venerdì 28 giugno 2013

La sindrome dell' imboscato

Purtroppo per una buona vita matrimoniale la “regola aurea” della convivenza (“fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”) serve a ben poco. Prendiamo le faccende domestiche di “casa Mariani”: se, in relazione al tempo disponibile, non partecipo alla pari sono considerato un “imboscato” ma questa accusa mi suona alquanto ingiusta! Date solo un’ occhiata alle case dei coniugi da single: quella di Sara uno specchio, la mia un campo di battaglia. E’ evidente anche a un bambino che non sono un “imboscato”, ho solo degli standard inferiori!

Racconto la mia esperienza perché credo che sia generalizzabile: controllate un po’ - distinguendo per sesso - l’ ordine che vige nelle camere dei collegi universitari. Allora? Vi siete convinti che i maschietti hanno standard più bassi?

I guai, però, cominciano quando, vivendo con una persona dagli standard più elevati, ti accorgi (piacevolmente?) che il disordine relativo in cui sei immerso non raggiunge mai lo standard che ti metterebbero in moto; e ci credo, l’ altro interviene sempre prima! A questo punto, oltre a non avere mai l’ occasione per dimostrare che non sei un imboscato, potresti avere la tentazione di imboscarti sul serio e vanificare le tue scuse tanto ingegnose.

E’ un po’ come per i figli: avrei deciso di prendermela comoda ed evitare quei grandi sforzi che ritengo inutili. Ma – maledizione! - non posso. Non posso perché quello che io evito accuratamente di fare poi se lo sobbarca Sara come extra mettendomi nelle condizioni dell’ imboscato di casa.

Insomma, le cose sono talmente incasinate che non riesco più nemmeno a capire se sono vittima o colpevole. Ho capito comunque quanto sia essenziale volersi bene quando si tratta di organizzare l’ inorganizzabile.
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  • Davide Curioni piace questo elemento.
  • Jack Lupowitz Sarebbe anche importante che chi ha standard alti imparasse ad abbassarli (magari mordendo una cinghia di cuoio, se è un maniaco della pulizia e/o dell'ordine), per dare all'altro, che ha standard più bassi, la possibilità e il tempo di alzare i propri. Così ci si verrebbe incontro, si farebbe squadra facendo ognuno un piccolo/medio sforzo. Invece di imporre standard insostenibili e/o punitivi a senso unico. Purtroppo, le donne quasi mai lo fanno, forse perché hanno capito quello che Marghe già sa: è più facile, bello e gratificante piangere - e tenere l'altro sulla corda. (Non parlo di e per Sara, parlo in generale.) La donna che si lamenta del maschio non collaborante è un classico "case study" da decostruire.
  • Riccardo Mariani Vedi che allora non sono il solo a pensarlo? E non siamo nemmeno solo in due: “Men don't need to do more housework and childcare to achieve equality. Women just need to do less…”http://www.economist.com/blogs/freeexchange/2008/01/the_age_of_hedonic_marriage
    www.economist.com
    THE INSTITUTION of holy matrimony is sacred if anything is. But nothing, nothing...Visualizza altro
  • Riccardo Mariani Le motivazioni della donna sovra-impegnata siano anche sensate: sacrificarsi per un valore elevato è la via per la felicità, e la famiglia è un valore elevato. Purtroppo sembra che il sacrificio debba accompagnarsi all’ autocommiserazione, quasi che in caso contrario non ci sia riconoscimento. Ecco allora un’ altra soluzione: l’ uomo deve riconoscere ed essere grato (anche se lo standard realizzato è ben al di sopra di quello che lui richiede).
  • Jack Lupowitz non ho studiato economia, ma questo giochetto tutto femminile mi è chiaro da quando ho occhi per vedere.
  • Jack Lupowitz l'autocommiserazione è un modo per fare sentire inadempiente e in difetto l'altro, indebitandolo. Mind control, lo chiamano nel gergo della psy war.
  • Jack Lupowitz Se fossi il marito di una autocommiserante, le direi: "Io sono disposto ad alzare i miei standard, se tu abbassi i tuoi degli stessi punti". Se no, nisba, sacrìficati pure per un valore elevato, ma da sola.
  • Jack Lupowitz Ma si può anche scegliere di lasciare tutto così, lei non abbassa gli standard e lui si imbosca sopportando qualche lamentela. Come dici tu, volersi bene fa la differenza. Non è mandatorio fare squadra sempre...
  • Riccardo Mariani Mi sa che il “volersi bene” non si traduca in un “lasciare così le cose” ma nel fare esattamente quello che suggerisci senza doverlo contrattare. Insomma, il lavoro sprecato (e i morsi nella cinta di cuoio) saranno eseguiti in nome dell’ altro anziché in nome dello standard ottimale.
  • Jack Lupowitz Meglio ancora. O meglio, era quello che intendevo.
  • Riccardo Mariani e i guai peggiorano quando "pulire casa" diventa una droga http://robertwiblin.com/2012/05/20/down-with-housework-6/
    robertwiblin.com
    A few months ago I wrote about how cleanliness was often an unhelpful addiction:...Visualizza altro

