venerdì 22 dicembre 2017

Un missionario diverso

Un missionario diverso

Padre Piero Gheddo è morto l’altro giorno, leggerlo ed ascoltarlo mi ha illuminato.
Non che fosse un rigoroso teoreta, era un missionario del PIME, eppure era depositario di intuizioni originali e talvolta spiazzanti.
Da lui ho imparato a conoscere un po’ meglio l’ Asia e l’ Africa, i continenti della povertà.
Posso ben dire che il mio interesse sul tema Vangelo&Ricchezza è stato innescato dal suo ascolto.
Quanto segue è il mio pensiero, non il suo, per carattere e senso di responsabilità i giudizi sferzanti gli erano estranei. Ma si tratta comunque di idee maturate nella sua ombra.
Da lui ho imparato che nel Vangelo non c’è una condanna della ricchezza in se stessa, ma il biasimo per l’uso distorto che l’uomo, nel suo egoismo, può farne a danno degli altri.
Non so se questo sia del tutto vero, so però che l’azione di Gheddo mi sembrava improntata a questo principio.
Presso molti cattolici vigeva allora il mito marxista secondo il quale chi si arricchisce lo fa sempre a spese degli altri.
Papa Francesco viene da quella schiatta, per altro maggioritaria, specie in ambito missionario. Avete presente padre Alex Zanotelli? Non aggiungo altro.
Ecco, Gheddo rappresentava per me il contrario, anche se mai si sarebbe posto in opposizione, tutte le opere erano preziose.
È chiaro che se la rapina viene vista come un metodo per arricchirsi, l‘elemosina diventa il metodo sovrano per aiutare il prossimo.
La strada maestra scelta da padre Gheddo mi sembrava diversa: condannava l’elemosina per puntare sulla cultura.
Se ci si arricchisce solo spogliando il prossimo, si aiuta il prossimo solo spogliandosi volontariamente (elemosina), oppure spogliando il ricco-cattivone che ha turbato per primo l’armonia universale (rivoluzione). Elemosina e rivoluzionesono amiche fedeli, e non di rado le abbiamo viste comparire sugli emblemi di certo cristianesimo missionario “deviato-ma-non-troppo”. Tra gli stracci del pauperista si nasconde sempre un coltello.
I cripto-catto-marxisti avevano allora individuato il nemico nella colonizzazione e nel mercato.
Padre Gheddo scuoteva il testone: la storia africana è piena di sfruttamento e rapina ben prima che arrivassero i bianchi; la ferocia tra comunità tribali era la norma, e questo anche (e soprattutto) in assenza di moneta e mercato. Il problema sta altrove.
Un padre Gheddo qualunque non avrebbe mai potuto scuotere il paradigma pauperista, era troppo consolidato, Marx lo ereditava addirittura dagli antichi e da Platone innanzitutto: “risulta impossibile che virtù e grandi ricchezze stiano insieme”.
E a loro volta gli antichi, prima di trasmetterlo a Marx,  lo avevano tramandato ai libri sacri. E’ per questo che la base platonico-marxista ha attecchito così bene nel mondo missionario cristiano.
Ma oggi anche i missionari dovrebbero avere imparato una volta per tutte nche i libri sacri hanno un contenuto religioso, non scientifico. Che è ora di staccarsi dal mito dell’elemosina.
Di certo lo aveva capito padre Gheddo.
Se i libri sacri non fanno che raccomandare l’elemosina come rimedio sovrano alla povertà, è perché era allora del tutto assente l’idea di produzione.
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Gli antichi consideravano la guerra come un buon affare per il più forte: procurava bottini.
Vero: ma poi non restava loro che azzerarli con il consumo. Finché non incontravano uno più forte di loro.
Il lavoro era disprezzato, l’occupazione considerata roba da schiavi. Amavano piuttosto il lusso e lo spreco, che vedevano come unica forma di “investimento”.
E’ chiaro che in un mondo del genere il ricco spoglia il povero per divenire quel che è.
Nell’Antico Testamento molti passaggi evocano questa cultura. In Maccabei, per esempio, si dice: “non vale la pena sudare nei mestieri quando con scorribande brigantesche si può avere tutto”.
