venerdì 22 dicembre 2017

Per farla finita con le ricette

Per farla finita con le ricette

La tesi sarebbe all’incirca questa: se accetti il principio del consenso informato, allora devi farla finita con le ricette. Che senso hanno?
Il problema di fondo è all’incirca questo: l’assunzione di una medicina assicura certi benefici con una probabilità dell’x% e certi effetti collaterali spiacevoli con una probabilità dell’y%. Chi deve decidere se assumerla o meno? E chi è l’esperto in materia?
Risposta: l’esperto non è il medico (lui è esperto solo nel ricavare x e y) ma il bioeticista.
All’inizio del ‘900 una storiella come questa che schizzo qua sotto rivoltò come un calzino la bioetica.
Maria andò all’ospedale in preda a dolori addominali, il medico che la visitò riscontrò la presenza di un grumo sospetto: bisognava intervenire. Tuttavia, Maria era di parere contrario, voleva tornare a casa la mattina seguente alla notte in cui restava in osservazione. I medici insistettero, la svegliarono più volte per ottenere un via libera ma Maria si oppose ostinatamente. Al mattino decisero di sedarla a sua insaputa e di intervenire chirurgicamente per asportarle un fibroma uterino ricorrendo ad un’isterectomia o come diavolo si chiama. Il decorso post-operatorio fu complicato e incluse l’amputazione di due dita in seguito a cancrena.
Evito date e luoghi per non appesantire, sta di fatto che episodi di questo tipo spinsero allo sviluppo più significativo nell’etica medica del XX secolo: la necessità di un consensodel paziente per far partire la cura.
In poche parole: fine del paternalismo medico.
Ora al comando delle operazioni sta ora il malato, il medico è un prezioso consulente che entra in azione solo ad un cenno del vero boss.
Prima i medici ricorrevano spesso alle “bugie pietose” per mascherare l’esito della diagnosi e agire così in autonomia.
Ancora negli anni ‘70, il 90% dei medici edulcorava o addirittura occultava al paziente la diagnosi di cancro.
Il principio di autodeterminazione nella cura suona così: ogni essere umano adulto in possesso delle sue facoltà mentali ha il diritto di stabilire che fare con il suo corpo.
E’ la dottrina del consenso informato.
Ma il processo storico presenta una curiosa asimmetria: man mano che cresceva l’autodeterminazione nella cura, cresceva anche il proibizionismo nell’accesso ai medicinali.
Più il paziente diveniva “libero” di curarsi, più difficoltoso diventava farlo concretamente. Quel che veniva dato con una mano, veniva tolto con l’altra.
Sembrerebbe molto più logico che l’introduzione del consenso informato sdogani anche il libero accesso ai farmaci.
Questo non significa silenziare i medici ma trasformarli in consulenti del Signore, ovvero del malato.
Si noti il vero paradosso: oggi rifiutare i medicinali è concesso, ma non è concesso assumerli senza autorizzazione dall’alto.
Rischiare omettendo si puo’, rischiare agendo è vietato. Ma che senso ha?
Se il dottore che mi diagnostica il diabete e poi mi prescrive l’insulina, io posso mandarlo a quel paese ripiegando su esercizi e dieta ferrea. Lui non puo’ nulla nei miei confronti, non puo’ impormi la sua cura.
Se il dottore che mi diagnostica il diabete mi prescrive esercizi e dieta ferrea, io non posso mandarlo a quel paese ripiegando sull’ insulina.
Nell’ultimo caso e solo nell’ultimo caso io sono suo schiavo, poiché l’insulina mi è negata in assenza di un suo consenso.
Difficile ricavare una logica da una situazione del genere.
Proibire con la forza l’accesso alle medicine significa negarela libertà di cura. Punto.
La teoria del consenso informato presume che il paziente sia la persona nella posizione migliore per scegliere le cure che salvaguardando i suoi interessi.
Questo perché gli interessi da tutelare sono quelli “generali”, non quelli strettamente legati alla salute fisica.
Il dovere del medico è quello di fornire informazioni, poi deve sparire in attesa di ordini.
Il pilastro giuridico della “posizione di vantaggio” è un’eredità ricevuta da John Stuart Mill: “nessuno più dell’interessato è nelle condizioni di decidere o meno su un rischio che lo riguarda”.
Le preferenze di una persona sono inaccessibili ai terzi, è questa la base di ogni sano soggettivismo/solipsismo. Tu non puoi leggermi nell’animo.