Poveri ma belli

Daron Acemoglu e James Robinson – Why nations fail: the origins of power, prosperity and poverty.
Il problema è sempre quello, ovvero: perché esistono paesi ricchi e paesi poveri?
Noi cattolici non possiamo girarci dall’ altra, Papa Francesco ci esorta continuamente ad occuparci di questi problemi, anche perché il suo progetto sembra quello di edificare una una “Chiesa povera per i poveri”.
Quando leggendo i testi sacri m’ imbatto in una delle molte maledizioni contro la ricchezza, ogni volta mi rifugio in interpretazioni cervellotiche: per me il termine “ricchezza” equivale a “prepotenza” mentre il termine “povero” indica la vittima del prepotente e dei suoi soprusi. Non riesco proprio a credere che chi si è arricchito onestamente sia predestinato agli inferi. Eppure Papa Francesco mette in crisi chi sceglie questo approccio edulcorato e anche un po’ ipocrita, per lui le cose sono molto più semplici e dirette: poveri sono coloro a cui mancano i mezzi materiali e ricchi sono coloro che ne hanno in sovrappiù. L’ onestà e la disonestà passano in secondo piano.
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I poveri saranno sempre tra noi, dice la Parola; ma se diminuiscono è una buona notizia per tutti, aggiungo io.
Come adoperarsi per raggiungere questo obiettivo?
Ecco allora che puo’ essere utile guardare dove povertà e ricchezza si presentano in contrasto stridente e ravvicinato: Germania est e Germania ovest, Corea del sud e Corea del Nord, Hong Kong e Cina… ma anche Nogales.
Nogales è una città di confine divisa in due da uno steccato, a nord c’ è la parte statunitense (Nogales, appunto), contea dell’ Arizona.
Lì il reddito medio è buono, i ragazzi vanno a scuola, la maggior parte degli adulti possiede un diploma, ricevere l’ assistenza sanitaria è relativamente facile, la speranza di vita è in linea con gli standard occidentali, si circola per le strade senza paura e si investe in sicurezza. Anche i propri risparmi sono relativamente al sicuro.
Girato l’ angolo c’ è Sonora, città messicana. La vita qui è molto più dura: reddito dimezzato, sicurezza di beni e persone sempre a repentaglio, alta mortalità infantile e politica corrotta.
Perché una differenza tanto profonda nell’ arco di qualche chilometro?
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Per dipanare la matassa dobbiamo risalire a qualche secolo fa e ai modelli di colonizzazione.
Il sudamerica fu colonizzato dalla Spagna, ovvero dalla superpotenza dell’ epoca.
La Spagna dominava su terre e mari, dominava ovunque, cosicché poté scegliere le prede più ambite allorché l’ Europa cominciò a soggiogare il mondo intero.
Ma vediamo cosa accadde, in fondo tutti siamo in grado di comprendere certe dinamiche elementari; cominciamo col dire allora che chi entra in una cassaforte ha solo la preoccupazione di come caricare i soldi e portarseli a casa. Ok?
Il modello di colonizzazione spagnolo dovette fronteggiare un problema simile: come sfruttare al meglio risorse e popolazioni indigene? E poi, come traslare in patria i frutti di questo sfruttamento?
La colonizzazione del nordamerica fu affare degli inglesi, che dapprima scopiazzarono il modello spagnolo sognando ad occhi aperti di trovare il loro Eldorado, ma i risultati furono a dir poco deludenti. Tanto è vero che presso le comunità dei coloni, per non andare completamente a picco, fu ben presto introdotta la regola: “chi non lavora non mangia”. Una regola impensabile presso gli spagnoli che avevano fatto tanta strada proprio per evitare l’ umiliazione del lavoro!
Ma per i coloni inglesi non c’ era alternativa, in fondo erano in fuga dai loro governi naturali e non potevano passare dalla padella dell’ emigrazione alla brace del rimpatrio. Gli spagnoli, al contrario, avevano i loro governi naturali come emissari.
Di fronte a esigenze diverse (“estrattiva” e “produttiva”) nacquero istituzioni diverse, poi lasciate in eredità ai popoli colonizzati, da qui le differenze che osserva sgomento chi rivolge la sua attenzione a quei territori.
Ma torniamo a Nogales, la cittadina di confine divisa in due: praticamente tutto unisce la parte alta della città con la parte bassa, tranne la tradizione coloniale a cui furono soggette. Il modello estrattivo (Spagna) caratterizza le istituzioni messicane e quindi anche Sonore, il modello produttivo (Inghilterra) è tipico degli USA, e quindi anche della Nogales propriamente detta.
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In un certo senso la “ricchezza facile” è una maledizione per i popoli.