In realtà le guerre sottraggono braccia al lavoro, e come ogni altra forma di rapina fanno inaridire le fonti da cui si alimentano.
Anche la ricchezza che procurano  è caduca, sappiamo per esempio che Roma e gli altri grandi Imperi del passato rimasero nell’insieme poveri, con giuste delle fiammate di sfarzo estemporaneo.
Occorsero più di 4 secoli perché considerazioni di ordine borghese e utilitaristico soppiantassero l’ideale eroico del guerriero magnanimo.
I chissà quanti ne occorreranno per riformare le teste di molto mondo missionario.
La sorella gemella della guerra e la schiavitù. La sua grande diffusione potrebbe far pensare che si tratti di un buon affare, e invece non lo è: “lo schiavo trascura i buoi, non cerca pascoli idonei per le greggi, non rivolta le zolle con attenzione, non fa il conto dei semi, non compie i lavori di sarchiatura e rimandatura…”
Per marxisti, antichi, Bibbia e certi missionari  la forza è tutto. Trotsky lo spiega: “se la costrizione va contro la produttività significa che ci siamo messi in un vicolo cieco… ma questo è solo un pregiudizio compagni!”.
Per capire come mai la schiavitù ha avuto tanto successo dovremmo rivolgerci  alla psicologia più che all’economia. Ignazio Silone lo ha fatto: “il senso di soddisfazione sociale nasce dal confronto con altri uomini e non con le cose ossia dal sentirsi superiori. In questo senso guerra e schiavitù funzionano eccome”.
Nei paesi poveri il mito marxista, il mito della guerra, il mito della schiavitù, il mito dell’elemosina è solo durato (e in molti dura ancora) più a lungo che altrove.
I missionari alla Zanotelli hanno contribuito non poco nel perseverare.
Purtroppo questa longevità è all’origine della povertà. In questo senso il periodo post-coloniale ha fatto più danni di quello coloniale.
E non necessita nemmeno che ci siano guerre, schiavi o comunismo realizzato per fare tanti danni. Basta la mentalità. Padre Gheddo lo aveva ben chiaro.
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Senza colpevolizzare nessuno, ci faceva notare la pigriziadesolante dei poveri, il loro passare gran parte del tempo in chiacchiere.
I missionari gesuiti già scrivevano: “è somma è l’ infingardaggine e l’abborrimento della fatica in quasi tutti i popoli sudamericani, un male che si osserva anche in altri moltissimi popoli selvaggi dell’Africa”.
In genere la donna è molto più occupata e laboriosa dell’uomo. Gli uomini parlano, le donne lavorano.
Se i classici latini dichiaravano disonorevole e vile il lavoro degli operai, i poveri africani sembrano aver assimilato quella cultura alla perfezione.
Nell’antica Roma come in Centro Africa il numero di giorni festivi è spropositato. Praticamente metà dell’anno. La Guinea Bissau è il paese con più feste al mondo, e se ne vanta. Ma è normale quando l’ideale è “lavorare poco”.
Proverbio di Santo Domingo: “lo stupido lavora e il furbo fa festa”. Il clima non sembra esattamente luterano.
Il ricco dei paesi poveri ama lo sperpero. Chi si arricchisce con mezzi anti-economici non è risparmiatore, il suo motto è: il denaro è fatto per essere speso!
Dove c’è povertà manca il senso dell’economia, del risparmio, dell’investimento. Non è colpa delle incertezze, è colpa della cultura. E’ vero in Niger come nella Roma imperiale.
Domina la bambinesca e primitiva esibizione delle ricchezze: dicono a tutti che sei un guerriero valente. Per Le Goff le società della rapina sono anche le società dell’apparenza.
Don Milani notava che i suoi contadini spendevano più per addobbare la camera da letto che per la lavatrice elettrica. Si lamentava delle risorse sperperate nelle feste di matrimonio.
Poi, come al solito, sbagliava tutto pensando che la cosa fosse un portato della società borghese: no, è un portato di una cultura arcaica ignara del concetto di investimento.
In Burkina Faso la gente è sempre impegnata in cerimonie: iniziazioni, matrimoni, funerali. Roba che dura giorni, eh.
In Amazzonia quando nasce un bambino moglie e marito devono astenersi da ogni attività per otto giorni.
