martedì 31 dicembre 2019

IL ROBOT CHE TI LICENZIERA'

Marco Bentivogli, uno dei sindacalisti più stimati in circolazione, ha scritto un libro sul tema del futuro: occupazione e robot. Non l'ho letto, anche se ho intenzione di farlo, ma prima di attaccare ho intenzione di riordinare le idee che mi sono fatto in proposito in questo post: mai presentarsi di fronte alla lettura in forma di tabula rasa!
Man mano che software e hardware si potenziano, in molti si preoccupano che l'automazione crescente porti ad una sorta di crisi economica. Di fronte a questa minaccia c'è chi invoca un reddito universale e chi invece vorrebbe tassare le macchine. Ma oggi la disoccupazione tecnologica è davvero un problema? A livello mondiale, i tassi di occupazione sono sui livelli storici. Ciò sembra dimostrare che i lavori creati tengono il passo con quelli automatizzati. La prospettiva per alcuni lavori in particolare resta rosea: assistenza sanitaria, energie rinnovabili e diverse professioni informatiche. Per altri volge al grigio: segretarie, impiegati, assemblatori, manutentori di tecnologie obsolete come treni o orologi da polso. L'automazione sembra soprattutto minacciare le medie competenze: cio' ha spinto a specializzarsi oppure a rassegnarsi ad assumere lavori meno prestigiosi.
Ma guardiamo al passato: prima della rivoluzione agricola, quasi tutti erano cacciatori e/o raccoglitori. Durante il periodo compreso tra l'8000 e il 4000 a.C., ci fu la grande riconversione all'agricoltura. Prima del 1400, circa il 70% dell'intera occupazione era in agricoltura. Oggi, nelle economie avanzate, è solo un 1-5% della forza lavoro è in quel settore. Al suo apice, durante la seconda guerra mondiale, quasi il 40% dell'occupazione era nell'industria produttiva. Oggi quel numero è inferiore al 10. Anche il lavoro casalingo è crollato da 60 ore settimanali nel 1900 a solo 15 ore settimanali oggi. Ecco, nel corso di queste drammatiche transizioni il lavoro complessivo, lungi dal diminuire, è anzi cresciuto!
Un'altra variabile da tenere d'occhio è il PIL. Prima del 1000 d.C., il PIL pro capite era ovunque inferiore a 1000 dollari. Oggi nei paesi occidentali è di circa 50000 dollari. Poiché le doti naturali dell'uomo non sono cambiate, l'aumento di produttività è dovuto alla tecnologia (istruzione, processi, strumenti, macchinari, know-how), che consentono alle persone di produrre più valore per ogni ora di lavoro. Ciò significa, è una metafora, che ad ogni persona si sono affiancati circa 49 "robot". Tuttavia, l'occupazione è allo stesso livello di sempre, per cui questi 49 robot che lavorano al nostro posto jon ci hanno affatto sostituito. Certo, resta vero il fatto che se il ritmo dell'automazione del lavoro fosse molto rapido potrebbe non esserci il tempo per le persone di riqualificarsi abbastanza velocemente, il che causerebbe tassi di disoccupazione più elevati. Non sembra però che siamo a questo punto.
Volendo fantasticare possiamo chiederci se ci sono cose in cui i computer non supereranno mai l'uomo. In passato l'elenchino è stato fatto: scrivere barzellette, scrivere romanzi, esprimere compassione, cucinare in modo creativo, agire in modo creativo, rappresentare e inventare concetti, astrarre da pochi dati disponibili, esprimere emozioni, darsi una motivazione, avere un'intelligenza sociale e collaborare. Oggi si è molto meno fiduciosi sul fatto che queste aree restino vergini. I ricercatori sono consapevoli dei limiti dell'automazione tradizionale e stanno attivamente cercando di trovare modi per eluderli: esistono già robot che raccontano barzellette, scrivono romanzi, eccetera. Il fatto è che chi afferma che una macchina non può provare emozioni, tira il sasso e nasconde la mano: può infatti sempre dire che la macchina si comporta COME SE provasse un'emozione ma in realtà non ha nessuna coscienza dell'emozione stessa. La coscienza, infatti, è qualcosa su cui nessuno puo' indagare, non abbiamo nessuna idea di come testare se la coscienza fenomenica sia presente in una persona, in un animale o in una macchina. Tuttavia, ai fini dell'assunzione per un posto di lavoro, è sufficiente la capacità di simulare accuratamente le emozioni, non di provarle. Quindi concluderei dicendo - in modo un po' pessimistico per i lavoratori - che le macchine possono sostituire l'uomo in ogni lavoro.
Quali lavori saranno automatizzati a breve? Alcuni studiosi hanno provato a rispondere dando importanza alla destrezza manuale, allo spazio di lavoro, alle posizioni scomode, alla creatività e alla percezione sociale del ruolo. Si giunge alla conclusione che circa metà dei lavori saranno automatizzati in breve tempo. Ciò include la maggior parte dei lavori amministrativi, dei lavori legati alla vendita, alcuni lavori di servizio e la maggior parte dei lavori di produzione e trasporto. Tuttavia, altri studiosi mettono in rilievo la formazione ideale sarà comunque un mix uomo macchina. Tenendo conto di questi aspetti, solo un 10% dei posti di lavoro risulta essere a rischio.
Alla fine, tuttavia, tutte le abilità umane saranno automatizzabili, anche se molto probabilmente non saremo testimoni di questo passaggio nelle nostre vite. Non sembra che ci siano limiti fisici fondamentali che lo impediscano. I computer continueranno ad aumentare di capacità fino a quando saranno in grado di svolgere qualsiasi compito intellettuale richiesto ad un essere umano. Quando i costi di sviluppo e implementazione della tecnologia scenderanno sotto il costo del lavoro, i lavoratori saranno inevitabilmente sostituiti. Il prezzo dell'informatica è in costante calo ormai da diversi decenni e non ci sono limiti a questo miglioramento.
Vi sono, tuttavia, alcuni lavori che per una certa sensibilità sociale pretenderemo che siano svolti da un essere umano. Per esempio: produzione di articoli fatti a mano, creazione di opere d'arte, cucina, arti e spettacolo ( recitazione, danza, cabaret, ecc ...), servizio domestico (servitori personali come maggiordomi, giardinieri, ecc.), sport, parrucchieri e simili, massaggi e altri servizi alla persona, alcuni aspetti dell'assistenza medica, alcuni aspetti dell'insegnamento (motivazione, tutoraggio), alcuni aspetti della guerra (decisioni su quando usare la violenza), servizi religiosi, servizi mortuari, politica.
Con l'automazione, quali effetti economici dovremmo aspettarci? Intorno al 1800, l'economista Jean-Baptiste Say sostenne che i lavoratori spiazzati dalle nuove tecnologie avrebbero trovato lavoro altrove una volta che il mercato avesse avuto il tempo di adeguarsi. In seguito Marx avrebbe chiamato l'idea di Say "teoria della compensazione". Ciò include un'occupazione aggiuntiva nel settore dei beni strumentali, una riduzione dei prezzi, nuovi investimenti e nuovi prodotti. Say ebbe ragione e, in generale, questa è ancora l'opinione prevalente tra gli economisti. Secondo la teoria di Say, il fatto che certi lavoratori vengono licenziati dalle macchine, libera il capitale che il proprietario utilizzerà per assumere altri lavoratori in modo da svolgere altri lavori. Per questo motivo, il numero di lavoratori assunti non diminuisce a causa dell'automazione, anzi, aumenta. Inoltre, l'automazione riduce i prezzi dei beni, rendendoli più convenienti. Riduce anche i prezzi dei componenti, rendendo possibili nuovi prodotti. Le aziende che producono questi beni realizzano maggiori profitti, cio' consente di investire e assumere. A causa di questi effetti, finché il mercato avrà il tempo di adattarsi, non dovremmo aspettarci di vedere livelli crescenti di disoccupazione. È possibile che questo processo continui fino al punto in cui tutti i lavori saranno eseguiti dalle macchine. In teoria, fino a un attimo prima, la "legge di Say" è in vigore. Penso che Bentivogli abbia in mente dinamiche del genere visto e considerato l'ottimismo che ostenta.
Altri concludono che in futuro l'automazione eserciterà comunque una pressione al ribasso sui salari, aumentando nel contempo l'importo guadagnato dagli azionisti. L'automazione spinta migliorerà gli standard di vita poiché la quantità di valore prodotto pro capite aumenterà sempre di più. Un altro effetto potrebbe essere la riduzione dell'orario di lavoro - man mano che l'automazione procede, si potrebbe impiegare lo stesso numero di persone, ma con meno ore a settimana o più giorni di ferie all'anno. E' lecito attendersi che man mano che le macchine avanzano, sempre più persone si troveranno sotto la linea di galleggiamento, incapaci di trovare un lavoro che l'IA non possa fare meglio, saranno forse quelli con il QI più basso o qualcosa del genere.
Supponiamo di arrivare al punto in cui i robot potranno fare letteralmente qualsiasi lavoro. Cosa succederà all'economia? Le persone continueranno probabilmente a dirigere le fabbriche, specie quelle che fabbricano robot. Ma la maggior parte delle persone non lavorerà più: o vivrà di rendità, o con i benefici elargiti da un welfare state ricchissimo. Fino a che punto l'economia ridistribuirà la ricchezza generata da questa economia, è una questione politica. Una cosa è certa: se sarà possibile creare macchine con intelligenza e abilità a livello umano, sarà possibile anche andare oltre, ovvero creare, magari a cura dei robot intelligenti stessi, macchine con intelligenza e abilità sovrumane, il che complica tutto e rende ogni previsione velleitaria.
Conclusione: anche se quasi tutti i posti di lavoro attualmente esistenti alla fine saranno automatizzati, man mano che avanziamo verso quel punto, continueranno ad essere creati nuovi posti di lavoro, prevenendo il tipo di disoccupazione di massa o bassi salari, purché il mercato abbia il tempo di adeguarsi. La politica dovrebbe limitarsi a gestire delle transizioni. Un problema potrebbe sorgere se i ritmi dell'innovazione dovessero accelerare. Tuttavia, una volta che le macchine supereranno le capacità umane, giungeremo ad un punto di "singolarità", l'intera economia che conosciamo si muterà in un oggetto misterioso e non possiamo dire più nulla nel merito, i nostri modelli economici diventerebbero carenti e il futuro imprevedibile. Un po' come la fisica tradizionale che si ritrova impotente nel descrivere il cuore del buco nero. Ci sarà chi vivrà di rendita e chi di welfare, ma in realtà non sappiamo nemmeno fino a che punto gli uomini controlleranno l'economia e la loro civiltà, per non parlare del modo in cui funzionerà l'occupazione. Ad ogni modo, i guadagni economici che derivano da tutta questa automazione affluiranno principalmente a coloro che possiedono le macchine. Investendo di più, creeranno nuovi prodotti, spenderanno di più, pagheranno più tasse e faranno più beneficenza, la civiltà in generale ne trarrà un beneficio. Una cosa è certa: la ricchezza in circolazione sarà incredibile rispetto agli standard attuali. E la felicità? Boh.

