I miracoli non vanno considerati come violazioni dell'ordine naturale da verificare scientificamente, ma come narrazioni che svolgono una funzione sociale e spirituale all'interno della comunità dei credenti. Questi racconti creano significato, ispirano speranza e rafforzano i legami comunitari. Il loro valore, una volta scartata la loro confutazione empirica, non risiede nemmeno nella loro verificabilità empirica, ma nella loro capacità di produrre effetti concreti nella vita delle persone. Inutile cercare una purezza evangelica originaria, libera dalle stratificazioni storiche. Anche perché la tradizione dei miracoli non è un'aggiunta impropria ma uno strumento che la comunità ha sviluppato per dare forma concreta all'esperienza della santità. La contrapposizione tra "etica dell'agape" ed "etica della santità" è pretestuosa: i miracoli e le canonizzazioni non sono necessariamente espressioni di un'ossessione per la perfezione individuale, ma possono funzionare come sprone a quell'attenzione agli altri che Bruni considera esclusivo. I santi non sono modelli di perfezione irraggiungibile, quanto esempi concreti di come l'amore per gli altri possa manifestarsi in modi straordinari nella vita ordinaria. Il desiderio - guidato da un improvvido complesso di inferiorità - di riformare la Chiesa eliminando gli elementi "non razionali" impoverirebbe il suo potenziale di dialogo con la contemporaneità. In un'epoca di tecnicismo e razionalismo estremo, il linguaggio dei miracoli potrebbe offrire uno spazio per esprimere dimensioni dell'esperienza umana che sfuggono alla pura razionalità strumentale. Non si tratta di opporre fede e ragione, ma di riconoscere la molteplicità dei linguaggi attraverso cui gli esseri umani danno senso alla loro esistenza.