Quando padre Gheddo dovette costruire un ponticello in Uganda lo sconforto lo prese, ricordo le sue parole: “qui tutto è difficile e lento nell’esecuzione…”
I poveri sono congenitamente privi del senso della puntualità, ne parla con dovizia di particolari il tedesco Arthur Koester in un suo spassoso passaggio sui russi (che non riesco a reperire).
In Guinea-Bissau non c’è la minima ansia per il tempo che scorre, la resistenza passiva al lavoro e l’assurdo prestigio attribuito all’ozio meravigliano il visitatore.
Le principali fonti di ricchezza degli “aristocratici” improduttivi e spendaccioni di questi disgraziati paesi: la guerra e la politica, i bottini e gli abusi amministrativi.
In questa cultura arcaica la frode è spesso motivo di orgoglio, il proprietario aristocratico – ancora nel nostro sud – si faceva vanto di essere imbrogliato dai suoi fattori: significava che li ha scelti furbi e capaci.
E anche qui il parallelo tra cultura dei poveri e cultura arcaica prosegue: anche preso antichi l’ideale era vivere oziosi (cioè negli studi, nella politica e nei divertimenti).
Il nostro meridione ha mostrato a lungo gli stessi vizi di mentalità presenti in modo macroscopico nei paesi sottosviluppati.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, degno erede di quella cultura, alla domanda “che mestiere fa?” rispondeva “il Principe”.
Con tale spirito non si poteva coltivare che la cultura letteraria, la quale, a sua volta, a chi non riusciva a vivere di rendita, non offriva altri sbocchi che le cosiddette professioni liberali; si era così avviati al tribunale, alla medicina, al notariato o a prete.
In tale milieu l’eloquenza e la retorica diventano centrali ed occupano la giornata del gentiluomo, tutto ciò che non è materia di disputa diventava trascurabile: agricoltura, arti, commercio, scienze naturali.
I membri di questo ceto, poco attratti dal lavoro produttivo e impossibilitati a fare tutti l’avvocato o il medico, finiranno col gonfiare la burocrazia dello Stato.
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Abbiamo quindi visto la santa alleanza tra certe ideologie moderne – come il marxismo – e mentalità  arcaiche tipiche del mondo classico: per entrambe la ricchezza si “arraffa”.
I racconti di padre Gheddo fanno cogliere immediatamente il nesso, eppure il mondo delle Missioni è spesso caduto nella trappola della propaganda comunista che ha chiamato “capitalistica” un’economia feudale e latifindista sopravvissuta, per esempio, in vaste aree dell’America Latina.
Padre Gheddo è stato tra i pochi a mantenere un esemplare lucidità su questo punto. Per lui l’allucinazione marxista e la rapina nobiliare marciavano insieme grazie ad una solida base condivisa.
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Ma il mondo dei poveri così come lo si evince dalle testimonianze di Gheddo ha un ulteriore marchio di fabbrica: il primato della politica.
Le cose si ottengono solo grazie alla politica, ovvero attraverso il lamento piazzaiolo, Il laio e il piagnisteo, possibilmente chiassoso. Il rito delle prefiche viene universalizzato.
Già per il  sociologo Pellicani ovunque il sottosviluppo è generato dal prevalere dell’interesse politico su tutti gli altri.
L’abbondanza di leggi, osservava già il Verri, possono forse allontanare taluni delitti ma non mai animare dell’industria. In Africa non fanno né l’una né l’altra cosa.
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Il povero fatica  a vedere le cose per quello che sono.
I poveri mancano di realismo, non fanno i conti con i fatti. Pensando che le loro recriminazioni siano sufficienti a dissolverli.
La Chiesa Missionaria, in molte su parti, spesso ha rinforzato questo vizietto, anziché combatterlo.
Come? Sostituendo all’ideale del progresso quello di una dubbia Santità, magari della santità monastica.
Il passaggio dalla Santità all’eroismo e dall’eroismo alla rivoluzione cruenta è stato del tutto naturale.
Troppo spesso i valori spirituali sono stati trasmessi in termini mistico contemplativi anziché nelle formulazioni razionali tipiche della Tradizione.
Su questo fondamento irrazionale attecchì bene l’ideologia marxista, grazie soprattutto ai suoi aspetti utopici.