lunedì 30 dicembre 2019

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forse loss aversion non esiste

lo si confonde con l'effetto sopravvivenza: perdere troppo significa morire.

infatti loss aversion c'è solo su grandi scommesse
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LA BUONA POLITICA INFORMATA AL PECCATO ORIGINALE.

LA BUONA POLITICA INFORMATA AL PECCATO ORIGINALE.

La dottrina politica di ogni buona destra si fonda sulla dottrina teologica del peccato originale.
L'uomo di destra sa bene l'albero da cui hanno mangiato i nostri progenitori: quello della Conoscenza. Quindi sa bene l'insidia a cui siamo più soggetti: l'abuso della conoscenza.
L'uomo di destra sa che gli sforzi umani per controllare la contingenza sono essi stessi soggetti alla medesima contingenza che vorrebbero controllare. I problemi di fondo non si risolvono con un decreto legge o con una tecnologia, perché tali rimedi sono soggetti alle stesse insidie che intendono correggere. Il governante ha i limiti del governato, non è né migliore né peggiore: se il governato non fosse un peccatore, non avrebbe bisogno del governante; se il governato è un peccatore, allora anche il governante lo è, e non risolverà mai i problemi del primo, al limite li amplificherà. I 3/4 della buona politica dovrebbero essere costituiti da inazione e preghiera.
La risposta risoluta a tutto questo è che si tratta di una compiaciuta e cinica razionalizzazione. Ma il problema o è reale o non lo è. Il modo giusto di rispondere alla destra illuminata dal peccato originale è indicare dove sbaglia.
Qualcuno potrebbe reagire dicendo che la destra ha ragione ma anche se fosse vero che non possiamo risolvere tutti i problemi con una legge, possiamo comunque migliorare la nostra condizione. Purtroppo, pensando in questo modo ci si dimentica che i vizi arrivano in coppia. Se c'è il pericolo di arrendersi troppo presto, c'è anche il pericolo di spingersi troppo in là. L'insistenza nel cercare soluzioni laddove non ce ne sono è una ricetta per perdere tempo, risorse ed energia emotiva. Un tipo del genere è inoltre destinato ad esacerbare la demagogia e la partigianeria. Qualcosa di cui davvero non abbiamo bisogno.
Un politico che promette soluzioni a un problema che ha la preghiera come unica soluzione, incamera un ovvio vantaggio rispetto a chi riconosce francamente che il problema può essere al massimo gestito e non risolto. Ha anche un incentivo a demonizzare l'avversario come nemico del progresso umano.
La politica democratica scatena al massimo l' illusione che per ogni problema, c'è un colpevole da biasimare. Una volta tolto di mezzo il colpevole, sarà possibile varare la "mitica riforma" e le cose andranno meglio.
Il vantaggio politico di pensare in questo modo è enorme: la massa vuole qualcuno con idee e fiducia in se stesso, non qualcuno che sui temi più complessi si affidi alla Provvidenza. Il primo è uno che sa, uno che accusa, uno con un piano, uno con la pallottola d'argento in canna, con la leggina giusta nel cassetto.
Il secolarismo potrebbe essere un'altra fonde di illusioni. È più facile accettare il fatto che alcuni problemi siano semplicemente parte della condizione umana, e quindi senza un colpevole, quando il tuo cuore attende un'aldilà. Al contrario, se pensi che questa vita sia tutto ciò che c'è, allora il fatto che alcune delle sue miserie non possano essere risolte ti getta nella disperazione. Sarai più portato a credere che ci sia sempre una soluzione, e di conseguenza a demonizzare coloro che la negano.
Tuttavia, non trovo del tutto convincente questo argomento, talvolta è proprio la religiosità a favorire l'illusione che ci sia un colpevole responsabile del male. In effetti, capita spesso che siano i meno religiosi a professare un maggior scetticismo. Se pensi che non ci sia un creatore benevolo e nessuna provvidenza divina, potresti essere più incline a pensare che gran parte del male è semplicemente il risultato inevitabile di forze fuori controllo. D'altro canto, le persone religiose possono anche essere inclini a sopravvalutare la responsabilità umana per il male commesso, e dietro questo istinto si annida spesso una cattiva comprensione del peccato originale. E' proprio questo il tema che vorrei affrontare nel resto del post.
La pena del peccato originale è essenzialmente una privazione piuttosto che una maledizione (con annesso "danno positivo"), e in particolare la privazione di una guida soprannaturale. Dopo la cacciata dell'Eden la natura umana resta buona, ma è fortemente limitata. Ad esempio, data la nostra dipendenza dai corpi, siamo fortemente limitati nella conoscenza. Se siamo nel posto sbagliato al momento sbagliato o conosciamo le persone sbagliate, siamo destinati a cadere in errore e questi errori si mescoleranno nel tempo creando un caos dove ogni tentativo di orientarsi risulta inaffidabile. E questo sarebbe vero anche a prescindere da eventuali peccati che potremmo commettere. I nostri guai sono semplicemente un sottoprodotto dei nostri limiti. Avremmo bisogno di una guida sicura a cui affidarsi; nel Paradiso Terrestre c'era, ma, da quando i nostri progenitori hanno scelto di fare da soli, quella guida ha preferito rispettare la nostra volontà lasciandoci vagare nelle tenebre esattamente come avevamo chiesto.
Alcune persone, invece, sembrano pensare che ogni cosa brutta che ci accade sia in qualche modo una punizione per l'errore dei nostri primi genitori (come una specie di karma), In breve, c'è la tendenza a pensare che il peccato originale comporti una cattiva azione dietro ogni cosa cattiva che accade. Ma questo è un malinteso con ripercussioni sulla politica! Quando una persona scivola e cade da una scogliera o contrae una malattia o perde tutto il suo denaro nel mercato azionario, la dottrina del peccato originale non implica che quei danni specifici siano stati meritati come punizione (da lui o dai nostri primi genitori). Disgrazie di questo tipo sarebbero evitate solo con un aiuto divino che i nostri genitori hanno scelto di rifiutare. In questo senso non ci sono colpe particolari, nessuno puo' governare il caos/complessità, nessuno puo' prevedere cosa potrebbe succedere nel caos/complessità. Se c'è un embrione di colpa è proprio in chi si illude e pensa il contrario (Adamo, Eva, il politico progressista). Costui perpetua il peccato originale: non fa del male, magari il suo cuore è anche buono, semplicemente non riconosce dei limiti. Potremmo definirla, al massimo, una forma di stupidità.
In conclusione, l'azione umana può sembrare così maligna che è più facile cadere nella trappola di pensare che quando accade qualcosa di brutto, dietro ci sia qualcuno da incolpare, o che coloro che si oppongono a un rimedio proposto devono avere motivazioni malvagie. Tuttavia, è proprio la dottrina del peccato originale ben compresa che ci aiuta a guarire da questo istinto riformatore/accusatore che ci minaccia da sempre da vicino.