All’ inizio, nulla di speciale: se ti capita la fortuna d’ incapparci devi solo “estrarre” e godere, se ti capita la sfortuna di non incontrarla mai ti tocca “produrre” e sudare.
Ma l’ estrazione finisce mentre la produzione è infinita, quindi, oltre una certa soglia, i paesi-cassaforte diventano i paesi poveri mentre i paesi-baracca diventano i paesi ricchi.
Ancora oggi la “maledizione” agisce sui paesi medio orientali, se ci fate caso: baciati dall’ apparente fortuna dei giacimenti di petrolio, mantengono istituzioni arretrate.
Ultima considerazione rivelatoria per gli scettici ad oltranza: qual è il continente più ricco di risorse naturali? Probabilmente l’ Africa.
Ok, dirà qualcuno, ma perché quando l’ “estrazione” termina non ci si mette a “produrre”? Ottima domanda, rispondo dopo.
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Parecchie teorie della ricchezza non funzionano quando sono chiamate a spiegare la favola di Nogales.
C’ è chi sostiene che la divisione tra paesi ricchi e paesi poveri dipende dalla geografia del territorio e dal clima.
Ma Nogales e Sonora condividono sia orografia che clima.
Dunque?
Da Montesquieu a Jeffrey Sachs, molti studiosi restano turbati da casi del genere e cominciano a partorire ipotesi ad hoc.
L’ eminente professore Jared Diamond sostiene che l’ origine di tutte le diseguaglianze va ricercata 500 anni fa nella differente dotazione di piante e animali vantata dai vari territori. A me queste non sembrano considerazioni molto importanti per chi studia il mondo moderno. Di sicuro non lo sono per chi studia il caso di Nogales.
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Un’ ipotesi molto gettonata è quella che mette in relazione prosperità e cultura.
Il padre nobile di questo approccio è Max Weber.
Ancora oggi, sebbene la cosa non sia politicamente corretta, Padre Gheddo sostiene che gli africani sono poveri perché sprovvisti di una robusta etica del lavoro. E allora giù scuole e chiese per resettare i cervelli.
Aiutare significa civilizzare.
Ma forse più che pigri, gli africani non hanno grandi incentivi a lavorare.
Anche mio cognato Fabio, da quando è pendolare Varese-Stoccolma, insiste con l’ “ipotesi culturale”: in Svezia nessuno oserebbe mai turbare la tranquillità di una coda ordinatissima.
Ok, ma nel 1992 la Svezia era uno stato fallito e non penso che nel frattempo, ora è un caso di successo, la sua cultura sia cambiata granché.
La cultura conta allora? Sì e no.
La cultura puo’ essere lubrificante o sabbia negli ingranaggi ma difficilmente sarà mai l’ ingranaggio.
Una cosa comunque è certa: gli abitanti di Nogales condividono la loro cultura con quelli di Sonora.
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C’ è poi l’ ipotesi dell’ ignoranza: le diseguaglianze esistono perché chi governa i paesi poveri non sa cosa fare per loro.
Se le cose stessero così la soluzione sarebbe una e una sola: insegnare.
Non date pesci ma insegnate a pescare. Lo dicevano ai miei tempi nelle assemblee di istituto durante gli scioperi “per la fame nel mondo”.
L’ ipotesi spiega una minima parte di realtà, e nemmeno quella la spiega bene: Mugabe non è certo convinto di arricchire lo Zimbawe con le sue politiche ma le implementa lo stesso entusiasta perché consolidano il dominio delle élite (a cui appartiene lui stesso) a spese degli altri. Lo stesso dicasi per i vari caudillos sudamericani.
Per l’ Italia del 2013 vale la stessa cosa, tutti saprebbero cosa ci vorrebbe per arricchire un paese stremato: più competizione e più incentivi a tutti i livelli ma nessuno osa aggredire le rendite consolidate. Tutti dicono “riforme” ma, per paura di spaventare, pochi osano chiamare le cose per nome e cognome: “riforme neoliberiste”.
Il fatto è che molti economisti si concentrano sulla “via giusta”, problema tutto sommato banale, mentre mentre sarebbe più urgente comprendere perché si imbocca sempre la “via sbagliata”.
Si scoprirà che i paesi sono poveri perché chi li governa vuole mantenerli poveri pur di difendere i privilegi di una parte.
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La “strada maestra” è abbastanza chiara a tutti: occorre un governo forte in grado di garantire sicurezza alla proprietà privata nonché il coordinamento necessario per la produzione di infrastrutture. Occorrono regole astratte da applicare a tutti in modo che in presenza di pari diritti ognuno si giochi le sue possibilità: in questo momento molti Bill Gates e qualche Einstein sta zappando la terra in un paese povero e mal governato.