Nei paesi sottosviluppati sono pochi coloro che fanno i loro calcoli in termini di costi ed i ricavi. Un carattere tipico dei poveri è l’incapacità di concepire il domani. Non mi meraviglia visto che il missionario di turno – l’uomo destinato dalla Provvidenza – parla loro di “ragione e calcolo” come di qualcosa “… che ha sconvolto il mondo e distorto i rapporti sociali”.
Padre Gheddo osserva sconsolato: “la fertilità aumenta con la povertà, l’ignoranza, insufficiente nutrizione, la disoccupazione, la mancanza di interessi e di impegni nella società…”
Dove latitano realismo e razionalità prevalgono miti e ideologia.
E con l’ ideologia ecco proliferare i missionari trasformati in “professorini” e  “dottrinari”, ovvero uomini con la mente rivolta all’utopia e incapaci di cambiare idea anche di fronte all’evidenza.
La mentalità mitica ed ideologica porta all’abuso della parola che si presta ad alimentare il sogno. Per questo le popolazioni arretrate amano perdere molto tempo in chiacchiere e discorsi ampollosi.
Figli del barocco, amanti del complicato, del vistoso e del ridondante. Chi ha avuto la terribile esperienza di ascoltare dall’inizio alla fine un discorso di Fidel Castro sa cosa intendo.
Ma il vero mito che hanno i poveri e quello dell’autorità. Per loro l’anarchia è il peggiore dei mali. In Zambia ci si inginocchia davanti alle Mercedes dei capi.
Il povero che conta solo sull’elemosina ha già perso la sua dignità e a lui non resta che inginocchiarsi e implorare.
Se il principe sbaglia è colpa dei cattivi consiglieri. Da qui sembra trarre origine quella specie di sacralità dello stato.
In Africa un figlio non può costruire una capanna migliore di quella di suo padre, lo disonorerebbe, e l’onore è tutto. Perciò si perpetua nei popoli sottosviluppati una povertà contenta e superba.
Come una passività conservatrice, del resto, per tornare al nostro parallelo, gli antichi proverbi non insegnavano forse larassegnazione?
Un altro mito deleterio è il mito del popolo. E qui la figura di Papa Francesco sembra uscire dagli anni più bui delle missioni sudamericane.
Per Settembrini il populismo significa essenzialmente che gli ultimi saranno i primi. Il tutto si fonda sulla vecchia visione sanfedista – e quindi reazionaria – per cui il vero popolo è quello analfabeta e senza scarpe che gli intellettuali corrompono.
Parliamo di uno sviluppo aberrante di taluni concetti religiosi che favoriscono l’attitudine al sogno e alla vociante rivendicazione.
Un esemplare di questa aberrazione fu  Don Milani, il quale riteneva che voler bene al popolo significasse renderlo consapevole della propria superiorità  rispetto al borghese.
Il mito del Popolo implica il mito della cultura proletaria. Ma la cultura proletaria non esiste, lo sapevano bene sia Bukowski che Pajetta: “ma qual è l’estetica del povero? L’estetica del povero è il brutto”.
Appiccicato al mito del Popolo e della cultura popolare sta sempre il perniciosissimo mito della rivoluzione.
Guarda caso i paesi che hanno avuto una antica tradizione di libertà non sono rivoluzionari. Se c’è un popolo moderno e insieme amante delle tradizioni questo è il popolo inglese, e lo stesso dicasi del popolo svizzero – buon ultimo nel concedere il voto alle donne.
Irrazionalità, anarchia di fatto, utopia e violenza sono invece tipici dei popoli rivoluzionari, quello boliviano per esempio, che ha conosciuto il 190 rivoluzioni in 160 anni di esistenza.
Se i popoli tradizionalmente liberi sono moderatamente conservatori è perché la loro condizione li ha resi più disposti ad accettare la realtà, e quindi ad accettare l’esistenza di una diseguaglianza di fatto tra gli uomini.
L’unica eguaglianza che pretendono è quella dei diritti, ovvero quella della dignità personale.
Ma in certi ambienti missionari – su cui vedo ancora padre Gheddo scuotere silenziosamente il testone – la “partecipazione allo stesso corpo e allo stesso sangue di Cristo” deve livellare anche socialmente ed economicamente chi partecipa.