I LUSSI DELLA SOCIETA' ATOMIZZATA


Le circostanze che promuovono il benessere materiale, disgregano la coesione sociale? Un tempo avrei risposto di no, oggi ho molti più dubbi e sto cambiando idea. Forse modernità e coesione sociale sono davvero incompatibili.

Per coesione sociale intendo un forte senso di appartenenza, una solidarietà verace, una grande fiducia nella reciprocità e nel trovare un "senso" nello stare insieme sacrificandosi l'uno per l'altro. L'esempio canonico è quello di una piccola unità militare che combatte la sua battaglia. La coesione sociale monta al crescere delle difficoltà affrontate dal gruppo.

Purtroppo, la società moderna ha perfezionato l'arte di non far sentire le persone necessarie. Ci sei o non ci sei, fa lo stesso, non cambia molto. Una base alquanto fragile per "fare gruppo". Chi cerca il benessere materiale, cerca di fatto grandi società, anonimia, specializzazione nei ruoli e riduzione al minimo delle difficoltà materiali, tutti fattori che depotenziano la socilaità e spingono l'individualismo.

In passato vivevamo in piccoli gruppi precari, sempre sotto la minaccia di qualcosa, ci conscevamo tutti e tutti erano indispensabili o quasi. Abbiamo così sviluppato un bisogno di coesione. In un libro ho letto esempi originali di questo nostro istinto, eccone alcuni davvero curiosi: 1) molti coloni occidentali in esplorazione del nuovo mondo lasciarono volentieri la "civiltà" per unirsi alle tribù native, ma raramente accadeva il contrario. 2) Ci siamo evoluti per dormire in gruppo, solo ultimamente abbiamo messo i bambini nelle loro camerette (da leggere). 3) Ci piacciono i film (e spettacoli in genere) in cui le comunità sono perennemente in crisi (di solito c'è un maschione che affronta una minaccia esterna; una femmina che lo aiuta con le dinamiche di gruppo; un uomo che non riesce a stare nel branco e se ne va in cerca di se stesso facendo una brutta fine e un uomo che, essendo stato mandato via dalla comunità per il suo comportamento problematico, ritorna e si riscatta. 4) Durante le guerre, solidarietà e reciprocità conoscono i loro picchi. Quando sei nelle canne impari ad andare d'accordo con le persone, anche con gli antipatici. 5) L'ultimo esempio che ricordo riguardava le stragi nelle scuole americane: non succede mai nelle aree più povere e ad alta criminalità. I giovani protagonisti hanno una vita materiale confortevole.

L'atomizzazione della sociatà, prima di essere un guaio è un lusso che ci concediamo: si genera in mancanza di situazioni davvero difficili da affrontare. Non essendoci pericoli reali vicini cerchiamo di inventarcene qualcuno lontano. L'esempio del riscaldamento globale è perfetto: mai gruppo umano sulla terra si è mai minimamente preoccupato di fenomeni che forse si potrebbero realizzare ad un secolo di distanza! Solo il pensiero religioso dell'apocalisse è stato tanto lungimirante. Probabilmente, dietro c'è il bisogno di lanciare allarmi che ci consentano di ricostruire un tessuto sociale che va sfaldandosi.

Mi chiedo se esista un modo per conciliare il benessere con il senso di comunità. Sono scettico: a parole vogliamo più unità ma di fatto respingiamo alcune delle condizioni essenziali per formarla. Preferiamo vivere comodamente che affrontare guerre o altre privazioni. Preferiamo scegliere con cura le persone con cui stare anziché farci piacere gli arroganti, e preferiremmo associarci a squadre, partiti politici o stili di vita anzichè con le persone del nostro quartiere. Con la prosperità abbiamo acquisito il diritto a queste scelte e non intendiamo rinunciarci anche se l'inevitabile conseguenza è l'atomizzazione della società.

Se, poi, la religione è uno strumento di coesione sociale, la secolarizzazione crescente si spiega: quando il collante del gruppo cessa di essere prodotto, la religione viene accantonata, o diventa al più un partito politico o una squadra di calcio. Abbassare i livelli di welfare state potrebbe essere l'uovo di Colombo per rinvigorire religione e coesione sociale: a parità di ricchezza, avremo più rischio e più pericoli; quindi, maggiori reti sociali. Ma siamo pronti? La rimpiangiamo veramente la coesione sociale?

domenica 29 dicembre 2019

MEDJUGORJE: PERCEPIRE DIO.

MEDJUGORJE: PERCEPIRE DIO.