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Ma perché i paesi non si arricchiscono visto che è tanto facile farlo? Anche al dittatore africano più rapace, del resto, converrebbe mettere all’ ingrasso la gallina dalle uova d’ oro.
Purtroppo l’ arricchimento di un paese procede attraverso “distruzioni creative” che sparigliano le carte in tavola. Chi oggi cavalca l’ onda in una posizione di potere bada bene a che le cose non cambino. Sia il dittatore africano che l’ alto boiardo occidentale amano le “foreste pietrificate”, con una differenza non da poco: il primo ha potere di vita e di morte su tutti i suoi connazionali mentre il secondo deve agire sapientemente nell’ ombra.
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Il resoconto di A\C è talmente semplice e lineare che diventa difficile obbiettare, eppure qualche dubbio fa capolino, come se mancasse qualcosa.
Primo: ma queste benedette “istituzioni” che sono il motore della crescita, piovono dal cielo?
Praticamente sì, dicono i due studiosi.
La storia produce eventi casuali che amplificano differenze in partenza molto piccole, talmente piccole da poter essere considerate casuali.
Esempio, la peste nera del 1300 dimezzò la popolazione europea facendo mancare le braccia su cui si reggeva l’ economia feudale. Poiché il lavoro divenne più prezioso si produsse sia un incentivo all’ emancipazione dei servi sia un incentivo a rafforzare la schiavizzazione. Il conflitto che seguì ebbe esiti diversi: a ovest fu vinto dai contadini che rovesciarono così il sistema feudale avviandosi verso la modernità, a est dai feudatari che lo rafforzarono. Si noti comunque come le condizioni di partenza dei territori rispetto ad un evento di simile portata fossero praticamente le stesse.
Altra contingenza: la monarchia inglese era più povera di quella spagnola e di quella francese, e quindi più soggetta a contrarre prestiti e a trattare elargendo concessioni che via via si trasformarono nei moderni diritti.
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Secondo: come si spezza la cosiddetta “ferrea legge delle oligarchie”?
La “ferrea legge delle oligarchie” prevede che  un’ élite venga sopraffatta e rimpiazzata sempre da un’ altra élite.
Anche qui il caso giocherebbe un ruolo decisivo, e il “caso” come spiegazione non è mai granché.
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Terzo: le condizioni istituzionali in cui si trovò la Gran Bretagna del XVIII secolo non erano poi così originali, diverse volte e in diversi altri posti sulla terra si erano già presentate in passato.
E allora, come la mettiamo?
Per chi si occupa di “ricchezza delle nazioni” la rivoluzione industriale inglese del XVIII secolo non un evento tra i tanti ma il prima e dopo Cristo.
Bè, qui c’ è una battaglia degli storici e A/C non sembrano avere fonti di prima mano.
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I tre dubbi ci consigliano di affiancare al fattore istituzionale un fattore umano specifico.
In cosa si concretizzerebbe? Possiamo chiamarla ideologia,  etica, cultura, retorica…
Tuttavia la cultura a cui penso non è tanto quella della “coda ordinata” quanto quella che induce ammirazione verso la figura dell’ “innovatore”, ben sapendo che l’ innovatore distrugge i vecchi mondi e ci incalza con cambiamenti continui.
E’ la cultura del rischio e del dinamismo, è la cultura che dà una dignità alla ricchezza, anche quando passa di mano in modo repentino; è la cultura che non si scandalizza di fronte a diseguaglianze sostanziali. E’ la cultura borghese, la cultura capitalista.
Oggi non so se esiste davvero qualcosa del genere, a me vengono piuttosto in mente ideologie antitetiche: quella ambientalista, per esempio. Non perché la protezione dell’ ambiente non sia un problema, quanto perché l’ ambientalismo militante rigetta le soluzioni razionali che vengono proposte rivelando quello che è il suo vero obiettivo: attaccare la mentalità consumista e le diseguaglianze sociali.
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Vorrei concludere con un’ immagine: direi allora che se le istituzioni sono una macchina potente in grado di proiettarci ad ad alta velocità verso il benessere materiale, allora la mentalità e l’ ideologia predominante sono il motorino di accensione.
Pensando all’ Africa e ad altri paesi poveri spero solo che quest’ auto parta anche a spinta: noi italiani l’ abbiamo ricevuta a suo tempo e forse possiamo fornirla a  chi oggi fa fatica.