiamo di inquadrarla fuori dall’ambito religioso.
La legge civile stabilisce delle regole che se violate comportano una sanzione, dopodiché vengono fissate delle attenuanti.
La legge è oggettiva: una certa azione è malvagia in sé e merita di essere sanzionata. Le attenuanti sono in qualche modo soggettive: se quella azioni malvagie sono condotte con un certo animo, allora la cosa è ancora più grave.
Torniamo al regno della morale: un certo peccato puo’ essere descritto oggettivamente ma la forza esercitata dallatentazione sull’animo dei potenziali peccatori è differente. Da uno a cento, puo’ essere di 80 per Giovanni e di 20 per Giacomo. Supponiamo che entrambi pecchino, le colpe di Giacomo sarebbero maggiori, ha ceduto di fronte a una tentazione lieve. Chi puo’ negarlo? A lui si chiedeva molto meno per non peccare.
In una situazione del genere c’è sia l’ambito oggettivo (il peccato) che quello soggettivo (la condizione del peccatore). L’oggettività influisce sull’attribuzione della colpa, la soggettività sull’attribuzione della pena.
Nei discorsi comuni, spesso, le due cose si mescolano indebitamente.
Dire che la morale è oggettiva significa dire che esistono comportamenti sbagliati a prescindere dalle eventuali attenuanti. Tuttavia, questo non significa che le attenuanti non esistano e che considerarle significhi negare la realtà del peccato.
D’altronde, pensiamo a questo semplice fatto: perché esiste il Giudizio Universale se già qui ed ora la Chiesa puo’ giudicare in modo infallibile con tanto di sanzioni appropriate? Dobbiamo credere che il giudizio divino sia una pedissequa replica senza correzioni del giudizio già dato della chiesa? Una specie di formalità?
Più sensato ritenere che la parte soggettiva del giudizio, quella relativa alle sanzioni, è più suscettibile di errore poiché noi difficilmente abbiamo accesso all’animo umano nei suoi recessi più intimi.
Proclamare l’oggettività morale significa proclamare l’ esistenza e la conoscibilità di alcune regole morali. Il che non significa conoscere con esattezza oggettiva tutte le sanzioni appropriate. Una certa azione è sbagliata, e quand’anche potessimo dirlo a ragion veduta da cio’ non ne  discende in automatico la possibilità infallibile di quantificare  le colpe e quindi le sanzioni in vista del perdono, per questo occorrerebbe un’ oggettività delle sanzioni.
Quando diciamo che la Chiesa distingue peccato e peccatoreforse diciamo anche questo: noi riconosciamo un comportamento sbagliato ma non vediamo con chiarezza la sanzione oggettiva corrispondente. Per questa seconda missione è necessario “discernere”.
Naturalmente il “discernimento” sulla sanzione si presta ad arbitri che si possono arginare attraverso una regola (tanto è vero che le attenuanti sono in genere descritte nei codici in modo oggettivo). Ma questo è un pragmatismo per tenere in piedi il sistema e dare certezza al diritto, e non rimuove il fatto che per avere una sanzione ideale bisognerebbe entrare invece nell’animo del colpevole, di ogni singolo colpevole, cosa possibile solo in sede di giustizia divina.
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