Ci sono persone che hanno esperienze spirituali insolite, si tratta di qualcosa che valutano come molto significativo. Tuttavia, per me è difficile interpretarle e collocarle nella vita ordinaria. Personalmente, non ho mai "incontrato Dio", non mi sono mai trovato faccia a faccia con lui. Come giudicare chi invece riferisce di averlo fatto? Stando alle polemiche infuocate sull'argomento, non sono l'unico a pormi problemi del genere. E' in gioco la natura stessa della realtà. Le esperienze spirituali sono spesso viste attraverso una lente culturale e mi chiedo come normalizzare il racconto di cio' che è stato percepito. So anche che non c'è niente di più facile che alterare i ricordi soggettivi. Sia come sia, possiamo imparare collettivamente qualcosa da questi fatti straordinari?
Ma cos'è un'esperienza spirituale? In genere per noi l'esperienza conoscitiva origina dai sensi, la scienza, un sapere su cui facciamo grande affidamento, dice di seguire quella via. Secondo i più fu nell'Inghilterra del 1660, negli incontri della Royal Society di Londra, che la scienza acquisì la forma di indagine empirica che riconosciamo come nostra: una pratica sperimentale aperta e collaborativa, mediata da strumenti appositamente progettati e supportato da un discorso civile e critico che insiste sull'accuratezza e la replicabilità. Tuttavia, l'empirismo è stato reso popolare come concetto filosofico solo nella prima metà del 20esimo secolo da personaggi come AJ Ayer, Rudolf Carnap, Kurt Gödel, Karl Popper e Ludwig Wittgenstein. Da allora, prese varie forme e ci furono molti disaccordi sul suo reale significato. Emerse presto il fatto che l'empirismo è in un rapporto ambiguo con la pura razionalità. È facile riconoscere i limiti e i mille modi in cui l'esperienza umana ci inganna. Tuttavia, per chi ritiene che tutti gli input attendibili della cognizione umana siano di natura sensoriale, la cosa pone un problema. Il razionalismo puo' allora aiutare postulando che alcune proposizioni possano essere conosciute anche per intuizione e per deduzione. Ma l' intuizione ha una natura ambigua e non si puo' certo negare che in essa l'esperienza possa giocare un ruolo, il che riproporrebbe l'instabilità del fondamento. Tuttavia, affiancare l'intuizione ai sensi tradizionali riconcilia il buon senso con la scienza e offre un quadro filosofico promettente. Ecco allora che anche una buona parte dell'empirismo ha cominciato a sganciarsi dai puri sensi naturali.
Quando si tratta di questioni di spiritualità, un materialista respingerebbe tutti gli appelli all'esperienza soggettiva e al metafisico, l'unica causa plausibile sarebbe per lui di natura neurologica / biochimica. D'altro canto, non è quello che farebbe un empirista "intuizionista". E' difficile fare un discorso sulla spiritualità eludendo l'esperienza. In questi casi uno parla essenzialmente di sé, delle sue intuizioni, e alla fine resta il tribunale ultimo di tutta la vicenda. Anche se, sia chiaro, parliamo comunque di esperienze universali: la spiritualità può essere teistica, oppure no. Esempi di spiritualità teistica sono facili da trovare. Un esempio di approccio non teistico alla spiritualità si trova in Waking Up di Sam Harris, che sostiene l'uso della meditazione derivata dalle pratiche buddiste per raggiungere stati di coscienza alterati. Oppure ricordo gli incontri su Radio Tre con la spiritualità laica di Luigi Lombardi Vallauri. Forse con questi approcci alternativi si favorisce la conversazione sulla natura empirica dell'esperienza spirituale. I termini religione e spiritualità sono molto simili nel significato, ma quello del primo è più ristretto poiché confinato ad un contesto tradizionale o istituzionale. La spiritualità è qualcosa di più ampio, include anche chi cerca il sacro al di fuori di sistemi socialmente o culturalmente definiti. Ad esempio, la spiritualità di un individuo può includere sentimenti di devozione, ricordi di un'esperienza mistica, ribellione contro certe costrizioni, un senso di unità con tutta la vita senziente. Ci si volge al sacro in tutte le sue forme. Tuttavia, la religiosità, di solito, non è vista come incoerente o un ostacolo alla spiritualità. In effetti, la spiritualità è forse la funzione principale della religione: l' energia religiosa aiuta molte persone a integrare il sacro in modo più completo nei loro percorsi spirituali.
Ci sono ormai numerosi studi psicologici sull'esperienza spirituale. In genere si riconosce un valore probatorio alle esperienze religiose/spirituali, qualcosa che suggerisce l'esistenza di una realtà trascendente variamente vissuta. I sondaggi disponibili dicono che tra 1/3 e 1/2 della popolazione ha avuto una sorta di esperienza religiosa significativa. Tali esperienze sono correlate al genere, all'istruzione e alla classe sociale, essendo più comuni per le donne, per le persone con un'istruzione superiore e per quelli di classe superiore. In genere sono associate con la buona salute e con il benessere psicologico. Spesso non sono condivise con gli altri, forse è per questo che sono a torto ritenute non comuni. A causa della natura personale delle esperienze spirituali, la raccolta di dati sull'argomento viene spesso realizzata attraverso sondaggi, questionari e interviste. Si ritiene che l'accuratezza sia buona poiché i falsi positivi si bilanciano (i religiosi sbagliano affermando a cuor leggero di avere avuto esperienze spirituali, gli anti-religiosi sbagliano negando a cuor leggero di averne avute). L'innesco dell'esperienza include la preghiera e la meditazione, ma sempre di più anche l'uso di sostanze psicoattive. Visto che l'approccio per auto-segnalazione resta problematico si discute di altri tipi di misurazione, come quelle fisiologiche e comportamentali. Uno studio ha indicato che l'esperienza spirituale (leggendo il Salmo 23) sollecita i lobi frontale e parietale, mentre l'esperienza non religiosa della lettura del Salmo 23 sollecita l'amigdala. Sulla base di questi risultati c'è chi ha proposto che l'esperienza religiosa sia probabilmente un processo cognitivo che utilizza connessioni neurali stabilite tra i lobi frontale e parietale. Sia gli individui normali che quelli psicotici possono avere esperienze mistiche: i mistici psicotici presentano "resistenza e rigidità", al contrario del mistici normali esibiscono "apertura e fluidità". Quindi non è semplicemente l'esperienza mistica, ma le reazioni a tale esperienza a distinguere i mistici psicotici dai normali.
Alcuni psicologi evoluzionisti sostengono che l'esperienza religiosa è nata in quanto vantaggio adattivo: si spazia da una difesa contro la paura della morte a altre forme di conforto e riduzione dell'ansia. Ma anche, a livello di gruppo, la promozione della coesione e della solidarietà o la riduzione dei conflitti. Tuttavia, qui manca il consenso necessario, sono ancora molti a vedere queste manifestazioni come sotto-prodotti (sprandel) di altre funzioni. Ad esempio, un meccanismo utile per distinguere gli oggetti animati e inanimati nel mondo, può essere distorto per produrre animismo psicologico e antropomorfismo nei culti, come quando ci troviamo a maledire il nostro computer quando si blocca. Le teorie dello sprandel sono popolari tra gli scettici religiosi; alcuni hanno notato che in un mondo pericoloso sbagliarsi nel percepire una presenza intelligente ha conseguenze meno dannose rispetto a sbagliarsi nel non percepirle.
I neuropsicologi, tuttavia, indicano la presenza di una combinazione di "operatori cognitivi" nel cervello che darebbero origine alla religiosità umana. "Il termine" operatore cognitivo "si riferisce semplicemente ai meccanismi neurofisiologici che sono alla base di alcune grandi categorie di funzioni cognitive. Pertanto, questi operatori non esistono nel senso letterale, ma possono essere utili quando si considera la funzione cerebrale complessiva. Cio' che mi fa risalire dall'impronta al predatore, mi fa risalire dal mondo a Dio. L'operatore olistico permette alla realtà di essere vista come un tutto.