I due bioeticisti di riferimento su questo tema sono Allen Buchanan e Robert Veatch: “non ha senso che chi è esperto in una sola componente del benessere debba pronunciarsi sul benessere in generale di un altro soggetto”.
La salute fisica è solo una componente – per altro secondaria – del benessere. Chi meglio dei cattolici ha chiara questa verità? Nessuno.
Una focalizzazione miope sulla salute fisica assomiglia a quella di chi punta tutto sul denaro per essere felice. Pazzi!
I dottori dovrebbero curare i pazienti prima che le malattie (Maimonide), è quindi ovvio che al paziente debbano concedere la precedenza.
Di fronte ad una divergenza nulla vieta che il dottore insista, ma alla fine sarà lui a cedere, pena la violazione di diritti fondamentali.
Immaginatevi il classico testimone di Geova contrario alle trasfusioni. Sottoporsi al trattamento è chiaramente nell’interesse della sua salute fisica ma che ne sappiamo noi della sua “salute generale”? Della sua identità culturale, del suo impegno religioso? Solo uno scientista equiparerebbe “salute fisica” e “benessere generale”.
Il discorso si estende – in modo depotenziato – ai figli del Testimone di Geova. Qualora non siano in grado di esprimere un consenso, la cosa più plausibile è supporre che assomiglino ai genitori, del resto i più interessati al loro bene.
Possiamo anche immaginare un paziente che rinuncia alla chemioterapia per preservare la sua fertilità anche se questa decisione mette a rischio la sua vita. Le scelte di cura sono sempre valoriali e i valori appartengono al soggetto.
Tutte le libertà possono essere ricondotte alla libertà religiosa, la libertà fondamentale.
La chirurgia estetica non fornisce nessuna cura a fronte di molti rischi, ma noi l’accettiamo proprio perché alla base rinveniamo il consenso del paziente.
***
Tutti gli argomenti appena scorsi valgono quando si affronta un rischio di cura. Non ha senso distinguere se il rischio si generi da un’omissione piuttosto che da un’azione.
Quando il medico decide di prescrivere una medicina lo fa calcolando un rischio, ma, per quanto appena detto, il medico non ha gli elementi per capire se “il gioco vale la candela”. Il medico puo’ solo quantificare un rischio particolare e poi cedere la parola.
Ma quelle messe peggio sono le autorità che autorizzano la messa in commercio dei medicinali: loro nemmeno conoscono i possibili beneficiari! Come mai potrebbero calcolare  il “rischio personale complessivo”?
Immaginiamoci un paziente che sbaglia. Per ignoranza, per presunzione, per distorsioni cognitive il paziente puo’ prendere posizioni sbagliate e pentirsi amaramente delle sue scelte.
La cosa non cambia i termini della questione: un paziente che decide e sbaglia mantiene comunque una dignità personale superiore a quella del paziente/pupazzo forzato nella giusta direzione.
Se la modernità conserva un briciolo di virilità è qui che la troviamo. Vogliamo estinguerla del tutto?
Chi sostiene la prescrizione delle ricette, ritiene che medico e regolatore siano meno coinvolti e più esperti rispetto al paziente.
Obiezioni precedenti a parte, questo varrebbe anche nel caso del consenso informato! Perché lì abbiamo ritenuto perdentequesto argomento?
Qualcuno sostiene che il paziente trascura il lungo periodo. Ma è tutt’altro che chiaro perché mai bisognerebbe privilegiare il lungo periodo.
Ad ogni modo, e vale la pena di ricordarlo ancora, il giudizio degli esperti ha comunque un grande peso, direi che nella maggior parte dei casi è determinante nei fatti in moltissimi casi. Si tratta di un’evidenza in nostro possesso maturata nell’ormai lunga pratica del consenso informato.
Il paziente insicuro, sperso, disorientato, travolto dagli eventi – quello a cui pensano i paternalisti – si affiderà certamente al medico.
C’è un altro motivo per delegare al paziente le decisioni: quando un paziente sceglie, l’effetto placebo va alle stelle (e non vi passi per la testa di sottovalutare l’effetto placebo). Scegliersi la cura significa formulare profezie che si autoavverano.
Io sono mio. Ecco il principio cardine.
Sbagliare moglie puo’ avere conseguenze tragiche. Uno psicologo (ma anche un algoritmo) ne sa in teoria più di noi sulla compatibilità dei caratteri nel lungo termine dei caratteri. Eppure, nessuno di noi oserebbe conculcare il diritto fondamentale di scegliere e sbagliare su questo tema. Il diritto di rovinarsi la vita con le proprie mani è sacro.
