Un saluto e un ringraziamento a Tom e a Simon de Cyrène che hanno reagito al mio commento precedente.
Fortunatamente, la dura vita del pendolare mi regala qualche momento libero cosicché da questo treno vorrei fare qualche precisazione.
Cominciamo da Popper, che in fondo è il minore dei problemi.
Popper puo' essere visto come il propugnatore di uno schema epistemologico originale, oppure come l' ennesimo critico dell’ induttivismo.
Nel primo caso, parliamo di colui che ha proposto la “grande asimmetria” tra verificazione e falsificazione. Il suo schemino è originale quanto logicamente impeccabile, senonché non descrive affatto il processo scientifico come realmente si realizza: non spiega, per esempio, come paradigmi "falsificati" da tempo, in mancanza di meglio, siano rimasti centrali ancora a lungo.
Per non dire della complessità che caratterizza sia le procedure di verifica che quelle di falsificazione, pratiche che dipendono a loro volta volta da teorie; la cosiddetta "falsificazione" si limita a constatare una mancata corrispondenza tra due o più teorie e non si pone quindi mai nei termini di esperimento cruciale, come vorrebbe lo schemino del filosofo austriaco.
Nel secondo caso, Popper è solo l' ennesimo cantore dei limiti dell' induttivismo .
Ma forse lo sminuiamo se lo inseriamo in una schiera tanto folta: da Bertrand Russell ai neopositivisti, sono in tanti ad aver messo i puntini sulle "i" in materia. Oserei anzi dire che forse i maggiori critici dell’ induttivisto sono da ricercare tra coloro che hanno deciso di adottarlo come minore dei mali.
Con questo una ripassa non fa mai male, una rinfrescatina è sempre commendevole purché si tenga presente che è come ricordare al chirurgo di lavarsi le mani prima di operare.
Porrei piuttosto l' attenzione sul fatto che queste lacune dell' induttivismo non implicano necessariamente il "relativismo", anche se, non lo nego, fanno la gioia di molti "relativisti".
Riflettiamo: un sapere puo’ dirsi assoluto se 1) implica una conoscenza certa della cosa oppure se 2) implica un progresso certo nella conoscenza della cosa. Ora, l' induttivismo, con tutti i suoi limiti, non può certo ambire a 1) ma la via per ambire a 2) e lasciarsi alle spalle il pericolo relativista non è sbarrata a priori.
Vedere come si puo' sfondare ci consente di passare al probabilismo.
Senz'altro la probabilità è un costrutto intellettuale, come dice Simon de Cyrène, ma questo implica forse che ci sia necessariamente interdetta la conoscenza del reale?
Bisogna andarci cauti poiché tra "epistemologie internaliste" - fondate su facoltà del soggetto - e realismo c' è comunque compatibilità logica.
Partiamo dall’ esperienza quotidiana, un luogo dove è difficile avere dubbi in merito.
Consideriamo la realtà ingenua del senso comune: gli scommettitori razionali puntano sulla base del calcolo probabilistico, i detective si basano sugli stessi criteri, così come pure i giudici che comminano anni di galera ai nostri concittadini. Ma anche metereologhi, economisti e ingegneri e bla bla bla fanno lo stesso. Tutti costoro ci parlano della realtà in termini probabilistici. E tutti noi ascoltiamo e prendiamo nota, preoccupandoci se le quote di una nostra riuscita sono alte, rimettendoci al giudizio della corte, consultando il meteo, affidandoci alle banche, abitando le nostre case ecc...
Il matrimonio tra probabilismo e realismo del senso comune si celebra tutti i giorni, fino a qui ci sono pochi dubbi.
Ma si tratta pur sempre di un... "volgare realismo del senso comune". Niente a che fare con la cosa in sé, dice il metafisico doc.
Personalmente non sono così liquidatorio.
Vogliamo nobilitare una cosa tanto volgare al fine di renderla più sofisticata? Allora bisogna affiancare al probabilismo una filosofia del senso comune di un certo peso.
Ci sono problemi a farlo? Io penso proprio di no: da un classico della modernità come Thomas Reid a un ateo come Mike Huemer passando per il teismo di Richard Swinburne, le proposte di una filosofia che faccia accedere il senso comune alla conoscenza dell' ente in sé fioccano e la loro qualità è di tutto rispetto.
Purtroppo queste filosofie sono rimaste a lungo frustrate e sappiamo bene a chi attribuire la "colpa".
A David Hume, innanzitutto (non a caso l' arci nemico del Reid menzionato sopra). In particolare alla sua critica della teologia naturale, poi ripresa e messa a punto niente meno che da Kant.
Quando si schierano compatti due colossi del genere, difficile che un' idea faccia molta strada. Come se non bastasse, visto il raggio d' influenza dei due, il "blocco" ha agito sia nella tradizione anglosassone che in quella continentale.
Eppure, se andiamo a rileggere gli argomenti originali, sembrano tutt' altro che impermeabili. Forse c' è stata un po' troppa frettolosità nello seguire i maestri su questo punto.
In merito, solo un rammarico. I due erano grandi ammiratori delle scienza naturali, peccato per le loro date di nascita (anzi di morte) perché se solo avessero conosciuto certi sviluppi, se solo avessero potuto constatare che ormai è consuetudine per tali scienze formulare ipotesi su eventi inosservabili (perchè troppo grandi o troppo piccoli o troppo vecchi…), probabilmente avrebbero addolcito la loro cr