Ma l'esperienza religiosa è di una tale ricchezza che chi la studia seriamente mette in guardia da ogni riduzionismo: è pericoloso ridurre la ricchezza e la complessità dell'esperienza religiosa al proprio costrutto psicologico preferito. Occorre fare di tutto per evitare che l'esperienza religiosa venga ridotta a specifici processi psicologici. In un certo senso il processo è inevitabile nello studio scientifico. Tuttavia, il riduzionismo è spesso accompagnato da una perdita di informazioni, ad esempio culturali, sociali, familiari, affettive... Sebbene gli scienziati non possano confermare nessuna affermazione ontologica basata sull'esperienza mistica, possono costruire teorie compatibili con l'esistenza di tali realtà. C' è chi ha sostenuto che il tabù scientifico contro il soprannaturale può essere infranto, purché si possa dimostrare che le ipotesi sul soprannaturale abbiano conseguenze empiriche. Del resto persino la fisica postula l'esistenza di realtà inosservabili (bosone, positrone, elettrone...) ma che sono apprezzabili in virtù delle conseguenze empiriche che discendono dall'averle postulate. La fonte delle previsioni può infatti fare riferimento anche all'inosservabile e all'intangibile. D'altro canto i mistici basano la loro esperienza sullo stesso tipo di processi che utilizzano gli empiristi: l'esperienza diretta. Una persona autorevole è anche un mistico autorevole. Di conseguenza, l'esperienza mistica puo' essere autorevole anche per chi non l'ha vissuta. Certi scienziati sono spesso troppo frettolosi nel vantarsi di aver minato certe affermazioni mistiche. Se una persona credibile ci parla di una sua esperienza noi siamo tenuti a credergli fino a prova contraria, e questa prova contraria di solito non si trova mai nei dati a cui accede la scienza la quale, anzi, spesso conferma l'esistenza di una tale esperienza interiore.
I dibattiti sull'esistenza di Dio hanno spesso incluso l' "argomento dell'esperienza religiosa"; i sostenitori dell'esistenza citano le proprie esperienze e ne sottolineano l'universalità. Ma qui non mi interessa la natura teistica di queste esperienze, mi interessa solo sapere come si "percepisce Dio". Di certo la "percezione di Dio" offre un importante contributo alla credenza. Sono venuto a sapere che molte fedi si fondano sull'esperienza diretta e arrivano a Dio senza presupporlo. E' incredibile perché personalmente sento questa via molto lontano da me: mai e poi mai ho sentito Dio parlarmi.
In molti sostengono che gli individui dovrebbero scartare razionalmente la propria esperienza personale di natura mistica. Ma non vedo cosa ci sia di razionale in una simile mossa. La razionalità è individuale, non interessa il lato pubblico e persuasivo della faccenda. L'esperienza del divino è una prova che dovrebbe indurre lo sperimentatore razionale ad aggiornare le proprie convinzioni a favore di una maggiore probabilità che il divino esista. Perché no? Non esiste alcuna ragione filosofica per cui dobbiamo pensare che queste percezioni non abbiano un valore probatorio simile da altri tipi di percezioni. Spesso è dato per scontato che "l'esperienza religiosa" sia un fenomeno puramente soggettivo. Ma una simile posizione si puo' tranquillamente sfidare. Le esperienze religiose, infatti, condividono tutte una dimensione comune all'esperienza ordinaria; la percezione spirituale puo' essere paragonata alla percezione naturale. C'è anche chi sostiene che non non sorgano internamente e non sino soggettive nel loro inizio. La "consapevolezza diretta" di qualcosa - fisica o mistica - è indipendente dalle credenze, dal giudizio o dai concetti dell'oggetto della consapevolezza. Ciò è in generale in accordo con l'idea di "conoscenza" dei razionalisti come Russell o degli empiristi come Moore. Certo che se invece la percezione è mediata dalla credenza, allora coloro che credono in Dio potrebbero facilmente interpretare un evento non spirituale attraverso i loro presupposti spirituali. Ma anche se il resoconto di un individuo sulla fenomenologia della propria esperienza non è infallibile, deve certamente essere preso sul serio. Chi è in una posizione migliore per determinare se Marija sta vivendo una certa esperienza? Occorrono validi motivi per scavalcare la sua opinione! Di solito chi lo fa ha al più motivi filosofici.
La difesa filosofica del veggente sarebbe di questo tipo: 1) Una convinzione percettiva deriva dal fatto che si sta percependo un oggetto. 2) Questa convinzione deve formarsi principalmente da un'esperienza sensoriale/intuitiva. 3) Una convinzione percettiva non deve mai fondarsi su credenze a priori. 4) Se una credenza ha una base percettiva adeguata, allora è giustificata. Nel veggente 1, 2 e 3 sono soddisfatte? Allora ne discende 4).
E' inevitabile che ci siano delle credenza precedenti ma tali credenze non devono essere necessarie nella formazione della credenza percettiva. Se Dio mi appare come amore, allora ciò contribuirà a giustificare la convinzione che Dio è amore; se questa percezione è l'unica causa della mia credenza, allora la mia credenza è prima facie giustificata.
Per alcune persone, le esperienze avute in coma sono una forma avvincente di esperienza spirituale che può alterare la vita di chi le prova. C'è chi in quello stato crede di aver incontrato Dio, gli angeli o altri esseri spirituali. In alcuni casi estremi, alcuni hanno affermato di aver ricevuto informazioni che sarebbero obiettivamente confermabili da altri. Alcuni di coloro che hanno avuto esperienze simili hanno scritto libri popolari raccontandole e discutendole. Sebbene i contenuti e le interpretazioni siano diverse, le esperienze pre-morte sono comuni nel mondo moderno. Tra coloro che si avvicinano alla morte, la percentuale di chi ha esperienze va dal 35 al 45%. E ci sono molti punti in comune, le somiglianze sono più sorprendenti delle differenze. Tali esperienze non sono sempre conformi ai desideri o alle aspettative preesistenti dell'individuo, non sono cioè confortanti fantasie. Un altro argomento a supporto dell'autenticità sono i loro effetti duraturi e trasformativi. Età, sesso, razza, residenza, istruzione, occupazione, educazione religiosa, presenza in chiesa, conoscenza scientifica di questi processi, sono tutte variabili con effetti trascurabili sulla probabilità della visione. Le vittime di suicidio in cerca di annientamento, i fondamentalisti che si aspettano di vedere Dio sul tavolo operatorio, gli atei, gli agnostici e i sostenitori del carpe diem trovano un'equa rappresentazione nei ranghi di chi ha avuto esperienze di pre-morte. E le loro risposte alle domande del sondaggio mostrano che, nonostante tutte le implicazioni religiose dell'esperienza di pre-morte, le credenze di una persona su Dio non determina il contenuto delle visioni. Tuttavia, vi sono forti obiezioni nel vedere le esperienze pre-morte come spirituali, si tratta di esperienze che per definizione si verificano in momenti di grande danno e stress, in un momento di funzionamento anomalo del corpo, questo induce a considerarle come effetti collaterali del danno subito, mere allucinazioni del sistema nervoso. Un'altra obiezione suggerisce che la privazione sensoriale porta all'esperienza pre-morte, ciò spiegherebbe i punti in comune di queste esperienze. Un'altra critica al carattere spirituale è il concetto secondo cui la psicologia umana tenterà sempre di negare la morte; la mente ricorrerà a qualsiasi stratagemma per fuggire la prospettiva del proprio annientamento.
Tuttavia, per ogni singola obiezione si possono portare casi non ricompresi, i ricercatori citano statistiche che mostrano una relazione inversa tra esperienza pre-morte e condizioni patologiche che alterano la mente. Ad esempio, l'esperienza pre-morte sembra inibita dagli effetti di droghe e anestetici. Per questo motivo, sembra improbabile che i farmaci siano responsabili dell'insorgenza di alcunché. Sostenuti dalla testimonianza collettiva di centinaia di soggetti, i ricercatori mettono a confronto la felicità e la lucida qualità dell'esperienza di pre-morte con la confusione, l'ansia e le distorsioni percettive che accompagnano i disturbi più vari, ma senza rintracciare correlazioni importanti. Chi insiste su cause indotte non si arrende e ne cita diverse tutte plausibili, tuttavia, se ci fossero diverse cause alla base delle visioni, perché la loro natura è così coerente? In altre parole, diversi processi biochimici non produrrebbero diversi tipi di esperienze? Se la coerenza è una componente sorprendente delle esperienze per-morte, sembra improbabile che ci sia una mancanza di coerenza nelle loro origini. E poi è giusto stare in guardia contro una visione troppo riduzionista quando un simile trattamento non viene riservato all'esperienza comune: dopo tutto, non solo le visioni straordinarie ma anche i normali stati di coscienza sono collegati ad eventi elettrici e chimici nel cervello. Rendere la testimonianza di pre-morte un'arena per mettere in scena vecchie battaglie filosofiche o teologiche non giova, è più fruttuoso considerare le visioni pre-morte come minimo come il frutto di un'immaginazione religiosa. Anche chi non crede a una realtà spirituale oggettiva è meglio che pensi questi fatti come se avessero comunque un significato personale e culturale.