C’è chi resiste a quanto dico sostenendo che le scelte sanitarie non siano poi così intime, e che quindi non meritino una protezione particolare.
Io dico invece che toccare il corpo di una persona significa entrare nella sua intimità. Anche di più che toccare la sua proprietà o la sua reputazione.
Stephen Darwall sostiene in modo convincente che interferire nelle scelte mediche di un adulto responsabile significa nella sostanza non riconoscere la sua dignità di membro di una comunità morale.
Così facendo si  viola un principio kantiano.
L’aspetto criticabile del paternalismo, allora, non sta tanto nella delega a terzi di una tutela non richiesta, quanto piuttosto  in una mancanza di rispetto  verso chi intende proteggere.  La persona viene di fatto squalificata e ridotta ad infante permanente.
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La dottrina del consenso informato ha anche il pregio di proteggere il paziente da abusi.
Anche chi non è convinto dal diritto a scegliere per sé, converrà sul fatto che le persone non debbano subire violenze fisiche.
Fissare delle eccezioni è sempre un rischio.
Manson O’Neill sostiene che la dottrina del consenso informato è meglio compresa se vista come un impedimento ai medici di violentare i propri pazienti, neanche a fin di bene.
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Chi può scegliere di ingurgitare una medicina che avrà certi effetti, puo’ anche scegliere di farlo con una medicina che probabilmente avrà certi effetti. perché no?
Nel mondo concreto tutto è riconducibile a probabilità, il fatto che una probabilità si avvicini al 100% o al 75% non deve cambiare lo schema di fondo.
I medici, oltretutto, non hanno particolari competenze in tema di valutazione del rischio, non conoscono nemmeno le basi della decisione razionale in presenza di rischi, non sono operatori finanziari. La loro competenza si limita a stabilire e comunicare le probabilità stimate. Poi, se sono medici coscienziosi, possono trasformarsi in “amici” del paziente, ma non andare oltre.
Se quanto ho appena detto è vero, allora ciò comporta una profonda riforma nelle procedure di approvazione dei medicinali.
Ad oggi nessun malato può accedere a medicine sprovviste di apposita certificazione di sicurezza.
Tuttavia, come abbiamo visto di sopra, il concetto di sicurezza rinvia ai valori personali.
Non solo, gli stessi regolatori certificano anche medicinali che implicano certi rischi. In altri termini, il concetto di sicurezza è sempre relativo, e non potrebbe essere che così.
Posta e tollerata una certa quota di rischio, la domanda diventa: come individuare questa soglia?
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C’è chi sostiene che il consenso è davvero informato solo se inerente a farmaci approvati. In caso contrario, come conoscere i reali rischi?
Ma il mercato nero delle medicine non approvate dimostra che un consenso informato si forma anche senza certificazioni.
Per capire meglio di cosa sto parlando, bisogna sapere che in taluni medicinali vengono approvati solo per specifiche patologie, ma poi restano a disposizione di tutti su un mercato nero.
Si tratta di contesti in grado di simulare un mondo deregolamentato, una specie di esperimento naturale. E’ chiaro che l’estensione e il successo di questi mercati getta sospetti sull’utilità di una regolamentazione preventiva.
Noi gente di confine abbiamo una fruttuosa esperienza in questo senso: i nostri medici di fiducia ci spedivano regolarmente in Svizzera per reperire utili medicine non autorizzate in Italia. Svizzera, grazie di esistere.
Oltre all’approvazione delle medicine, c’è poi la questione delle ricette. Anche qui bisogna intervenire per tutelare il diritto alla cura.
Prendiamo il caso delle medicine in grado di potenziare la nostra resistenza ai carichi cognitivi, l’Adderal ha fatto parlare molto di sé. Oggi vengono usate da tutti senza prescrizione poiché ufficialmente si tratta di medicine destinate unicamente ai soggetti ADHDDHHAHADA.
Ma questo è anche  un caso preclaro in cui il medico  non sarà mai in grado di soppesare l’opportunità dell’assunzione, i fattori in gioco per ciascun soggetto sono moltissimi e sempre diversi, la gran parte di essi ricadranno al di fuori della sfera di competenza del medico, molti non saranno neppure a lui noti.
Anche gli alcolici bevuti ad una festa possono essere pericolosi per la nostra salute, ma nessuno si sogna di delegare ad un medico la decisione di quale spumante stappare al mio compleanno. Si tratta della mia festa e decidi decido io.