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Molti missionari cristiani d’impostazione “classica” accusano di “individualismo” le moderne società, e ciò sembra dipendere da una certa nostalgia per il villaggio medievale.
L’individualismo sembra invece prerogativa del mondo rimasto sottosviluppato.
Esempio,   guardiamo al nostro Sud: badare ai fatti propriera considerato come la condizione fondamentale del vivere onesto.
Nei poveri c’è spesso un antistatalismo perverso: l’eredità di un cattivo governo crea odio verso l’autorità dello Stato, tutto cio’ impedisce la collaborazione, frena l’economia e crea povertà. Poveri e improduttivi, essi tenderanno a chiedere tutto allo stato.
Si può essere così un paese sostanzialmente socialista, con interventi pesanti dello stato in economia, ed al tempo stesso estremamente individualista, in cui l’autorità, lo stato, appaiono sempre in veste di nemici.
Quando lo stato non pensa al bene pubblico ma elargisce elemosine, la sua presenza si fa invasiva e, al contempo, la lotta tra i derelitti per accaparrarsi l’elemosina rende tutti delle iene.
Il triste destino del missionario tradizionale è spesso quello di divenire un imprenditore dell’invidia. L’invidia è un sentimento tipico dei paesi poveri. In Guinea-Bissau, tanto per dire, nessuno deve emergere sugli altri, nessuno può arricchirsi. L’invidia si istituzionalizza nell’odio di classe. Se c’è stato un missionario sempre attento a scansare insidie del genere, questi è stato padre Gheddo.
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Forse il missionario alla Zanotelli farebbe bene a notare che il ricco delle società moderne è ben diverso da quello delle società antiche. Oggi la vita di un imprenditore, di un banchiere, di un manager è molto più impegnata di quella di un operaio o di un contadino.
I grandi lussi – si pensi alle costose Cattedrali medievali che potevano contenere tutta la popolazione della città o ai superbi palazzi rinascimentali – appartengono al passato più che al presente.
Lo spreco di oggi – che chiamiamo consumismo – è fatto perlopiù dall’uomo comune, il che significa che nella società moderna la ricchezza ha raggiunto per la prima volta nella storia la massa degli uomini.
Il missionario alla Zanotelli – reso immune dalla sua bontà per antonomasia – a scuola non studia una sola pagina di storia dell’economia, dopodiché quando cede ad uno spazio pubblico non parla che di economia confondendo bellamente il capitalismo con l’economia antica, feudale, o al massimo mercantilistica.
Padre Gheddo, al contrario, su questi temi ci andava con i piedi di piombo, faceva capire che il problema della povertà risiede innanzitutto nei poveri stessi, che la radice ultima di povertà e ricchezza era la cultura più che la sopraffazione. Una cultura pauperista che, ahimé, i poveri condividevano spesso con molti di coloro destinati al loro aiuto.
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Per farla finita con le ricette

Per farla finita con le ricette

La tesi sarebbe all’incirca questa: se accetti il principio del consenso informato, allora devi farla finita con le ricette. Che senso hanno?
Il problema di fondo è all’incirca questo: l’assunzione di una medicina assicura certi benefici con una probabilità dell’x% e certi effetti collaterali spiacevoli con una probabilità dell’y%. Chi deve decidere se assumerla o meno? E chi è l’esperto in materia?
Risposta: l’esperto non è il medico (lui è esperto solo nel ricavare x e y) ma il bioeticista.
All’inizio del ‘900 una storiella come questa che schizzo qua sotto rivoltò come un calzino la bioetica.
Maria andò all’ospedale in preda a dolori addominali, il medico che la visitò riscontrò la presenza di un grumo sospetto: bisognava intervenire. Tuttavia, Maria era di parere contrario, voleva tornare a casa la mattina seguente alla notte in cui restava in osservazione. I medici insistettero, la svegliarono più volte per ottenere un via libera ma Maria si oppose ostinatamente. Al mattino decisero di sedarla a sua insaputa e di intervenire chirurgicamente per asportarle un fibroma uterino ricorrendo ad un’isterectomia o come diavolo si chiama. Il decorso post-operatorio fu complicato e incluse l’amputazione di due dita in seguito a cancrena.