L'uso di sostanze psicoattive è fonte di marcate esperienze spirituali e mistiche. Studiare questi casi aiuta poiché sappiamo tutto di cio' che sta all'origine. Le tradizioni religiose hanno posizioni ambivalenti sui danni e i benefici del loro impiego, ad ogni modo è sorprendente il fatto che sembrino offrire in modo tanto affidabile la garanzia di "viaggi" spirituali che la maggior parte dei soggetti considera significativi, sebbene il contenuto di queste esperienze vari enormemente. C'è chi testimonia un dissolvimento del "senso di sé", un'unione a forze soprannaturali, una consapevolezza "vasta, benevola, eterna, pacifica..." che sembra più reale della realtà di tutti i giorni. L'esperienza mistica farmacologica, a quanto pare, ha molte più somiglianze che differenze rispetto all'esperienza mistica non farmacologica; inoltre, un numero incredibile di atei che l'hanno provata si sono successivamente convertiti. Sembra che la sostanze psichedeliche siano la più efficace fonte di conversione! In genere si ha la sensazione di comunicare con qualcosa che possiede gli attributi di un essere cosciente, benevolo, intelligente, sacro, eterno e onnisciente. Chi la prova ne parla come di un'esperienza mistica completa, nonché come una delle cose più importanti della propria vita
Il Venerdì Santo del 1962, un ricercatore (Walter Pahnke) somministrò la psilocibina ad alcuni volontari tra gli studenti di teologia poco prima della Messa, non ricordo più dove ma su Wiki c'è tutto. I risultati furono eclatanti: quasi tutti i soggetti hanno riferito di esperienze profonde che hanno continuato a considerare significative per il resto della loro vita (come confermato dal follow-up decenni dopo). Alcuni hanno descritto l'esperienza come la più potente esperienza spirituale della loro vita, il che è degno di nota perché erano generalmente già credenti che si apprestavano ad intraprendere carriere religiose legate alla loro fede cristiana. I volontari hanno chiaramente capito che gli veniva somministrato un farmaco, ma la cosa non sembrava ridurre l'importanza spirituale attribuita successivamente alla loro esperienza. Un partecipante disse che la sua attenzione si fissò su particolari caratteristiche melodiche e liriche di un inno cantato durante il servizio, sia la sua formazione musicale che l'educazione cristiana sono confluite in quella concentrazione così particolare indotta dalla psilocibina: una progressione musicale di routine veniva trasformata nel più potente ritorno a casa cosmico mai sperimentato. L'esperimento, sempre secondo questo soggetto, "... ha ampliato la mia comprensione di Dio offrendomi l'unica potente esperienza che abbia mai avuto... da sempre credevo che Dio è amore e che nessuna sfumatura dell'amore poteva essere assente dalla sua infinita natura; ma che Dio mi amasse così direttamente non lo avevo mai provato in vita mia... è una modalità di fede che non mi era mai venuta naturale..."
Sam Harris avverte che se esperienze spirituali potenti e importanti possono essere indotte da psicofarmaci dovremmo essere cauti nel prenderle come prove per specifiche affermazioni metafisiche e dottrinali. Cosa significa un'esperienza spirituale? Se sei un cristiano potrebbe significare che Gesù Cristo è sopravvissuto alla sua morte sacrificandosi per te. Se sei un indù ti racconterai una storia completamente diversa. Per Harris questa diversità mina ogni pretesa metafisica specifica, mentre per altri è un incoraggiamento a rintracciare elementi comuni nelle diverse tradizioni di ricerca della verità.
I Misteri Eleusini erano un'antica tradizione greca praticata per migliaia di anni in relazione al culto della dea Demetra e alla storia della discesa agli inferi di sua figlia Persefone. Le cerimonie associate potevano essere praticate solo in un sito specifico vicino alla città di Eleusi. I partecipanti dovevano ricevere una formazione specifica per essere ammessi, occorreva giurare anche di mantenere taluni segreti legati ai riti. Sebbene tornassero poi alla loro vita normale, praticamente tutti prendevano il voto estremamente sul serio, quindi oggi sappiamo ben poco di quello che succedeva esattamente a Eleusi. Molti alludevano a qualche tipo di contatto con la divinità durante l'iniziazione, e alcuni hanno affermato di non aver più paura della morte. I Misteri hanno smesso di essere celebrati con l'ascesa del cristianesimo e nessuno li ha più sperimentati per più di un millennio e mezzo. Ma cosa succedeva durante quel culto? Un fatto interessante è che a tutti gli iniziati veniva data una bevanda chiamata kykeon, la ricetta è andata perduta a causa proprio del voto al silenzio, ma ci si è spesso chiesti come le persone potessero esserne così influenzate. Negli anni '60, due eminenti studiosi pubblicarono un libro sostenendo che il Kykeon conteneva sostanze derivate dal fungo ergot. Pubblicarono successivamente numerosi altri libri sostenendo che le religioni di tutto il mondo usavano tradizionalmente sostanze psicoattive per facilitare l'esperienza del divino e che le dottrine religiose, le narrazioni e i rituali sono spesso, almeno inizialmente, basati sulla droga. Ma è interessante notare che gli studiosi che sostengono l'impiego di droghe degli iniziati eleusini non intendono sfatare l'autenticità del misticismo sottostante. Questa è una stranezza per molti scettici.
C'è infine il problema del sogno. Il sogno è un'esperienza umana universale che ci rende scettici sull' esperienza, questo perché i sogni di solito ci sembrano così reali e così importanti. Tuttavia, la cultura occidentale moderna dà per scontato che i sogni non siano veritieri, e che al massimo potrebbero rivelare o rafforzare qualche ricordo. La nostra rappresentazione neuropsicologica del sogno li interpreta come uno sforzi istintivo del cervello per dare un senso al "rumore" casuale, ma si tratta di un'interpretazione molto originale rispetto alla tradizione, in passato veniva regolarmente associato a eventi esterni. Ma tutte le culture hanno dovuto fare i conti con l'effimero dei sogni e il modo in cui il loro contenuto è nella migliore delle ipotesi inaffidabile. Molte esperienze spirituali potrebbero essere sospettate di avere origine in sogni. Oppure, i sogni forniscono semplicemente un'analogia che mostra che le nostre menti sono talvolta in grado di produrre esperienze che sembrano autentiche e importanti. Un contro-argomento è che non dovremmo dubitare delle nostre esperienze semplicemente perché a volte ci sbagliamo nel valutarle, come nel caso dei sogni. Altrimenti, cadremmo nello scetticismo radicale su tutta la nostra conoscenza ed esperienza. Ad esempio, Descartes usa l'esperienza del risveglio da un sogno in cui aveva creduto mentre è durato come una pietra miliare della sua motivazione per impegnarsi a dubitare di tutto. Il filosofo cinese Zhuang Zhou afferma di non sapere se era un uomo che sognava di essere una farfalla o una farfalla che sognava di essere un uomo. Nel film Inception ci sono persone che, abituate all'esperienza del "risveglio" all'interno di un sogno, non sono sicure di quante volte devono ancora svegliarsi per tornare alla realtà del risveglio.
Alla fine di questo viaggio non ci resta che adottare un atteggiamento di grande umiltà verso questi fenomeni: lo scettico dovrebbe andarci con i piedi di piombo prima di "negare", ma anche il credente deve essere prudente: supponiamo che Dio parli agli uomini, la sua comunicazione potrebbe non essere sempre compresa. In questo senso potrebbe essere utile riflettere sulla storiella dei ciechi e dell'elefante: un certo numero di ciechi si imbatté in un elefante e tutti cominciarono a toccarlo nel tentativo di descriverlo. Il disaccordo imperava perché chi palpava il fianco diceva che era come un muro, mentre un altro palpava la proboscide e lo descriveva come un serpente, un terzo alle prese con le zampe lo vedeva come una colonna. Eccetera, eccetera, eccetera. Che morale trarne? Qui ci si divide perché c'è chi vede ogni cieco credere erroneamente nella verità esclusiva della propria dottrina professata a priori. Tuttavia, altri concludono che le differenze radicali nella percezione non provano affatto l'inesistenza dell'elefante. Le persone soggette ad esperienze spirituali potrebbero vedere qualcosa di reale, ma la loro descrizione potrebbe non essere completa. Anche se siamo tentati di accantonare i resoconti spirituali a causa delle loro incoerenze, non dovremmo scartarli completamente perché potrebbero mantenere comunque un valore probatorio, sebbene in un modo più limitato o complicato di quanto gli autori di chi li fornisce credano.