Anche la privazione da sonno è estremamente dannosa, ma poiché l’indomani ho un esame decisivo sono io a decidere se stare sveglio a studiare stanotte, non il medico.
Conclusione: se troviamo  ragionevole la dottrina del “consenso informato”, e ormai è accettata ovunque, allora urge riformare al più presto le procedure di approvazione e prescrizione dei medicinali. Una volta proclamata la libertà di cura non si possono fare eccezioni e non si può ricorrere a doppi standard del  tutto arbitrari.  
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Io, la mia Colt e il mio giornale



Io, la mia Colt e il mio giornale


Chi non legge assolutamente nulla è comunque più istruito e preparato di chi non legge assolutamente nulla… tranne i giornali
Thomas Jefferson
Sono appena stato al bar, ho consumato il mio solito cappuccino+brioche+giornale e fatto un po’ diconversazione.
Conversazione da bar, intendiamoci. Ci si misura sui vari temi mantenendosi sulle generali: se dici una parola in più passi per pedante.
Tuttavia, anche in queste rachitiche conversazionic’è sempre quello più brillante, quello più informato, quello che dopo pochi secondi comincia a prevalere riducendo ad un umiliante silenzio tutti gli altri: lui ne sa di più su quella cosa, ha più esperienza, ha viaggiato, era caporeparto a “losailcazzo SRL”, articola meglio il suo pensiero, è ironico, allude, cita, punzecchia, replica, fa incisi, rinvii, litoti, metonimie… è il migliore, è vincente.
E’ anche diventato il cocco della cassiera che guarda dall’angolo con i suoi occhioni da lupa. Ovvio.
Il fegato mi rode sempre quando esco da quel bar. Ho come l’impressione che qualcuno mi abbia trapassato l’addome, ho come l’impressione che tra i cruenti duelli all’arma bianca di ieri e quelli parolai di oggi, non corra grande differenza.
Insieme al cappuccino leggo il giornale.
Non so bene se lo leggo per approfondire le conversazioni o per reggere meglio la prossima (e incastrare una volta tanto il sapientone). Non so se sono le conversazioni a condurmi dai giornali o viceversa.
Non devo essere l’unico in queste condizioni poiché un po’ tutti sembrano ossessionati dalle notizie. Dalla notizia del giorno, in particolare.
Domani morirà un personaggio di nicchia e vorrei mettere in bacheca qualcosa di più del solitosquallido R.I.P., non è meglio che mi prepari  fin d’ora? Mi aggiro per le geriatrie di tutti i continenti come un impresario di pompe funebri.
Paolo Conte potrebbe crepare da un momento all’altro e devo assolutamente far capire al mondo quanto siamo stati intimi noi due.
Il mio adorato Jimmy Connors – ho studiato il suo rovescio per anni fotogramma per fotogramma nel tentativo di imitarlo – ha un piede nella fossa e vuoi vedere che quando il Signore lo chiamerà a sé a parlarne alla cassiera sarà quel figlio di puttana che delle imprese di Jimmy ha letto distrattamente giusto qualche trafiletto del Tuttonotizie della Gazza? 
E’ l’anniversario della rivoluzione di ottobre e io non ho niente da dire! Ti rendi conto? Decenni di anti-comunismo viscerale gettati nel cesso.
Oggi avrei scritto volentieri un post sui  robot intelligenti che costruiscono robot più intelligente di loro in modo da far esplodere l’intelligenza sul nostro pianeta. Ma il giornale non ne parla, d’altronde è un caso che – per quanto interessante – esiste solo nella mia testa, nessuno mi seguirebbe, che ne scrivo a fare? Meglio scrivere dei giornali. Se scrivi dei giornali non sbagli mai.
Ma l’ossessione per le notizie non è una mia prerogativa, è vecchia come il cucco. A chi non ne fosse convinto consiglio la lettura di Mitchell Stephens (Storia della notizia). Ma anche di Demostene, specie quando ritrae gli ateniesi sempre a caccia di info per reggere al meglio la guerra della conversazione.
***
Se rifletto sul perché leggo il giornale, il mio portavoce ufficiale risponde: “perché voglio conoscere le cose importanti e allargare i miei orizzonti. Contenti?”.
In realtà mi sa che voglio più che altro essereall’altezza delle conversazioni da bar che conduco.
Bernard Berelson è un sociologo che ha cercato di capire perché leggiamo i giornali. Secondo lui lo facciamo 1) per motivi pragmatici, tipo per sapere che tempo fa, 2) per seguire le storie di persone (conosciute leggendo il giornale) e 3) per reggere la conversazione.