Evito date e luoghi per non appesantire, sta di fatto che episodi di questo tipo spinsero allo sviluppo più significativo nell’etica medica del XX secolo: la necessità di un consensodel paziente per far partire la cura.
In poche parole: fine del paternalismo medico.
Ora al comando delle operazioni sta ora il malato, il medico è un prezioso consulente che entra in azione solo ad un cenno del vero boss.
Prima i medici ricorrevano spesso alle “bugie pietose” per mascherare l’esito della diagnosi e agire così in autonomia.
Ancora negli anni ‘70, il 90% dei medici edulcorava o addirittura occultava al paziente la diagnosi di cancro.
Il principio di autodeterminazione nella cura suona così: ogni essere umano adulto in possesso delle sue facoltà mentali ha il diritto di stabilire che fare con il suo corpo.
E’ la dottrina del consenso informato.
Ma il processo storico presenta una curiosa asimmetria: man mano che cresceva l’autodeterminazione nella cura, cresceva anche il proibizionismo nell’accesso ai medicinali.
Più il paziente diveniva “libero” di curarsi, più difficoltoso diventava farlo concretamente. Quel che veniva dato con una mano, veniva tolto con l’altra.
Sembrerebbe molto più logico che l’introduzione del consenso informato sdogani anche il libero accesso ai farmaci.
Questo non significa silenziare i medici ma trasformarli in consulenti del Signore, ovvero del malato.
Si noti il vero paradosso: oggi rifiutare i medicinali è concesso, ma non è concesso assumerli senza autorizzazione dall’alto.
Rischiare omettendo si puo’, rischiare agendo è vietato. Ma che senso ha?
Se il dottore che mi diagnostica il diabete e poi mi prescrive l’insulina, io posso mandarlo a quel paese ripiegando su esercizi e dieta ferrea. Lui non puo’ nulla nei miei confronti, non puo’ impormi la sua cura.
Se il dottore che mi diagnostica il diabete mi prescrive esercizi e dieta ferrea, io non posso mandarlo a quel paese ripiegando sull’ insulina.
Nell’ultimo caso e solo nell’ultimo caso io sono suo schiavo, poiché l’insulina mi è negata in assenza di un suo consenso.
Difficile ricavare una logica da una situazione del genere.
Proibire con la forza l’accesso alle medicine significa negarela libertà di cura. Punto.
La teoria del consenso informato presume che il paziente sia la persona nella posizione migliore per scegliere le cure che salvaguardando i suoi interessi.
Questo perché gli interessi da tutelare sono quelli “generali”, non quelli strettamente legati alla salute fisica.
Il dovere del medico è quello di fornire informazioni, poi deve sparire in attesa di ordini.
Il pilastro giuridico della “posizione di vantaggio” è un’eredità ricevuta da John Stuart Mill: “nessuno più dell’interessato è nelle condizioni di decidere o meno su un rischio che lo riguarda”.
Le preferenze di una persona sono inaccessibili ai terzi, è questa la base di ogni sano soggettivismo/solipsismo. Tu non puoi leggermi nell’animo.
I due bioeticisti di riferimento su questo tema sono Allen Buchanan e Robert Veatch: “non ha senso che chi è esperto in una sola componente del benessere debba pronunciarsi sul benessere in generale di un altro soggetto”.
La salute fisica è solo una componente – per altro secondaria – del benessere. Chi meglio dei cattolici ha chiara questa verità? Nessuno.
Una focalizzazione miope sulla salute fisica assomiglia a quella di chi punta tutto sul denaro per essere felice. Pazzi!
I dottori dovrebbero curare i pazienti prima che le malattie (Maimonide), è quindi ovvio che al paziente debbano concedere la precedenza.
Di fronte ad una divergenza nulla vieta che il dottore insista, ma alla fine sarà lui a cedere, pena la violazione di diritti fondamentali.
Immaginatevi il classico testimone di Geova contrario alle trasfusioni. Sottoporsi al trattamento è chiaramente nell’interesse della sua salute fisica ma che ne sappiamo noi della sua “salute generale”? Della sua identità culturale, del suo impegno religioso? Solo uno scientista equiparerebbe “salute fisica” e “benessere generale”.