sabato 28 dicembre 2019

LA FILOSOFIA DEL RAGIONIERE

Poiché sono un ragioniere non ho mai studiato filosofia, e questo è stato sempre un mio cruccio. Qualcuno potrebbe parlare di frustrazione. Poi però ho scoperto che nemmeno al liceo si studiava filosofia, piuttosto "storia della filosofia", qualcosa di cui francamente faccio volentieri a meno. Per me una scoperta del genere è stata un vero sollievo.
La confusione tra filosofia e storia della filosofia è molto diffusa e si riflette indirettamente in una distinzione comune nella filosofia contemporanea tra stile "analitico" e stile "continentale".
La cosiddetta filosofia analitica si pratica principalmente nei paesi di lingua inglese (Inghilterra, USA, ecc.). I filosofi “analitici” pensano che il compito principale della filosofia sia quello di risolvere i problemi, di spiegare i significati delle parole e analizzare i concetti. Il loro obbiettivo è sostanzialmente quello di esprimere chiaramente le loro tesi, di fornire argomentazioni logiche a supporto e di rispondere poi alle obiezioni formulate da chi non è d'accordo con loro. Facile, puo' capirlo anche un ragioniere. Se un filosofo analitico sta discutendo di giustizia, per esempio, di solito comincia specificando cosa intende con la parole "giusto" e come collega il concetto di giustizia a quello di equità o correttezza.
I "filosofi continentali" sono generalmente molto meno chiari su ciò che stanno dicendo. Ad esempio, non definiranno esplicitamente i termini prima di procedere. Usano molti riferimenti indiretti senza alcuna spiegazione letterale. E' come se dessero molte cose per scontate, come se preoccupazioni del genere siano risolte dalla conoscenza della "storia della filosofia". Oppure si aspettano che le cose assumano una loro forma più definita nel corso della discussione che loro stanno iniziando. Quando avanzano un'idea, in qualche modo danno pure degli argomenti per sostenerla, ma è difficile isolare le premesse e le fasi successive di quel ragionamento che li ha condotti ad affermare cio' che sostengono. Un autore continentale non ti direbbe mai che il suo ragionamento si fonda su tre premesse, per poi elencarle come (1), (2), (3) (un passaggio obbligato per gli "analitici"). Nemmeno affrontano direttamente le obiezioni. In genere scrivono libri lunghissimi e molto discorsivi. Hanno un loro gergo ma non sembra giovi molto alla sintesi o alla comprensione. Autori del genere fanno crescere la frustrazione del ragioniere pagina dopo pagina. Quando non capisci un autore analitico sai che devi studiare di più, ma se non capisci un autore continentale sei in mezzo alla palude, non sai bene cosa devi fare, il dubbio è che tu debba realmente conoscere tutta la storia della filosofia, ovvero fare il liceo. Le opere della filosofia continentale, inoltre, spesso flirtano con il soggettivismo o l'irrazionalismo.
I filosofi generalmente tendono politicamente a sinistra, come un po' tutti gli intellettuali. Ma i filosofi continentali hanno inclinazioni ancora più pronunciate. Heidegger, il padre della filosofia continentale moderna, era letteralmente un nazista. Diciamo che i "continentali" hanno maggiori probabilità di avere opinioni politiche estreme, folli, orribili. Tra loro i comunisti e i fascisti spuntano come funghi. Non si può menzionare la distinzione analitico/continentale senza menzionare il disaccordo tra Martin Heidegger/Rudolf Carnap. Il secondo considerava i capolavori del primo un misto di banalità e nonsense.
La differenza tra le due scuole è innanzitutto di stile. Gli analitici sono più naive, offrono tesi chiare, argomenti logici e rispondono alle obiezioni. Il loro scopo ideale è quello di migliorare la conoscenza e la comprensione del mondo. Il filosofo non deve, ad esempio, confondere le persone, impressionarle con una prosa rutilante o per come padroneggia la storia della filosofia, non deve esporlo alla contemplazione di frasi ben tornite inducendolo a tacere e smettere di interrogarti. Per aumentare la conoscenza e la comprensione filosofica di un lettore, si deve generalmente dargli buone ragioni per credere a ciò che si sta dicendo. Se, invece, il lettore adotterà il tuo punto di vista a causa della tua abilità retorica, magari perché colpito dalla squisita raffinatezza di una prosa in grado di sopire ogni dubbio, allora non avrà acquisito conoscenza e comprensione della materia trattata.
Mi sembra chiaro che un ragioniere intimorito di fronte al colossale corpo di conoscenze filosofiche prodotto dall'umanità nel corso dei secoli, si rivolga agli analitici, ovvero a coloro che considerano la "storia della filosofia" qualcosa di completamente diverso dalla filosofia, un po' come uno scienziato considera la storia della fisica qualcosa di completamente diverso dalla fisica. Se si puo' infatti essere ottimi fisici senza conoscere la storia della fisica, se si puo' addirittura vincere il premio Nobel senza sapere nulla della fisica di Aristotele; allora, forse, si puo' comprendere un filosofo anche senza aver fatto il liceo o conoscere autori superati come Platone e Aristotele.
L'altra cosa da sottolineare è che le tesi più comunemente associate ai filosofi continentali sono sbagliate, a volte persino sconcertanti. Questo non li rende molto attraenti per un semplice ragioniere assetato di verità.
Per esempio, la filosofia continentale nega spesso l'esistenza di una realtà oggettiva. A volte sembra dire, ad esempio, che quando chiudo gli occhi, il resto del mondo esca in qualche modo dall'esistenza. Come se il mondo esistesse solo se percepito dagli uomini o comunque da un osservatore. Per la persona comune e per i filosofi analitici un mondo che esiste indipendentemente dagli osservatori è invece facilmente immaginabile e ipotizzabile. Negarlo sembra assurdo. L'errore dei continentali sta nel confondere l'affermazione che un determinato oggetto della conoscenza è rappresentato da una mente particolare con l'idea che il suo essere rappresentato da quella mente fa parte del contenuto stesso della rappresentazione. In altre parole: dal fatto che posso immaginare la Terra solo usando la mia mente, non consegue che posso immaginare la Terra solo come immaginata da me.
Uno si chiede il perché di simili gaffe che perpetuano gli stereotipi verso il filosofo con la testa nelle nuvole. Lo strano soggettivismo dei continentali serve forse per alimentare un poetico scetticismo che troppo spesso li seduce ispirando loro pagine su pagine dotate di un certo afflato più che di un contenuto reale. Come nel loro stile, l'idea centrale non è mai espressa in modo rigoroso, ci si limita ad evocarla all'incirca così: "è impossibile per noi sapere qualcosa senza usare le nostre menti, i nostri schemi concettuali, i nostri occhi... pertanto, non ha senso parlare delle cose come sono in se stesse, e nemmeno ha senso l'idea di "realtà oggettiva"..."
Insomma: "poiché abbiamo occhi con cui vedere, siamo ciechi". L'argomento degli "occhi" percorre la filosofia continentale in lungo e in largo, viene riproposto ossessivamente trattando dei temi più disparati. Un continentale non ti dirà mai che ritiene una certa sua affermazione vera al 40%. Farà invece la sua affermazione corredandola con il pleonastico argomento degli occhi. Il filosofo australiano David Stove ha battezzato questo argomento "The Gem" bollandolo come "il peggior argomento mai concepito nella storia della filosofia".
I filosofi continentali non amano molto la razionalità. Inutile dilungarsi sul perché invece un filosofo dovrebbe costituire l'epitome della razionalità, penso che sia fondamentalmente una tautologia: il pensiero razionale non è altro che il pensiero senza errori. Per essere onesti, poche persone diranno apertamente: "ehi, sono irrazionale, e dovresti esserlo anche tu!". Ma puoi leggere molti autori continentali che rifiutano i principi centrali della razionalità, come quello dell'obbiettività e della coerenza.