Oggi le esigenze pragmatiche si sono dissolte nel nulla cosmico, basta googolare.
Per le fiabe le alternative sono molte. Anche per quelle vere: certo, gli ultimi sviluppi del caso Macchi li apprendo sui giornali, ma se voglio una cronaca nera con tutti i crismi leggo “L’avversario”, mica il giornale.
Non resta che il terzo desolante motivo.
Da un lato faccio dire al mio portavoce che leggere il giornale mi fa votare meglio, dall’altro, neanche tanto di nascosto, salto le uniche e noiosissime pagine che un elettore scrupoloso dovrebbe leggere.
Ma è ovvio, per me, in fondo, le elezioni sono poco più di un derby, mi coinvolgono perché il tifo mi coinvolge: voglio esultare per il mio beniamino impresentabile, voglio vedere la faccia di quel tale quando perde. Voglio ascoltare i commenti dei giornalisti spiazzati dagli esiti. Per me le elezioni sono funzionali ai commenti, non viceversa. Ma non vi eravate accorti? Un po’ come il calcio: ecchissenefrega delle partite. Cio’ non toglie che nella conversazione, poi, voglia talvolta apparire come un saggio “terzista” moderato e dedito al buon senso (è una forma di tifo anche quella). Le elezioni sono – in piccolo – un palcoscenico anche per me, e leggendo il giornale ripasso il mio copione.
Anche per questo non me ne frega un cazzo che quanto riporti il mio giornale sia particolarmenteaccurato. La sua funzione è un’altra.
Se mi fregasse qualcosa consulterei il registro delle scommesse per verificare quante volte Panebianco o Galli della Loggia c’hanno imbroccato.
Ma Panebianco e Galli della Loggia non offrono ai loro lettori alcun record track, basta il loro prestigio. Sanno che i lettori come me – nel corso della discussione – hanno bisogno di un rinvio a fonti prestigiose, non a fonti attendibili, altrimenti, affrontando i temi di politica estera, non si sarebbero rivolti a Polito o Olimpio ma, per esempio, all’emerito sconosciuto Bill Flack, ovvero all’uomo con il margine di scommesse vinte più elevato in materia di politica mediorientale.
***
E’ un paio di giorni che giù al bar imperversa la discussioni sul Bitcoin, e lì, devo ammettere, ho conosciuto il mio piccolo momento di gloria. Domino il gergo delle valute e l’ho sfoderato senza ritegno (non so nemmeno quanto a proposito). La mia spiega del perché secondo me l’ asset sia in bolla sembra aver impressionato l’uditorio (cassiera compresa). Perfino il “sapientone” si è ammutolito fingendo disinteresse.
E’ chiaro che se fossi convinto delle mie “teorie”andrei di corsa  in banca chiedendo di convertire metà dei miei averi in future al ribasso sulla borsa di Chicago.
Eppure non lo faccio, non lo farei mai.
Forse che disdegno l’arricchimento?
Più probabilmente non sono poi così convinto delle mie tesi.
Ancora più probabilmente non me ne frega un cazzo di verificare se le mie tesi siano vere, quel che mi interessava veramente l’ho già conseguito: zittire l’odioso sapientone e avere su di me gli occhioni ammirati della cassiera/lupa.
Se mi faccio l’esame di coscienza – e sotto Natale la pratica è consigliata – devo ammettere di leggere il giornale per rifornire il mio arsenale, per procurarmi le munizioni utili a combattere quella particolare guerra nota sotto il nome di “conversazione”.
Il giornale è la mia Colt, e spunta dalla tasca della mia giacca come se dicesse a tutta la gente che mi incrocia: “cazzo guardi tu che nemmeno sai costruire un modello per le criptovalute?… occhi bassi e fila…”.
Non devo più cedere l’ultima parola al sapientone, non devo farmi confondere da lui, devo impressionare la cassiera con l’appello ad autorità prestigiose, con citazioni brillanti e inattaccabili. Devo affiliarmi ad un club rispettato, solido, influente. Per fare tutte queste cose non posso perdere tempo con scuole e libri: mi serve un giornale! Voglio un giornale!
***
Ma in tutto questo bailamme di duelli, assalti e parate, la Verità che fine fa? Beh, punto tutto sulle magiche virtù dell’effetto collaterale. Magari senza volerlo si fa viva, magari scocca per un attimo nel cozzo delle sciabole in forma di scintilla. Teniamo comunque gli occhi aperti, non si sa mai!
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