Il discorso si estende – in modo depotenziato – ai figli del Testimone di Geova. Qualora non siano in grado di esprimere un consenso, la cosa più plausibile è supporre che assomiglino ai genitori, del resto i più interessati al loro bene.
Possiamo anche immaginare un paziente che rinuncia alla chemioterapia per preservare la sua fertilità anche se questa decisione mette a rischio la sua vita. Le scelte di cura sono sempre valoriali e i valori appartengono al soggetto.
Tutte le libertà possono essere ricondotte alla libertà religiosa, la libertà fondamentale.
La chirurgia estetica non fornisce nessuna cura a fronte di molti rischi, ma noi l’accettiamo proprio perché alla base rinveniamo il consenso del paziente.
***
Tutti gli argomenti appena scorsi valgono quando si affronta un rischio di cura. Non ha senso distinguere se il rischio si generi da un’omissione piuttosto che da un’azione.
Quando il medico decide di prescrivere una medicina lo fa calcolando un rischio, ma, per quanto appena detto, il medico non ha gli elementi per capire se “il gioco vale la candela”. Il medico puo’ solo quantificare un rischio particolare e poi cedere la parola.
Ma quelle messe peggio sono le autorità che autorizzano la messa in commercio dei medicinali: loro nemmeno conoscono i possibili beneficiari! Come mai potrebbero calcolare  il “rischio personale complessivo”?
Immaginiamoci un paziente che sbaglia. Per ignoranza, per presunzione, per distorsioni cognitive il paziente puo’ prendere posizioni sbagliate e pentirsi amaramente delle sue scelte.
La cosa non cambia i termini della questione: un paziente che decide e sbaglia mantiene comunque una dignità personale superiore a quella del paziente/pupazzo forzato nella giusta direzione.
Se la modernità conserva un briciolo di virilità è qui che la troviamo. Vogliamo estinguerla del tutto?
Chi sostiene la prescrizione delle ricette, ritiene che medico e regolatore siano meno coinvolti e più esperti rispetto al paziente.
Obiezioni precedenti a parte, questo varrebbe anche nel caso del consenso informato! Perché lì abbiamo ritenuto perdentequesto argomento?
Qualcuno sostiene che il paziente trascura il lungo periodo. Ma è tutt’altro che chiaro perché mai bisognerebbe privilegiare il lungo periodo.
Ad ogni modo, e vale la pena di ricordarlo ancora, il giudizio degli esperti ha comunque un grande peso, direi che nella maggior parte dei casi è determinante nei fatti in moltissimi casi. Si tratta di un’evidenza in nostro possesso maturata nell’ormai lunga pratica del consenso informato.
Il paziente insicuro, sperso, disorientato, travolto dagli eventi – quello a cui pensano i paternalisti – si affiderà certamente al medico.
C’è un altro motivo per delegare al paziente le decisioni: quando un paziente sceglie, l’effetto placebo va alle stelle (e non vi passi per la testa di sottovalutare l’effetto placebo). Scegliersi la cura significa formulare profezie che si autoavverano.
Io sono mio. Ecco il principio cardine.
Sbagliare moglie puo’ avere conseguenze tragiche. Uno psicologo (ma anche un algoritmo) ne sa in teoria più di noi sulla compatibilità dei caratteri nel lungo termine dei caratteri. Eppure, nessuno di noi oserebbe conculcare il diritto fondamentale di scegliere e sbagliare su questo tema. Il diritto di rovinarsi la vita con le proprie mani è sacro.
C’è chi resiste a quanto dico sostenendo che le scelte sanitarie non siano poi così intime, e che quindi non meritino una protezione particolare.
Io dico invece che toccare il corpo di una persona significa entrare nella sua intimità. Anche di più che toccare la sua proprietà o la sua reputazione.
Stephen Darwall sostiene in modo convincente che interferire nelle scelte mediche di un adulto responsabile significa nella sostanza non riconoscere la sua dignità di membro di una comunità morale.
Così facendo si  viola un principio kantiano.
L’aspetto criticabile del paternalismo, allora, non sta tanto nella delega a terzi di una tutela non richiesta, quanto piuttosto  in una mancanza di rispetto  verso chi intende proteggere.  La persona viene di fatto squalificata e ridotta ad infante permanente.