Ma perché una simile sconcertante idiosincrasia? Il fatto è che se eludi la razionalità puoi continuare a sostenere le tue convinzioni sbagliate, in qualche modo, in questi casi, percepisci implicitamente che razionalità e obbiettività sono i tuoi nemici. Devi anche evitare di essere chiaro nella tua esposizione. La nebbia, la parzialità e la confusione sono elementi chiave per coltivare false credenze. L'esistenzialismo, una tipica filosofia continentale, ti lascia libero di credere e fare quel che vuoi, purché sia "autentico", ma per poter elargire un simile dono ai suoi adepti deve presentarsi come particolarmente confusa, disarticolata e zeppa di tesi ingiustificate. Direi che ci riesce benissimo, e non a caso nei licei europei è sempre andato fortissimo.
Ma anche la filosofia analitica nasconde una sua "miseria". Il suo problema principale è che è troppo... analitica.
Le affermazioni analitiche sono vere in virtù del significato delle parole che usano. Tipo: "tutti i rombi hanno quattro lati" e "il presente viene prima del futuro". Sarà per questo che i filosofi analitici passano gran parte del loro tempo a parlare del significato delle parole. Bello! Ma dopo un po' ti rompi i coglioni... e vorresti affrontare qualche problema sostanziale. Non so quante persone pensano ancora che il compito della filosofia sia di analizzare il linguaggio e roba del genere. Spero che non siano molti. Ma il passato pesa e ancora oggi ne circolano parecchi con questa sindrome: neuroni rubati all'agricoltura.
Il primo problema specifico della filosofia analitica è dato dal fatto che la gran parte delle sue analisi sono "infruttuose". La chiarezza non riesce a creare consenso: su quasi tutti i problemi maggiori si resta divisi, e quando le divisioni persistono per decenni è segno che non si saneranno mai. La conoscenza non si cumula, altro che scienza. Per contro, molte analisi semantiche sono così contorte che risultano di fatto inutili. Esempio, le analisi di cui ora discutono gli epistemologi sono così complicate e confuse che nessuno usa il termine "conoscenza" avendo in mente il loro lavoro. ma a che servono? Alla comprensione teorica dei filosofi accademici? È questo ciò di cui abbiamo bisogno? Un chiarimento dei termini che impegna decenni di riflessione per arrivare a conclusioni lontane dall'uso effettivo che viene fatto di quelle parole sembra uno spreco colossale.
Ad ogni modo, una buona dose di dibattito nella filosofia analitica, anche quando non si tratta direttamente dell'analisi semantica, degenera comunque in una noiosissima analisi semantica. niente di più palloso e inconcludente.
Esempio: quando un'affermazione è "giustificata"? Ci si divide tra internalisti ed esternalisti. I secondi ritengono che una credenza sia vera quando è verificata da una certa procedura descrivibile esteriormente. Gli internalisti invece pensano che il cuore della giustificazione sia il buon senso e l'intuizione, ovvero qualcosa che non si puo' descrivere se non come stato mentale dell'osservatore. "La neve è bianca" è vera solo se la neve è bianca. Ecco, questo scontro mi sembra uno scontro senza molta sostanza, uno scontro più sulle parole che sulle cose: l'internalista accetta buona parte di cio' che dice l'esternalista e viceversa, ma i due hanno modi diversi per esprimersi. E intanto la gente - scienziati compresi - continua tranquillamente a utilizzare il termine "giustificazione" senza aspettare di certo che i filosofi analitici decidano cosa significhi.
Altro esempio, ci sono dibattiti in metafisica sull'esistenza degli "oggetti compositi". Esistono veramente? C'è chi lo nega e pensa che se prendi alcune particelle elementari, non c'è nulla che tu possa farle per assemblarle e realizzare un oggetto autonomo. Quindi, per esempio, le tabelle non esistono, le persone non esistono, ecc. Altri filosofi affermano invece che gli oggetti possono comporre altri oggetti. Se hai un oggetto A e un oggetto B, allora c'è sempre un terzo oggetto che ha sia A che B come parti. Immaginatevi l'interesse delle persone per una questione del genere, immaginatevi l'ansia con cui si attende il verdetto, immaginatevi l'attesa con cui si attende che la filosofia analitica dirima la questione.
Ma c'è qualcosa di ancora più grave: i filosofi analitici, ahimé, decidono quali domande porsi in base alla possibilità di applicare o meno il loro metodo (definizione/deduzione). Risultato: parlano solo di cazzate. Pardon, affrontano temi che non interessano nessuno eludendo le domande che contano realmente. Nel solco di Wittgenstein ("di cio' di cui non si puo' parlare si deve tacere") finiscono per produrre solo noia e virtuosismo intellettuale fine a se stesso. Ci si chiede perché non si dedichino alla settimana enigmistica.
Esempio: qual è il motivo per cui dovremmo obbedire al governo? Il filosofo analitico trasforma la domanda in modo da renderla più "trattabile". Tipo: come dovrebbe essere in astratto un ordine politico ideale? Qui comincia ad elencare le condizioni, tutte rigorosamente astratte. Tutti i paroloni con accezione positiva (libertà, uguaglianza, bene, giustizia) vengono tirati in ballo senza specificazione significativa. A questo punto si potrebbe osservare che, poiché nella realtà non esistono governi del genere, non esiste un obbligo di obbedienza. Ma a questa conclusione il filosofo analitico non arriverà mai poiché si tratta di un'affermazione con un contenuto empirico, non gli riguarda. Purtroppo per il lettore, è anche l'unica affermazione interessante. In breve: il filosofo analitico è uno specialista nel sostituire la domanda che conta con una domanda di cui non frega niente a nessuno (se non forse ai suoi colleghi), perché quest'ultima non gli chiede di alzare il culo dalla sua poltrona.
Altro esempio, in passato ho cercato di affrontare in modo analitico il problema teologico del male. Ecco un modo semplice per comprenderlo: Dio, se esiste, dovrebbe essere onnisciente, onnipotente e buono. Ora, se Dio non è a conoscenza di tutti i mali del mondo, allora non è onnisciente. Se è consapevole del male ma non è in grado di fare nulla al riguardo, non è onnipotente. Se è consapevole del male ed è in grado di eliminarlo, non è buono, visto che quel male esiste. Un bel problema per i credenti. Un modo per risolverlo consiste nel mettere in evidenza come Dio, avendo concesso all'uomo una libertà radicale, ha in qualche modo limitato la propria onnipotenza. Osservando la reazione di un filosofo analitico impegnato nel difendere la posizione atea, ho notato che considerava questa risposta "inammissibile". Motivo? "Rettificava le premesse": non si puo' difendere una tesi ridefinendola. Avete capito bene, a un filosofo del genere non interessa nulla di come stiano le cose, lui è solo preso nei suoi giochetti di parole, e se uno fa un passo indietro, rimette a posto certi concetti in modo che quadrino le cose, tutto quello che ha da dire è che "non vale", come se si stesse facendo un gioco in cortile. Ho trovato questo caso sorprendente. Quindi, se si scopre che esiste un essere estremamente potente, intelligente e buono che ha creato l'universo, ma l'essere non è in grado di fare tutte le azioni logicamente possibili, allora questo essere non desta alcun interesse per il filosofo analitico? Un tipo del genere è più preso dai giochi di parole che dalla comprensione della realtà. Capisco che ci siano casi in cui difendere una tesi ridefinendola la rende poco interessante. Ad esempio, se difendessi il "teismo" definendo "Dio" come definisco la "Natura", ciò snaturerebbe la mia difesa. Ma il caso del dio onnipotente è molto diverso!
Conclusione. la filosofia migliore su piazza è quella che utilizza il rigore degli analitici ma affronta i temi dei continentali.