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La dottrina del consenso informato ha anche il pregio di proteggere il paziente da abusi.
Anche chi non è convinto dal diritto a scegliere per sé, converrà sul fatto che le persone non debbano subire violenze fisiche.
Fissare delle eccezioni è sempre un rischio.
Manson O’Neill sostiene che la dottrina del consenso informato è meglio compresa se vista come un impedimento ai medici di violentare i propri pazienti, neanche a fin di bene.
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Chi può scegliere di ingurgitare una medicina che avrà certi effetti, puo’ anche scegliere di farlo con una medicina che probabilmente avrà certi effetti. perché no?
Nel mondo concreto tutto è riconducibile a probabilità, il fatto che una probabilità si avvicini al 100% o al 75% non deve cambiare lo schema di fondo.
I medici, oltretutto, non hanno particolari competenze in tema di valutazione del rischio, non conoscono nemmeno le basi della decisione razionale in presenza di rischi, non sono operatori finanziari. La loro competenza si limita a stabilire e comunicare le probabilità stimate. Poi, se sono medici coscienziosi, possono trasformarsi in “amici” del paziente, ma non andare oltre.
Se quanto ho appena detto è vero, allora ciò comporta una profonda riforma nelle procedure di approvazione dei medicinali.
Ad oggi nessun malato può accedere a medicine sprovviste di apposita certificazione di sicurezza.
Tuttavia, come abbiamo visto di sopra, il concetto di sicurezza rinvia ai valori personali.
Non solo, gli stessi regolatori certificano anche medicinali che implicano certi rischi. In altri termini, il concetto di sicurezza è sempre relativo, e non potrebbe essere che così.
Posta e tollerata una certa quota di rischio, la domanda diventa: come individuare questa soglia?
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C’è chi sostiene che il consenso è davvero informato solo se inerente a farmaci approvati. In caso contrario, come conoscere i reali rischi?
Ma il mercato nero delle medicine non approvate dimostra che un consenso informato si forma anche senza certificazioni.
Per capire meglio di cosa sto parlando, bisogna sapere che in taluni medicinali vengono approvati solo per specifiche patologie, ma poi restano a disposizione di tutti su un mercato nero.
Si tratta di contesti in grado di simulare un mondo deregolamentato, una specie di esperimento naturale. E’ chiaro che l’estensione e il successo di questi mercati getta sospetti sull’utilità di una regolamentazione preventiva.
Noi gente di confine abbiamo una fruttuosa esperienza in questo senso: i nostri medici di fiducia ci spedivano regolarmente in Svizzera per reperire utili medicine non autorizzate in Italia. Svizzera, grazie di esistere.
Oltre all’approvazione delle medicine, c’è poi la questione delle ricette. Anche qui bisogna intervenire per tutelare il diritto alla cura.
Prendiamo il caso delle medicine in grado di potenziare la nostra resistenza ai carichi cognitivi, l’Adderal ha fatto parlare molto di sé. Oggi vengono usate da tutti senza prescrizione poiché ufficialmente si tratta di medicine destinate unicamente ai soggetti ADHDDHHAHADA.
Ma questo è anche  un caso preclaro in cui il medico  non sarà mai in grado di soppesare l’opportunità dell’assunzione, i fattori in gioco per ciascun soggetto sono moltissimi e sempre diversi, la gran parte di essi ricadranno al di fuori della sfera di competenza del medico, molti non saranno neppure a lui noti.
Anche gli alcolici bevuti ad una festa possono essere pericolosi per la nostra salute, ma nessuno si sogna di delegare ad un medico la decisione di quale spumante stappare al mio compleanno. Si tratta della mia festa e decidi decido io.
Anche la privazione da sonno è estremamente dannosa, ma poiché l’indomani ho un esame decisivo sono io a decidere se stare sveglio a studiare stanotte, non il medico.
Conclusione: se troviamo  ragionevole la dottrina del “consenso informato”, e ormai è accettata ovunque, allora urge riformare al più presto le procedure di approvazione e prescrizione dei medicinali. Una volta proclamata la libertà di cura non si possono fare eccezioni e non si può ricorrere a doppi standard del  tutto arbitrari.  
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